L’Aspettando Godot che non ti aspetti: Beckett in abruzzese

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Dopo aver fatto l’Italia andavano fatti gli italiani, sentenziava Massimo D’Azeglio. E l’italiano fu aiutato a cementarsi e a propagarsi dal Manzoni prima, da Pellegrino Artusi poi e infine dal Maestro Manzi. Sembrava che i dialetti regionali dovessero scomparire, retaggio arcaico considerato provinciale di fronte al Paese che si andava costruendo dopo le due Guerre mondiali. E invece i dialetti non sono morti ma anzi se ne sente ancora tutto il fascino, la freschezza, la vitalità e quell’atmosfera che dà corpo e colore ad una frase, che fa risaltare un verbo, che dona una particolare pasta al discorso. Nel teatro la riscoperta del siciliano con Emma Dante, del calabrese con Saverio La Ruina, del sardo con Alessandro Serra. Queste le punte dell’iceberg, tralasciando tantissime altre valide esperienze del genere. Se guardiamo al centro Sud l’abruzzese è schiacciato tra Roma e la Puglia, tra la Capitale e una delle mete turistiche nostrane per eccellenza. L’Abruzzo, che pure ha dato i natali a D’AnnunzioIgnazio SiloneEnnio Flaiano e che ultimamente è tornato alla ribalta nella letteratura con Donatella Di Pietrantonio (L’Arminuta) e Remo Rapino (Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio) ma anche Ada D’Adamo (Come d’aria), vincitrice post mortem del Premio Strega, a livello linguistico sulla scena non ha espresso altezze tali da superare i confini regionali.

A colmare questa distanza, uscendo dal claustrofobico recinto del teatro locale e vernacolare, ci ha pensato la vivace mente e intelligenza cristallina di Edoardo Oliva che, con il suo Teatro Immediato di Pescara, da anni porta avanti un progetto di recupero dell’abruzzese per adesso collegato soltanto all’amatissimo Beckett, mettendo in scena prima Frammento 1, successivamente una parte di Finale di Partita fino ad arrivare a questo Aspettando Godot dove sono i due protagonisti, Vladimiro ed Estragone (convincenti e con più registri lo stesso Oliva e Vincenzo Mambella), a calcare e cavalcare questo dialetto sconosciuto alle tavole del palcoscenico. L’operazione di Oliva non è una provocazione o un esperimento fine a se stesso ma un tentativo di avvicinare le parole immortali di un grande classico del Novecento al suo pubblico di riferimento immergendosi nel quartiere periferico di San Donato, a tratti anche difficile e degradato insieme all’altro contiguo rione vicino problematico Rancitelli (il famigerato ferro di cavallo), abbattendo le barriere, colmando le distanze, eliminando gli ostacoli di comprensione, azzerando i divari e rendendo tutto più vicino, terreno, tangibile, masticabile, quotidiano, comprensibile, malleabile, contemporaneo. Ma non è un mero intervento di semplificazione: Oliva, nella rassegna da loro ideata La cultura dei legami, ha immerso la disperata attesa di Godot in una scenografia naturale tra una panchina del parco, che sorge dietro lo Spazio Enzo Spirito, e un alberello dal fusto esile che si farà, che crescerà come queste parole che come semi attecchiranno nel terreno fertile.

 

 

Il fondale esalta con la sua semplicità le parole di questo duo, che poi diventerà un quartetto con l’arrivo Pozzo e Lucky (i solidi e coinvolgenti Ezio Budini e Umberto Marchesani), e ci ritroviamo immersi, tra aerei che ci sorvolano, uno scivolo in lontananza in un limbo tra una vaporosa atmosfera e la realtà di questi palazzi lontani dai murales con la faccia di Zeman sul lungomare, lontano dal ponte bianco che divide la spiaggia dal porto. Sono due clochard (tutti e quattro gli attori hanno belle voci profonde baritonali che in teatro arriverebbero senza difficoltà fino all’ultima fila senza l’uso dei microfoni) che vivono in un fosso, ai margini della società, ingarbugliati in tesi assurde attendendo un domani migliore, un evento che li possa portare via da lì, fargli vedere un altro orizzonte, un diverso panorama. Ad uno fa male un piede, l’impossibilità a muoversi, l’altro lamenta dolori al basso ventre, la mancanza del desiderio, si sentono sollevati e spaventati allo stesso tempo. Sono relitti umani, rifiuti di quel mondo cosiddetto civile nel quale non hanno più cittadinanza, parcheggiati in quest’oasi di asfalto: A volte ti fa male la scarpa e dai colpa al piede ci dice tutto tra l’affrontare il sintomo o fronteggiare la malattia.

Senza una vera occupazione, aspettando quel qualcosa che possa dare la scintilla alle loro vite, senza però crederci fino in fondo perché Godot non solo non arriverà ma non lo devono attendere fuori da sé ma lo dovrebbero cercare dentro se stessi a costo di una fatica e sofferenza e dolore ulteriore che forse non sono disposti a provare. L’inutilmente prevaricante e arrogante padrone Pozzo, che è cieco (come Hamm di Finale di partita) l’avidità che tutto fagocita, e il servo Lucky (l’attore somiglia a David Bowie) al guinzaglio, in realtà tutt’altro che fortunato, sono altre facce della stessa medaglia caleidoscopica in questa altalena tra un’ironia amara e una strisciante tristezza leggera che però riesce a gelare le ossa per l’impotenza, la rassegnazione, i nodi che non si sciolgono. Tutti siamo stati, una volta o più, Vladimiro o Estragone, abbiamo atteso qualcosa che sapevamo non sarebbe arrivato ma ugualmente abbiamo fantasticato su questa possibilità remota che puntualmente non si è verificata. Intorno sembra che il mondo sia imploso apocalitticamente, sono impantanati in un fango primordiale che li mura a terra, che non li lascia andare, perché devono aspettare il loro Salvatore, né li lascia tranquilli perché restano ansiosi e febbricitanti senza sapere cosa vogliono realmente, se partire o stare, o come affrontare il bivio, prendendosi la responsabilità della scelta, dell’errore. L’Aspettando Godot che ha costruito il regista Oliva è una riflessione sulla città e sulla periferia, come sul mondo produttivo e sugli inabili, sugli invisibili senza voce che attendono non sanno neanche loro cosa. Che qualcosa cambi.

 

 

Qual è il futuro che vogliamo? Come costruirselo, conquistarselo? I quattro caratteri beckettiani si lasciano vivere addosso, si lasciano schiacciare, comprimere, soffocare tra sorrisi aspri senza più forza né volontà d’azione, con i giorni passati sul calendario a fare da corollario e carta da parati ad un’esistenza che si trascina infelice: Cosa mi ricorderò domani di oggi? Ci strazia: L’abitudine è un grande silenziatore, ci sprona, ci scuote, ci muove, ci tocca tutti in questi tempi dove non possiamo mostrare fragilità e miserie, dove dobbiamo essere perfetti altrimenti ci silenziano, ci emarginano, ci mettono nell’oblio e nel dimenticatoio, nel ripostiglio della vita ad aspettare che là fuori qualcosa bussi alla nostra porta e che torni ad essere il nostro tempo, il nostro momento.

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.