Con gli occhi aperti in un ruggito. DOM- ha camminato con Porpora Marcasciano, a Bologna

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Porpora che cammina - ph Gino Rosa

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È dal 2015 che Leonardo Delogu e Valerio Sirna, anime del collettivo DOM-, realizzano in diversi luoghi d’Italia e non solo il progetto L’uomo che cammina (otto le versioni o, meglio, le ri-creazioni, ad oggi).

Di camminate o passeggiate teatrali d’ogni tipo, è cosa nota, son zeppi i programmi di moltissime rassegne o Festival, soprattutto estivi, in particolar modo negli anni post-Covid: un po’ come nel Medioevo, quando i teatri non esistevano e il Teatro accadeva per amore e per forza nelle piazze, così moltə artistə negli ultimi anni si son datə agli spazi aperti.

Vi è però, vale forse ricordarlo, una differenza sostanziale tra chi usa lo spazio pubblico (urbano o naturale che sia) come fondale che possa contenere, ed eventualmente, abbellire, la propria opera performativa, e chi considera lo spazio elemento drammaturgicamente attivo: determinante nella creazione tanto e più degli elementi solitamente considerati punto di partenza e di destinazione d’ogni fatto scenico (in primis il testo, nella visione logocentrica che la cultura occidentale ha espresso da un paio di millenni, nelle arti sceniche et ultra).

 

Porpora che cammina – ph Daniele Mantovani

 

La ricerca di DOM- da dieci anni a questa parte è, in tal senso, un esempio luminoso di radicale fiducia fenomenologica: il camaleontico progetto L’uomo che cammina si rende permeabile, di volta in volta, a ciò in cui si imbatte, accogliendo anche profonde mutazioni interne per dar corpo e voce al paesaggio (urbano, naturale, sociale, umano et ultra) in cui -e da cui- viene, di volta in volta, ri-creato.

È massimamente spalancata, quest’opera-mondo, si potrebbe dire parafrasando Eco: nasce e rinasce ogni volta diversa nella forma ma fedele alla sua natura ontologicamente estetica, dunque etimologicamente conoscitiva.

 

Porpora che cammina – ph Daniele Mantovani

 

La struttura di base è riassumibile in poche parole: una persona cammina, a una decina di metri di distanza un piccolo gruppo di altre persone la segue, attraversando spazi diversi, urbani ed extra-urbani, per un manipolo di ore. Lungo il percorso DOM- dissemina con divertita sapienza una quantità di “trabocchetti” (musiche che ritornano, minime azioni performative, scritte evidenziate con un segno, …): il salutare effetto è quello di far progressivamente dubitare se ciò che si ha di fronte è occasionale o costruito, fortuito o intenzionale, portando le persone camminanti a “drizzare le orecchie” e a porre molta più attenzione alla propria relazione con uno spazio altrimenti spesso attraversato in maniera affatto anestetizzata, immersi nei propri pensieri se non nello schermo di uno smartphone.

La creazione bolognese, Porpora che cammina, fin dal titolo pone al centro la persona che dà impulso a questa esperienza, Porpora Marcasciano.

“Storica attivista trans”, la definisce Wikipedia.

Per quanto ci riguarda, ben più illuminante è l’approfondita intervista che le ha dedicato qualche mese fa Elena Sorbi (QUI), sulle pagine di questo stesso giornale.

In essa, Porpora parla della “continua ricerca di un luogo più adatto, più familiare”, elemento che ci sembra abbia connotato anche la creazione di DOM- a cui abbiamo partecipato a Bologna.

Nei pensieri (discorsi) di Porpora che ci è dato ascoltare, un po’ come novelli angeli wendersiani in cammino dall’autostazione di Bologna all’aeroporto attraverso paesaggi proteiformi, dal pomeriggio al buio, vi è la ricostruzione amorevole di una biografia che si fa luogo, per dirla con De Certeau, di opposte polarità: è dolente e gioiosa, umbratile e battagliera, irriducibile e accogliente.

