Visioni 2024 – I piedi

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ph Lorenzo Monti

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Sono stato a Bologna, a Visioni, festival internazionale di arti performative e cultura per la prima infanzia, organizzato da La Baracca – Testoni Ragazzi all’interno del loro teatro, fresco di ristrutturazione. Il festival è supportato da Babel – The Art of Listening in Theatre for Young Audiences, un progetto del programma Creative Europe, ed è stato davvero una babele di linguaggi, con ospiti internazionali e spettacoli in tutte le lingue, comprese quelle universali della pittura, della musica, delle immagini, del corpo.

Cercherò in questo e nei prossimi articoli di riassumere e raccontare qualcosa di ciò che ho visto, per aprire lo sguardo e diffondere le visioni di Visioni.

Partiamo dal basso: il piede.
È un elemento che accomuna molti degli spettacoli presentati, in particolare l’ho ritrovato in questi: Il labirinto di Teatrodistinto, Un tout petit peu plus loin di H2Oz, e Storie quasi impossibili di La Baracca – Teatro Testoni Ragazzi.

Questi tre spettacoli presentano allo spettatore uno, due o più piedi.

 

 

Il primo: Il labirinto, uno spettacolo di Daniel Gol per Teatrodistinto.

La platea è raccolta a 360 gradi attorno a uno spazio quadrato, nel quale è tracciato per terra con la ghiaia un piccolo percorso a labirinto.

Una paratia di carta, tenuta sollevata a mezzo metro da terra, corre su tutti i lati e forma una specie di muro.
Dunque, ad altezza terra, sotto il muro di carta, si può vedere tutto. Sopra il mezzo metro di altezza non si può vedere niente.

Questo impedimento visivo genera da subito una forte curiosità, sia nei bambini che negli adulti che devono sporgersi e abbassarsi per sbirciare.

Mi viene in mente la siepe di Leopardi, grimaldello, anzi piede di porco, che forza le porte dell’immaginazione.

Nel campo visivo così limitato una cosa la si vede molto bene: il labirinto e due paia di piedi.

I loro movimenti sono precisi, misurati, regolati dallo spazio, che li obbliga a fare manovra ogni volta che devono fare una curva o tornare indietro.

Basta che i piedi si muovano, con rumori simili a quelli di un videogioco (trovo molte somiglianze con il labirinto di Pac-Man), perché il pubblico rida. Sono buffi perché stanno stretti stretti nel labirinto, e poi muovendosi seminano oggetti.

Un paio di piedi lascia delle arance. L’altro lascia peperoni rossi e gialli. Oggetti semplici, colorati, lucidi, illuminati da faretti dedicati. Il labirinto si colora.

Non c’è nessun dialogo e nessuna narrazione: è uno spettacolo astratto, di forme, di movimenti e situazioni. Ad un tratto una coppia di piedi abbandona le scarpe e i calzini e prova a camminare sulla ghiaia, anzi corre, punta dai sassi. Gli altri piedi, allora, portano in soccorso un secchio d’acqua per lenire il dolore.

Devo dire che questi piedi sono molto espressivi.

Posso leggere facilmente le loro emozioni: curiosità, dolore, imbarazzo, timore, sollievo, gratitudine, letizia.

Alla fine la parete di carta si strappa, un lato alla volta. Fanno la loro comparsa i corpi e le facce dei due performer, i proprietari dei piedi. Invitano due bambini a percorrere con loro il labirinto, lasciando cadere nelle casette dei semi di baccello e lo spettacolo termina, senza esplicitare nessun significato.

 

ph Lorenzo Monti

 

Il secondo spettacolo è Un tout petit peu plus loin (“un po’ più lontano”) del collettivo belga H2Oz.
Questo inizia con un cubo. Dal cubo emerge un piede (vi ricorda qualcosa? A me QUESTO). Poi i piedi diventano due, poi quattro, poi sei, e dopo qualche passo incerto e qualche passo di danza, tre corpi escono dal cubo.

Sono tre personaggi un po’ straniti, spaesati, timorosi. Indossano costumi dal taglio diverso e con pattern diversi, ma simili nei colori. L’impressione è che appartengano allo stesso mondo.

Nella prima parte dello spettacolo questi tre individui cercano di non allontanarsi mai dal cubo da cui provengono, che si appiattisce quasi subito e diventa una superficie, come una zattera, che i tre riassemblano per estenderne i confini e non scendere mai.

È esattamente come quel famoso gioco in cui i bambini non devono toccare mai per terra e allora si inventano nuovi punti di appoggio.

Nel momento in cui i tre vogliono andare “un po’ più lontano” devono frammentare la zattera-cubo e usare i pezzetti ottenuti come punti di appoggio, sempre più piccoli, su cui mettere piede per fare ogni volta un passo più in là.

Ma quando i pezzetti finiscono sono costretti a scendere. Si cambia gioco.

Il cubo, che era diventato zattera, ora viene messo in verticale, come un separé a zig zag, e diventa un piccolo labirinto in cui inseguirsi, cercarsi, giocare a nascondino.

