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A Montagne non si va soltanto per imparare a scrivere teatro, non soltanto per avere consigli e ritocchi drammaturgici. A Montagne si va una volta e poi si torna nel tempo a mostrare come il seme della messinscena dei venti minuti sia fecondato e finalmente sbocciato in una pièce vera e propria. È la storia che accomuna Roberto Capaldo e Federica Molteni qui anni fa con i loro testi e prove e indecisioni e che adesso hanno riportato a far vedere le loro storie proprio dove furono concepite, dove videro i primi vagiti, dove misero la testa fuori. Capaldo, nella sua narrazione scarna e senza scenografia né costumi, riesce con cambi di tonalità e piccole gestualità a portarci in un mondo fantastico dove gli animali parlano tra di loro ma soprattutto si capiscono con i bambini. La sua è una trilogia, Home Sweet Home, e siamo giunti al terzo capitolo, Scoiattolo e Leo. Il primo era Casa dolce Casa con Scoiattolo che risvegliatosi dal lungo letargo lascia la sua abitazione e si mette in cerca di un’altra casa dove vivere. Il secondo step era L‘intruso con Scoiattolo che trova vicino alla sua tana un animale mai visto prima e che vuole cacciare via. Il terzo (prod. Rebeloteatro/Residenza Idra) invece è appunto l’incontro, l’affetto, l’amore, la vicinanza e l’amicizia, tra il nostro roditore dalla pelliccia rossa e un bambino. Inutile sottolineare come dentro questi lavori di Capaldo per bambini vi sia una stratificazione di temi come la casa, le migrazioni, l’incontro tra culture, la criminalità, il bullismo, il razzismo tutti declinati nella metafora tra gli animaletti del bosco e della città e tra animali di specie diverse che devono unire le forze per raggiungere un comune obbiettivo. La storia tiene incollati adulti e bambini dentro questo viaggio on the road/romanzo di formazione per diventare tutti un po’ più grandi e maturi. Scioiattolo pensa che tutti gli umani si chiamino Leo ma il suo Leo è speciale perché giocano insieme, si divertono, si fanno le coccole, si abbracciano, si aspettano come il Piccolo Principe e la Volpe impazienti di vedersi, guardando oziosi le nuvole. D’estate si vedevano tutti i giorni mentre quando ricomincia la scuola possono vedersi soltanto un giorno a settimana ma quando per diverse volte Leo non si presenta all’appuntamento l’amico peloso sfiduciato, disilluso e triste decide, con le poche informazioni che Leo gli aveva fornito riguardo alla sua casa di città, di andare a cercarlo. Inizia un viaggio, fuori e interiore per sconfiggere le proprie paure, che ricorda quello di Pinocchio alla ricerca di Geppetto. E Scoiattolo nel suo peregrinare incontra Tartaruga e Talpa, Lucertola e Lombrico fino a trovarsi di fronte il temibile Automobile per poi imbattersi in due bande malavitose, quella dei Topi (novelli Gatto e Volpe ma che ci hanno anche ricordato le iene mafiose di Chi ha incastrato Roger Rabbit?) e quella dei Piccioni che si sono spartiti il territorio e il mercato del cibo trafugato. Attraverso indagini e incrociando dati roditori e pennuti aiuteranno Scoiattolo a ritrovare il suo amico che aveva avuto una malattia infettiva e non lo aveva abbandonato. L’unione fa la forza e chiedere aiuto non è sintomo di debolezza. Un racconto che fa sorridere, che apre il cuore, che ci fa tornare bambini quando tutto era possibile, quando era normale parlare con gli animali, quando credevamo ancora nelle favole. Home Sweet Home è un importante progetto per i cittadini di domani, con un narratore che riesce a comunicare sentimenti, emozioni, dolcezza, una narrazione che fa bene anche a coloro che bambini non lo sono più da un pezzo e che forse hanno perso la speranza e la fiducia nell’altro.
