Tradizione, traduzione, tradimento. Note su Romeo e Giulietta di Stivalaccio Teatro

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«I nostri saltimbanchi, all’occasione anche meccanici di precisione, vi aspettano questa sera al Teatro Piccolo di Forlì, con Romeo e Giulietta. Non mancate!»: è scritto così, in un post su Facebook nella pagina di Stivalaccio Teatro pubblicato giovedì 4 aprile scorso, due ore prima di andare in scena al Teatro Piccolo di Forlì con Romeo e Giulietta. L’amore è un saltimbanco.

Nella foto del post si vedono i tre interpreti dello spettacolo, Anna De Franceschi, Michele Mori e Marco Zoppello (anche drammaturgo e regista), in un’autofficina. In mano hanno attrezzi da meccanico, dietro di loro un’automobile grigia presumibilmente da riparare, in fondo a destra un giovanotto in tuta da lavoro, con il busto spostato come a voler esser parte del quadro.

Tradizione, traduzione, tradimento, ho pensato due ore dopo, in una sala stracolma anche di adolescenti che questo irresistibile ensemble ha trascinato dentro a un’esplosione teatrale che desidero ora (brutalmente) riassumere proprio con queste tre parole: tradizione, traduzione, tradimento.

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TRADIZIONE

È dichiarato ed esplicito, il loro riferirsi alla Commedia dell’Arte: non stile di messinscena ma sistema produttivo da cui uno stile discende, come recentemente mi è capitato di ricordare in un articolo dedicato a un kolossal di Stivalaccio Teatro, Arlecchino muto per spavento, andato in scena al Teatro Masini di Faenza il 27 febbraio scorso, sempre su invito di Accademia Perduta / Romagna Teatri (QUI il mio articolo, per chi ne avesse curiosità).

È dichiarato ed esplicito nei costumi, nel palchetto di assi di legno povero sopra e attorno il quale tutto accade nonché nelle note di sala, il loro riferirsi a quel mondo.

E, indirettamente, nel post sopra nominato: come ben sanno i teatranti di giro «andare bisogna, per tutta la vita e piace lasciarsi ascoltare», si potrebbe dire parafrasando il De André del Suonatore Jones.

The show must go on, appunto.

È sano, al di là di ogni plasticoso romanticismo e di ogni infestante dilettantismo, in una società in cui tutti crediamo di poter fare e dire tutto, ricordarci che l’arte è soprattutto un mestiere.

E che il teatro, a saperlo fare bene, è un mestiere difficile.

E che è ritmo, come ci ricorda Michele Mori in piedi in mezzo alla platea, in una delle miriadi di controscene che con sapienza compositiva magistrale contrappuntano le quasi due ore del lavoro.

È uno spettacolo questo, come tutti gli altri di Stivalaccio Teatro che mi è capitato di vedere, che andrebbe mostrato in tutte le scuole di teatro d’Italia: per il suo porgere gli elementi costitutivi del fatto scenico (la fabula, la combinazione dei segni sonori, visivi e cinetici e la relazione con chi fruisce l’opera) in maniera cristallina e mai ridondante, esplicita ma mai pedante.

Dico di più: è uno spettacolo questo, come tutti gli altri di Stivalaccio Teatro che mi è capitato di vedere, che andrebbe mostrato in tutte le scuole d’Italia. Non solo quelle di teatro.

Per far far la pace a orde di brufolosi adolescenti con quella roba percepita (spessissimo a ragione) come vecchia, polverosa, mortalmente noiosa e, peggio, estranea.

Qui il teatro è cosa viva, tra vivi.

 

 

TRADUZIONE

Per far ciò si tirano in ballo Temptation Island, Canale 5 e la piadina con il prosciutto, lo squacquerone e la rucola.

Captatio benevolentiae, certo, ma talmente organicamente inscritta in un solidissimo dispositivo drammaturgico, e nel suo verace porgersi al qui e ora di chi incontra che non vien certo da storcere il naso.

Vien da ringraziare piuttosto.

Ringraziare.

 

TRADIMENTO

Non vi è tradimento, qui.

Né dello specifico produttivo e poetico della Commedia, come già s’è detto, né della legittima aspettativa di chi uno spettacolo va a vedere: trovare maestria, in primis. E coinvolgimento.

Tutto questo, Romeo e Giulietta di Stivalaccio Teatro offre in abbondanza.

Maestria: tre esempi fra tanti.

Il dialogo tra Giulietta e la balia dall’accento romagnolo, reso attraverso una precisa composizione e contrapposizione di direzioni, altezze e variazioni d’uso dell’ampio costume, a connotare le due figure.

Il disegno registico sapiente che alterna continuamente temperature e intenzioni: il Bianco e l’Augusto – e tutto il mondo intorno.

Verso il finale, la scena costruita improvvisando su cinque parole proposte dalle persone in platea: pezzo di bravura tanto esibito quanto divertito.

Coinvolgimento: oltre a quanto già detto, due cose.

Ironia per abbassamento, a ritrovarsi dell’Arte tra spettatori e spettatrici, in un luogo dei molti (apparentemente) senza pretese.

L’attitudine letteralmente didascalica (dunque etimologicamente esplicativa) delle partiture fisiche. Tutto è segnato, finanche stilizzato, nel loro agire, in direzione di raddoppiamento e moltiplicazione, quasi mai di contraddizione, rispetto a quanto altrimenti espresso.

Il pubblico, grato, applaude abbondantemente.

Viva l’Arte viva!

 

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