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Jonny Greenwood dei Radiohead al Pala De Andrè con Junun

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La band al completo

Il chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood, insieme al compositore israelo-indiano Shye Ben Tzur, l’indiana banda dei The Rajasthan Express sapientemente guidata da Aamir Bhiyani, insieme al vertiginoso canto qawwali di Zaki Ali Qawwal, ci conducono nella “follia curativa” dai sapori orientali. Questo è Junun.

Junun è una parola che in urdu, una delle principali lingue in India accanto all’hindi, designa un particolare stato d’animo: la follia che ha il retrogusto dell’amore.

Junun è un album edito da Nonesuch Records,  finanziato grazie all’aiuto del produttore della band di Thom Yorke, Nigel Godrich, che sarà presentato il 2 giugno al Ravenna Festival.

“Lavorare con i musicisti indiani è meraviglioso,” confessa Jonny Greenwood in un’intervista al Guardian circa l’esperienza da cui è nato l’album Junun, registrato in uno studio improvvisato nell’antico forte Mehrangarh di Jodhpur, la “città blu” nel deserto del Rajasthan. “Qui la musica è parte della vita, piuttosto che soltanto un’occupazione. Quando stiamo suonando, registrando o provando, se facciamo una pausa finiscono per suonare un altro po’. Esiste un’urgenza, un desiderio di fare musica che è di grande ispirazione”. Accanto a Greenwood, tra i migliori musicisti avant-garde contemporanei, Shye Ben Tzur, vero deus ex machina del progetto: il compositore, musicista e poeta israeliano studia da anni la musica e cultura indiana e la tradizione musicale sufi Qawwali. Terzo protagonista è la band The Rajasthan Express, che porta in Junun tutta l’esuberanza degli strumenti a fiato, gli inaspettati ritmi dispari delle percussioni, la vibrante energia dei cori, ma soprattutto il piacere assoluto di suonare assieme.

 

“Quando ero nel deserto del Negev nel sud d’Israele un paio di anni fà, mi sono ritrovato ad ascoltare un gruppo di musicisti che suonava un pezzo con un violino arabo chiamato rehab”, dice Greenwood, “Era uno strano mix di musica tradizionale araba e Indiana, qualcosa che non avevo mai sentito prima. Il pezzo migliore, venni poi a sapere che era stato scritto da Shye Ben Tzur, un musicista israeliano che avrebbe vissuto in India fino a quell’anno. Dovevo assolutamente avere più informazioni su di lui. Sono sempre stato un po’ diffidente rispetto ai gruppi rock che provano a cimentarsi nella world-music, ma ci sono sempre delle eccezioni. E penso che Shye Ben Tzur sia un altro di questi.”

2 giugno, Ravenna, Palazzo De Andrè, info 0544 249244, ravennafestival.org
Biglietto: 25 euro

A Faenza torna Argillà Italia, il lungo week end della ceramica

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Dal 30 agosto al 1 settembre 2024 in centro storico la mostra mercato con 200 ceramisti provenienti da tutta Europa e una miriade di eventi sparsi nei principali musei e spazi pubblici della città.

Una piena immersione nel mondo della ceramica: dal 30 agosto al 1° settembre torna a Faenza – “capitale” europea della maiolica – Argillà Italia.

Tre giorni per passeggiare lungo le vie del centro curiosando e facendo shopping tra gli stand di oltre 200 ceramisti provenienti da tutto il mondo (per il 50% stranieri e per il 50% italiani), visitando le numerose mostre in spazi pubblici e privati della città, partecipando a workshop, visite guidate ed incontri.

La mostra-mercato Argillà Italia, organizzata dal MIC Faenza in nome del comune di Faenza e in collaborazione con il Comune stesso, AiCC – Associazione Italiana Città della Ceramica ed Ente Ceramica Faenza, alla sua ottava edizione, è ormai diventata l’appuntamento biennale di riferimento in Italia dell’artigianato ceramico contemporaneo nazionale e internazionale.

Numerosi gli eventi spettacolari, attraverso i quali si potrà ammirare il processo creativo della ceramica: il Mondial Tornianti, l’avvincente competizione di tornio a cui parteciperanno tornianti provenienti da tutto il mondo, Thomas Benirschke con la sua Argi-bike; Emidio Galassi con una performance di cottura ceramica, un grande forno spettacolare all’aperto, progettato e coordinato dal gruppo “MADE in NOVE: ante impression” che si cimenterà in una cottura ceramica sperimentale a legna.

I Paesi Baltici sono gli ospiti d’onore di questa edizione e saranno presenti alla Sala Cento Pacifici del Teatro Masini con una grande collettiva di artisti contemporanei che lavorano con la ceramica curata da un team di curatori composti dai lettoni Valentins Petjko, Aivars Boranovis, Darja Smirnova, Inga Gedzune, dalla lituana Agne Semberaite e dall’estone Pille Kaleviste.

Saranno una quindicina le mostre ufficiali in programma, che coinvolgono i principali spazi espositivi della città, appuntamenti importanti per riflettere sullo stato della ricerca più innovativa dell’artigianato ceramico tra arte e design in Europa e per conoscere la tradizione di storiche manifatture.

Non mancheranno i tanti eventi collaterali proposti su libera iniziativa dei privati che apriranno eccezionalmente i loro studi, cortili e case della città al pubblico.