Ricordi e pensieri su sé e sul mondo si intrecciano in una possibilità larga e altra di intendere il rapporto tra sé -un sé in primis corporeo- e il mondo.

“Parto sempre dal corpo” pensa (dice) Porpora “Lo ascolto mentre sono per strada, a letto, sul ciglio del giorno, da dentro le lotte e quando sono nei guai. Il mio corpo è la mia festa”.

E ogni festa, si sa, è luogo del noi, di una possibile condivisione.

Per come si è.

 

Porpora che cammina – ph Daniele Mantovani

 

Questo è un primo dono che Porpora che cammina ci fa: ricordarci che solo una cultura settoriale, o quella cattolica da cui siamo volenti o nolenti impestati, ci chiede di distinguere alto e basso, giusto e sbagliato -nelle identità, nei corpi-, laddove ogni fatto (Deleuze docet) semplicemente è, senza aggettivi: corpi-teatro vivi in uno spazio vivo.

“Con gli occhi aperti in un ruggito”, appunto.

Secondo dono: a partire dalla variazione nel titolo (da L’umo che cammina a Porpora che cammina) e dalla larghezza a cui abbiamo accennato, questa opera pare ridiscutere, con le caratteristiche che le sono proprie, la vetusta ma anche attualissima piaga del patriarcato, indicando possibilità altre di stare nel paesaggio quotidiano.

E facendolo in prima persona.

Partendo dunque dalla “necessità di fondare il posto da cui [si] parla”.

A dirlo è il già nominato gesuita, antropologo, linguista e storico francese Michel De Certeau in Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo.

Lì prosegue: “Tale posto non è affatto garantito da enunciati autorizzati (o autorità) sui quali il discorso poggerebbe, e neppure da uno statuto sociale del locutore nella gerarchia di un’istituzione dogmatica […] il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione”.

La propria biografia, in primis come corpo fra corpi, che si fa luogo: perfetto.

 

Porpora che cammina – ph Gino Rosa

 

Terzo dono: “La vita può essere compresa soltanto se ripercorsa all’indietro, ma dobbiamo vivere, andando avanti”, pensa (dice) Porpora citando Kierkegaard, camminando.

Questo apparente paradosso, nel dispositivo bolognese di DOM-, si invera e moltiplica, caleidoscopicamente, in una concretissima progressione a ritroso: la prima parte del cammino è guidata da Porpora, la seconda da Valerio Sirna, la terza da un bambino, a suggerire un andamento circolare, tipico ad esempio di alcune culture arabe, del nostro intendere la relazione con il reale, e con in tempo.

A tal proposito: se è vero che ogni proposizione performativa ha il tempo come elemento costitutivo, questo andare per ore, per di più dal giorno alla notte, rende matericamente irripetibile questo fatto (Deleuze, ancora). A ricordarci che ogni fatto è tale.

 

Porpora che cammina – ph Gino Rosa

 

Infine: la scelta di porre Porpora che cammina come anteprima del Festival Danza Urbana, che si terrà a Bologna a inizio settembre, rimanda a una idea molto larga di danza e di arte in genere, come le Avanguardie e in tal senso più specificamente le Neo-Avanguardie ci hanno insegnato. Connubio perfetto, in una concezione e una pratica vastissima di arte che dà a ciascuna persona la responsabilità del proprio percepire, dunque della propria relazione col reale, rendendo più esigente di vita la vita di ciascunə.

Puntando drittə, cioè, alla Rivoluzione.

“Ci vuole, ci vorrebbe, un’insurrezione di specie, una metamorfosi di specie”, pensa (dice) Porpora, ancora.

Con questa esortazione nelle orecchie prendiamo la navetta che dall’aeroporto ci riporta in centro città.

Che subito ci appare un po’ più grigia, anonima, muta di quando poco prima, insieme, si camminava.

 

Porpora che cammina – ph Daniele Mantovani

 

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