Se lo spettacolo è una metafora della vita, dalla nascita ai primi passi fuori, ora è il momento in cui si scopre la complessità del reale, in cui si rischia di smarrirsi.

Infine è il pavimento stesso che si trasforma. Viene arrotolato e diventa linea su cui farsi funamboli, confine da attraversare, e poi strada da intraprendere per scomparire dietro le quinte. Lo spettacolo termina dunque con un partire, un simbolico inizio.

 

ph Matteo Chiura

 

Il terzo spettacolo è Storie quasi impossibili de La Baracca – Testoni Ragazzi.

Anche questo inizia con un cubo. Più grande e di colore nero.

Dal cubo esce prima di tutto un quaderno rosso (i colori sono pochi ma importanti). La protagonista, interpretata da Sara Lanzi, cerca di capire da dove sia sbucato e inizia a interagire con il cubo. Comincia così una prima esplorazione di questo “monolite nero”, nella quale ci si ripresenta l’immagine di un piede.

Il cubo infatti ha le pareti di tessuto, con aperture nelle quali infilare braccia, gambe, testa.

L’attrice entra ed esce, scompare e riappare e spesso restano fuori un braccio, una mano, un piede. Si capisce presto che non è da sola, quando i piedi che sbucano dal cubo diventano sei.

Poco dopo infatti compaiono anche altri due personaggi, due maghi, indossando giacche colorate. Sono lì per mostrare e insegnare alla protagonista alcuni numeri di magia, o almeno così capisco seguendo le azioni dei personaggi, che si esprimono senza parole.

Lo spettacolo prosegue con una serie di trucchi molto classici e già noti (ma nuovi per il pubblico di treenni), con i quali la protagonista deve scontrarsi, provando ad imparare la magia. Infine anche lei diventa prestigiatrice e si guadagna una bella giacca colorata.

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Sono tre spettacoli diversi, come dicevo, accomunati dall’elemento piede.

In Storie quasi impossibili è un escamotage per presentare in modo simpatico il cubo come porta da attraversare e per introdurre poco a poco i personaggi, un pezzo alla volta.

In Un tout petit peu plus loin il piede è la prima cosa che sbuca fuori. Rappresenta il mettere piede per la prima volta sul mondo e il muovere i primi passi, focalizzando l’attenzione letteralmente proprio sui passi.

Ne Il labirinto invece il piede è sineddoche, parte che sta a rappresentare il tutto. Vediamo due piedi ma pensiamo ad un individuo e leggiamo nel movimento delle sue appendici il carattere, le intenzioni, gli stati d’animo.

Sono piedi presentati con intenti diversi, ma di tutti e tre si può dire che siano buffi: il pubblico apprezza, i bambini ridono di gusto.

Ma perché i piedi ci fanno ridere?

Forse perché di solito stanno in basso, nascosti, e non siamo abituati a vederli. Così quando si apre il sipario e loro sono lì sulla scena, che sembrano guardarci con i loro alluci allucinati, la sorpresa è tale che ci strappa una risata.

La sorpresa è uno dei meccanismi fondamentali che guidano l’apprendimento nei bambini ed è anche uno dei cliché ricorrenti nel teatro per la prima infanzia. Non sorprende che ricorra spesso e che funzioni ancora, sempre.

D’altronde, come dice un grande teorico della sorpresa, Gilbert Keith Chesterton, è la nostra capacità di sorprenderci di tutto a dare valore alle cose, generando un’infinita gratitudine per la loro presenza.

E, per fare un esempio, lo scrittore parla proprio dei piedi. In un suo scritto si diverte a immaginare un altro famoso autore, George Bernard Shaw, che si perde a guardare le sue estremità inferiori e con linguaggio altisonante esprime la sua meraviglia:

“Ne sarei molto più convinto se lo trovassi mentre si contempla, religiosamente attonito, i piedi. Me lo immagino mentre mormora tra sé: “Che sono questi due magnifici ed operosi esseri, che mi accompagnano ovunque, sempre al mio servizio, senza che io ne sappia il perché? Qual misteriosa madrina comandò loro di raggiungermi, trottando, dal regno dei folletti quando nacqui? Quale dio della penombra, quale barbarico dio delle gambe devo propiziarmi con fuoco e vino, affinché essi corrano sempre con me?”

(G.K. Chesterton, G. B. Shaw)

I piedi non sono tutto. Sono solo una parte del corpo come degli spettacoli descritti.

Mi sono focalizzato su questo aspetto proprio perché attratto dalla parzialità, cioè dalla capacità di spettacoli diversi di focalizzare lo sguardo su un solo dettaglio, in una prospettiva bambinesca di scomposizione, e attorno a questo sguardo costruire storie o significati.

Penso che questo concetto semplicissimo riassuma in sé il significato che può avere un festival come Visioni, in cui si entra in dialogo per mostrare e scambiare prospettive, focalizzandosi su diversi aspetti, all’insegna della ricerca teatrale e pedagogica.

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