Anche Federica Molteni era stata qualche anno fa a Montagne. La sua compagnia, con sede nel bergamasco, si chiama Luna e Gnac e hanno un repertorio di Teatro ragazzi legato ai partigiani e ai valori irrinunciabili della libertà. La Molteni in questo Crape de legn è narratrice ma anche movimentatrice di burattini in una storia in terza e in prima persona dentro la Famiglia Ravasio, una delle più famose ditte di giro di Teatro di Figura attiva dagli anni ’30, una storia in dialetto bergamasco che ci parla di radici, che ci dice di non smettere mai di sognare, di non disperare, di insistere se hai passione anche nelle difficoltà. Siamo in mezzo ad una radura, ad oltre mille metri. Ecco il primo grande insegnamento: la differenza tra marionette, che vengono giù dall’alto con i fili e sono dei ricchi mentre i burattini sono dei poveri perché vengono dal basso, dalla terra ed è pesante tenerli su. È una storia di fatica e povertà, di fornai e di figli, di una madre che vorrebbe mandare il figlio in seminario e di un ragazzo che invece vorrebbe viaggiare, suonare, fare teatro e che, purtroppo per lui, finirà nella farina con il padre. Ma è anche una storia d’amore, nel senso classico del termine, ma anche verso il proprio lavoro, la propria famiglia, le proprie ambizioni. Crape de legn ripercorre la vita di Pina Cazzaniga e Benedetto Ravasio che alla sicurezza di un forno scelsero la vita raminga di strada, e pochi soldi, manovrando i loro gioppini e arrivando fino in Rai e infine al Teatro alla Scala di Milano. La loro vita è una scommessa per essere felici, per inseguire quel fuoco che avevano dentro, l’arte, il raccontare attraverso le loro teste di legno storie millenarie di uomini e donne che, come loro, tentavano di stare a galla e cavarsela. Benedetto costruirà la baracca dove far recitare i suoi burattini dell’800, Pina farà i costumi e partiranno, tra i patimenti e la fame della guerra, in giro per i comuni e le valli bergamasche per dare gioia e sorrisi alla povera gente. Le loro vite ci insegnano il rispetto per gli altri, per se stessi, per il proprio lavoro, per le scelte di vita anche quelle che sembrano più pazze: Basta miseria, almeno in teatro vogliamo sognare. I burattini che salvano la vita a Benedetto quando i nazisti hanno già deciso di fucilarlo. E poi quando tutto sembra funzionare arriva la televisione e nessuno vuole più vedere i burattini. Ma non si arrendono e anzi si modernizzano scrivendo nuove storie più vicine ai nuovi gusti contemporanei. E verranno invitati nei più grandi teatri e festival internazionali ma resteranno sempre con i piedi per terra senza dimenticarsi mai da dove sono venuti. E’ una storia di umiltà e lavoro duro e sudore: In due è più facile, in teatro e nella vita. Ma che fatica. Che bella fatica. Crape de legn è anche un excursus socio-economico-storico del nostro Paese nei suoi cambiamenti di usi e costumi, dalla cultura contadina a quella industriale. Il loro viaggio è stato un’utopia che si è realizzata. La poesia si miscela alla tenerezza e alla commozione e i burattini sono il tramite per questo amore che tutti vorrebbero provare sulla propria pelle. I burattini sono vivi e non sono soltanto teste di legno.
Il piatto forte è l’intensa interpretazione di Luigi D’Elia che ci racconta Caravaggio fino a prenderne le fattezze e i lineamenti grazie al testo di Francesco Niccolini avvolgente e coinvolgente e all’uso delle luci che a poco a poco sfumano, sfiocano, anneriscono la scena ricordando il binomio inscindibile tra la biografia del pittore lombardo e le sue opere d’arte. Non è semplicemente un biopic ma è un avvicendarsi di fatti e la trasposizione di questo buio dell’anima su tela, la sua ira e rabbia, la violenza, l’amore negato, sempre inseguito, ferito, nel corpo e nello spirito. Sul fondale una vela rossa, un sipario o l’ultimo oggetto che lo vedrà morire dopo una travagliata esistenza che D’Elia (cresciuto attorialmente esponenzialmente) riesce minuziosamente a portare in scena con piccoli visibili scarti, entrando sempre più nella psicologia del personaggio e introiettando le sue sconfitte e fallimenti. Niccolini ha intessuto un ritratto, un dipinto potremmo dire, ha cesellato le parole, ne ha descritto l’animo facendoci immaginare le opere (senza didascalicamente mostrarcele, sarebbe stato troppo facile), i dettagli pittorici, i simboli nascosti spiegandoceli in continui parallelismi con questa esistenza tanto talentuosa quanto sguaiata: Male visse, male morì. È il Seicento secolo di scoperte e conquiste ma anche anni violenti e pieni di ingiustizie, la Peste, la caccia alle streghe, la Santa Inquisizione. Nei quadri di Caravaggio c’era vita vera, autentica come ce n’è su questo palco dove il narratore pugliese diventa sempre più il Merisi, ci fa sentire il dolore e la carne lacerata così come il marcio e le osterie malfamate, le compagnie pericolose, le malattie veneree. Di tenebra e di luce sono fatti i suoi giorni così come le sue pennellate, feroce nella quotidianità tra carcere, debiti, risse e bordelli e sublime con una tela davanti, tra oscenità e opere commissionate dalla Chiesa. È un’altalena fluttuante e spiazzante, un percorso ad ostacoli la vita di Caravaggio sempre irrequieto, mai sazio, sempre alla ricerca di qualcosa che non c’è, in fuga soprattutto da se stesso ma sempre inseguito dalla propria ombra che lo raggiungerà a Roma e Napoli, come a Siracusa e Messina, Malta e infine Porto Ercole. È furia ed energia, è arroganza e pentimento. Il binomio Niccolini-D’Elia (qui per la nobile regia di Vetrano/Randisi) è ancora più saldo e prolifico. E più le luci calano e la foschia del nero aumenta più paradossalmente sembra di vederlo questo personaggio così vicino e così lontano in questo febbrile, ricco, viscerale, struggente, toccante, tragico ritratto. D’Elia, alla fine, è diventato irrimediabilmente Caravaggio con una passione e un amore, nella scrittura come nella recitazione, palpabili.
Perché a Montagne si torna e si ritorna senza stancarsi. Una volta stati a queste latitudini è difficile starne lontano per troppo tempo.
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