Ute Lemper, Giovanna Marini e la questione del tempo

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ph Damiano Fiorentini

 

Per chi ne ha poco o niente, di tempo, potremmo dir così: Ute Lemper ha aperto ieri sera a Imola il programma, bellissimo, dell’Emilia Romagna Festival, che proseguirà fino al 9 settembre: andate, andate, andate; qualche mese fa il mitico Centro di ricerca musicale Angelica di Bologna ha dato alle stampe, nella preziosa collana I dischi di Angelica, Te deum per un amico di Giovanna Marini: compratelo, compratelo, compratelo.

Per i tempi e gli spazi a cui i social ci hanno abituato sarebbe già fin troppo lunga, come sintesi.

Potremmo chiuderla qui, con un piccolo spot, ancorché sincero, ma faremmo un torto alle artiste in questione e alle due autorevoli realtà che in questa occasione han dato loro spazio e voce.

E alla nostra -di ciascuno e ciascuna- complessità.

In tal senso, allora, diamo conto, per frammenti, e in parallelo, non tanto di queste artiste, o di queste realtà produttive e curatoriali: la loro storia e fama parlan da sé, sarebbe ridicolo far qui un riassuntino.

Piuttosto, prendiamo l’occasione di questo nostro doppio imbatterci fortuito nelle recenti proposizioni sopra nominate per procedere, per via rizomatica, a condividere alcuni pensieri.

 

 

Punto di partenza sono alcune assonanze, banali ma lampanti, tra percorsi altrimenti affatto difformi.

Al centro di questi accadimenti due donne. Due grandi donne, si potrebbe aggiungere: autorevoli, rispettate.

A lato, il loro esplicito riferirsi a due grandi uomini: il musicista Astor Piazzolla, nel concerto di ier sera alla Rocca Sforzesca di Imola, il regista Giuseppe Bertolucci, dopo la cui morte Angelica ha commissionato la composizione alla Marini.

Inoltre, come detto, due storiche realtà produttive della medesima regione a dar fiato e spinta a tali progetti.

Altro elemento di vicinanza, altrettanto lampante: ogni dedica, o omaggio, o riferimento, è tale soprattutto quando dà luogo a nuove forme, o accadimenti, a partire dall’impulso (o forma, o accadimento) a cui il soggetto ha originariamente dato luogo.

Per dirla più concretamente: la rilettura che Ute Lemper fa del lavoro di Piazzolla è un omaggio tanto più la Lemper riesce a far diventare quello del Maestro argentino un suo -di lei- discorso.

 

ph Damiano Fiorentini

 

A proposito di affinità, e di complessità, ancora: entrambe le artiste propongono creazioni stratificate, intrise o meglio costituite di sfumature, che per cogliere appieno è opportuno ascoltare più volte e con grande attenzione. Può sembrar banale, ma per come va il mondo non è una scelta da poco, per loro e per chi dà loro spazio.

A fianco dell’indubbia maestria, ciò che salta agli occhi, o meglio alle orecchie, rispetto a quanto appena affermato è il porsi di queste artiste come dedite officianti al servizio del progetto musicale che le impegna: non vi sono ostentazione né sicumera, nel loro fare, piuttosto un approssimarsi accorto e non pacificato. Viene in mente Ernst Bloch, per cui la musica è balbettio di un bimbo, forma che tende alla condizione di linguaggio: non si tratta di dominare la realtà, neppure quella stramba della scena, ma sempre farsi sorprendere.

E commuovere: muoversi insieme. Entrambi i progetti, infatti, sembrano contemplare, se non intenzionalmente includere, l’atteggiamento critico proprio a tutta l’arte contemporanea: ciò che è offerto all’ascolto ha ben poco ha a che fare con l’idea classica di arte come organismo compiuto e autosufficiente, è piuttosto una testimonianza, un frammento colto in itinere di un inesausto processo conoscitivo, ancor prima che espressivo.

 

ph Massimo Golfieri

 

La questione del tempo, ancora: entrambe queste proposizioni appaiono sideralmente distanti da una concezione di opera vista come essenza racchiusa in un momento dato, idealisticamente frutto di un atto creatore che la produce una volta per tutte.

Di conseguenza anche l’innegabile, retriva soddisfazione che il fruitore può ricevere dall’affacciarsi nell’hortus conclusus di un(a) artista ed esaurire così l’esperienza estetica in una mera riproduzione dei ruoli sociali dominante-dominato (io ti guardo e tu ti fai guardare, io ti ascolto e tu ti fai ascoltare, io ti applaudo e tu ti fai applaudire, io ti pago e tu ti fai pagare, tu sei in luce e io al buio, tu sei in alto su un palcoscenico e io in basso in platea) – tutto questo rassicurante rapporto di forza viene sostituito da un porsi, tutte e tutti, insieme, di fronte a forme e forze che solo in parte si possono nominare, tanto meno controllare.

Ciò è ancor più lampante abitando, Marini e Lemper, mondi sonori d’altra epoca, certo troppo articolati per l’annichilente imbarbarimento dell’oggi.

Secondo un’estetica della ricezione che vogliamo ora sposare, l’opera d’arte in generale (aperta, direbbe Eco) e in modo ancor più evidente l’opera musicale è proiettata nel futuro, offrendosi al co-creatore (sia esso compositore, interprete o fruitore poco importa) e dispiegando la sua vita proprio nella molteplicità delle ri-creazioni possibili.

In tale preciso senso -lungi da noi brutalizzare la ricchezza delle proposizioni incontrate con “ci sono (o non ci sono) piaciute e vi spieghiamo perché”- sintetizziamo dicendo: sono opere che richiamano alla responsabilità, o almeno alla consapevolezza, del proprio ruolo, quale esso sia.

 

ph Damiano Fiorentini

 

Cosa tutto questo ha a che fare con la piacevolezza, o addirittura con la naturalezza, dell’ascolto di un concerto, o di un disco?

Su quest’ultimo termine, che certo potrebbe aprire riflessioni smisurate, vale ricordare che queste creazioni pongono al centro del fatto (per dirla con Deleuze) la voce umana.

Vien da pensare allora a un illuminante frammento di Giorgio Agamben (da Il linguaggio e la morte, 1982): «Avviene come quando camminiamo nel bosco e a un tratto, inaudita, ci sorprende la varietà delle voci degli animali. Fischi, trilli, chioccolii, tocchi come di legno o metallo scheggiato, zirli, frulli, bisbigli: ogni animale ha il suo suono, che scaturisce immediatamente da lui. Alla fine, la duplice nota del cucco schernisce il nostro silenzio e ci rivela, insostenibile, il nostro essere, unici, senza voce nel coro infinito delle voci animali. Allora proviamo a parlare, a pensare».

Buon ascolto, allora, di voci: di quella cristallina di Ute Lemper, delle molte orchestrate con grazia sapiente da Giovanna Marini, di quelle del mondo, della propria.

Che a riuscire a farla, la capriola, forse si intuirebbe che son poi una sola.