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Com’è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano, tuonava Franco Battiato. L’età avanza per tutti e quando arrivano i famigerati, fatidici, famelici cinquanta il bilancio di una vita si fa opprimente e oppressivo, quasi aggressivo. Avrò ancora tempo? Potrò ancora godermi la vita al massimo delle mie possibilità fisiche o dovrò stare attento ad ogni movimento, alimento che ingerisco, emozione che provo? In questo flusso di coscienza si inserisce il ragionamento, certo brillante ma con un fondamento amaro ed esistenziale, di Andrea Muzzi e del suo Trovatene uno bravo (debutto sul palco prestigioso quest’estate de La Versiliana di Forte dei Marmi, visto all’interno della rassegna Sussulti Metropolitani, teatro diffuso in cinque comuni della Piana fiorentina), titolo che ci rimanda immediatamente con la mente dentro uno studio di uno psicologo. Muzzi, con il suo topos timido, stranulato, dimesso da Paperino sfortunato che subisce le angherie del mondo, e in questo caso del Tempo che si abbatte su di lui, è il cliente che, per sciogliere questi nodi dubbiosi che gli si affollano dentro si fa coraggio e, per la prima volta, entra da un professionista della psiche, il carismatico Fabio Canino che sul palco ha presenza, improvvisazione, fermezza morbida.
Nella prima parte la regia di Andrea Bruno Savelli (sua l’ideazione e il concept di SM) posiziona i due in antitesi, se il primo è in azione e nella luce l’altro è immobile e al buio, non in dialogo ma in monologhi divisi e scissi e separati come se tra le due sfere non vi fosse dialogo, come se entrambi parlassero non con l’altro ma con lo specchio (il pubblico), con le proprie sofferenze e dolori in maniera autistica e autoreferenziale. Tra scatoloni di un trasloco e abiti appesi la scena tutto sembra all’infuori di uno studio di uno psicanalista: regna la confusione esternamente come dentro i due che si fronteggiano sul palco, ognuno con i propri perché irrisolti e insoluti, le proprie battaglie perse, le proprie domande inevase. Se Muzzi è alle prese con la morte che si avvicina, Canino si apre e si confessa: un matrimonio finito nell’odio alle spalle, rapporti tesi con il figlio e la fuga con un uomo per cambiare finalmente vita, per essere felice, per cercare di diventare quello che avrebbe sempre voluto essere: se stesso.
I due mondi confliggono tra stereotipi e baruffe, sempre leggere e con garbo e che mai scadono nel volgare, come la scrittura di Muzzi (allievo del Maestro Ugo Chiti), sempre delicata e soffice, ci ha insegnato e che dagli esordi apprezziamo. Tutti e due hanno qualcosa da nascondere, soprattutto a se stessi, non si accettano fino in fondo perché troppo condizionati dal giudizio altrui, che sia il maledetto Tempo che scorre senza chiedere il permesso, Dal tempo delle mele al tempo delle mele cotte o Dal pannolino al pannolone, che sia la famiglia che ci vuole bene e ci ama non come individui ma fintanto che rispettiamo un canone, un cliché, uno standard dopodiché, quando non serviamo più, ci allontana perché fuori dalle regole, non più utilizzabili per riempire le caselle dell’egoismo altrui. Ed è interessante come si scopra che il professionista della testa, dal punto di vista interiore (cervello, neuroni, sogni, incubi, traumi), si riveli un ciarlatano, un cialtrone e un impostore, si smascheri in quello che realmente è, un professionista della testa dal punto di vista esteriore, un parrucchiere, o meglio un hair stylist (shampoo, balsamo e cheratina). Ed è proprio quando i due (grande amalgama artistica tra Muzzi e Canino) si liberano dai fardelli e dalle sovrastrutture imposte dal mondo esterno, quando si mettono a nudo senza più filtri o barriere, allora si capiscono finalmente, solidarizzano, si avvicinano alla vita dell’altro, la comprendono senza pregiudizi, si immedesimano, diventano amici e complici.
La lavata di testa finale è quella necessaria, salvifica ripulitura che tutti dovremmo fare ciclicamente per sciacquare via i brutti pensieri, le tossine del presente, le nubi grigie e riposizionarci nel mondo, fieri della nostra età, dei nostri insuccessi e fallimenti, contenti (senza accontentarsi nichilisticamente però) di un sorriso, delle piccole cose, pensando più a ciò che abbiamo o che siamo stati capaci di costruire (soprattutto relazioni interpersonali e non beni materiali) che a quello che non abbiamo e che non avremo mai. Muzzi ci dice che forse non serve trovare uno bravo ma occorre trovare sulla nostra strada qualcuno che con sensibilità ed empatia ci ascolti, si apra. Dovremo tornare a parlarci, a guardarci negli occhi, ad abbracciarci. A volte basterebbe un amico. Perché mi sento molto ricco e molto meno infelice e vedo anche quando c’è poca luce con un amico in più, con il mio amico in più. (Riccardo Cocciante, Per un amico in più).
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