 

30-31 agosto, 1 settembre 2024, Faenza (RA)

Apertura: venerdì ore 16:00- 22:00, sabato ore 10:00-22:000, domenica ore 10:00-20:00

Per informazioni: 0546 697311, argilla@micfaenza.org, www.argilla-italia.it

Tenere il corpo sulla lama di un coltello. Conversazione con Stefania Tansini

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ph Pietro Bertora

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Mots, formes des phrases, directions intérieures de la pensée,
réactions simples de l’esprit…

Antonin Artaud, L’Ombilic des limbes, 1925

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Santarcangelo Festival 2024 ha ospitato L’ombelico dei limbi, la più recente creazione della danzatrice e coreografa Stefania Tansini.

L’abbiamo intervistata.

Ascolta qui.

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A Lupo 340 Buster Keaton è musicato dal vivo da un trio francese

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Nicolas Chatenoud, Guigou Chenevier e Guillaume Saurel

La stagione del bagno Lupo 340 di Milano Marittima prosegue venerdì 26 luglio con un appuntamento di grande suggestione: Il Navigatore, considerato il capolavoro di Buster Keaton, viene sonorizzato dal vivo dall’esperto trio francese composto da Nicolas Chatenoud, Guigou Chenevier e Guillaume Saurel, vecchia conoscenza di Area Sismica, che organizza la serata.

venerdì 26 luglio – Lupo 340 – Milano Marittima (RA)

ore 21

Area Sismica presenta

Rassegna Musiche Extra-Ordinarie

Cine-concerto Il Navigatore

The Navigator, 1924, di Buster Keaton e Donald Crisp

sonorizzato dal vivo da

Nicolas Chatenoud – chitarra, basso, elettroniche
Guigou Chenevier  – batteria, marimba, oggetti sonori
Guillaume Saurel – violoncello, ukulele, basso, elettroniche

Un piroscafo completamente alla deriva con i soli due protagonisti a bordo, Buster Keaton e Kathryn McGuire, in un film che fu il più grande successo di cassetta che Keaton abbia mai fatto, ma anche quello più rivalutato dalla critica contemporanea, che lo considera il più folle, il più sognato, il più poetico, con tutte le incertezze dell’amore, gli equivoci, i momenti idillici, drammatici, tragici, il continuo progresso. Così come è presente anche il tema del vuoto, della solitudine, dell’angoscia. Angoscia insieme tragica e comica, come sempre in Keaton. A un ritmo frenetico questi due personaggi sono costretti loro malgrado a improvvisarsi marinai, un po’ bizzarri certo, ma non d’acqua dolce.

Le tribolazioni che attraversano i nostri eroi hanno spinto Nicolas Chatenoud, Guillaume Saurel e Guigou Chenevier, un trio francese molto caro ad Area Sismica, a comporre musica con lo stesso tenore. Ritmica, a volte illustrativa o creatrice di discrepanze nella lettura, è una composizione ispirata e arricchita dalla meravigliosa gamma di giochi ed espressioni di Keaton, una scrittura musicale dalle mille sfaccettature.

Nicolas Chatenoud proviene dalla scena rock francese, ma è attratto dalla musica cosiddetta inclassificabile, ma non solo… partecipa tra gli altri a progetti artistici con Gilles Laval, Guigou Chenevier o Fred Frith. Ha composto per una dozzina di opere teatrali nonché per film-concerti e altri progetti proteiformi (letture, installazioni visive e sonore, ecc.).

Guigou Chenevier è stato il batterista del gruppo-leggenda del “Rock in Opposition” Etron Fou Leloublan dal 1973 al 1986, poi del gruppo Volapük dal 1993 al 2009 e attualmente suona nei gruppi Les Phasmes, Le Bal Inouï, Le Miroir et le Marteau, Rêve Général, Les Mutanti Maha e Piles. È stato direttore artistico e programmatore di Inouï Productions dal 1992 al 2019 (Les Hauts Plateaux, Avignone).

Guillaume Saurel, di formazione classica, ha suonato in alcuni spettacoli di Maguy Marin, Michèle Bernard, Charlie Kassab, i Cie Mises en Scène e il Cie pyrotechnique Groupe F. Ha creato il gruppo Rien e ha partecipato alla creazione del gruppo Volapük. Ha creato Pince Oreille (musica, effetti sonori per cartoni animati e giochi). Collabora il cantante Lionel Damei. Membro attivo del Collectif Inouï con il quale compone numerosi spettacoli (The Unknown, Les Rapaces, Akoustic Ensample), partecipa a diverse creazioni tra cui Le Bal Inouï e L’Homme à la camera, un film concerto sul film di Dziga Vertov.

 

INGRESSO LIBERO

Cucina aperta nelle sere di concerto

info e prenotazioni:

345 6638289 – Via XXVII TRAVERSA – Arenile, 340, 48015 Cervia (RA)

info@lupo340.com lupo340

 

Il programma di domenica del festival Terra Mossa

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Terra Mossa

Dalle 19:30 una maratona di musiciste in piazza Matteotti a Modigliana!

Terra Mossa, il festival di ripartenza a Modigliana, quest’anno tutto dedicato alle artiste donne, si chiude domenica 21 luglio con un calendario off – in Piazza Matteotti in orario no-stop dalle 19:30 alle 24.

Il programma, dopo un incontro sulla canzone tenuto da Mara Redeghieri, alle h.12, vede succedersi sul palco dalle 19:30 Giulia Millanta, Ellen River, Sara Franceschini, Stefania PAT, Beatrice Lenzini e Annette & Bradipos IV.

La chiesa di San Rocco, in Piazza Pretorio, denominata Terzopalco, ospiterà per tutta la durata del festival anche mostre, presentazioni di libri, performance e incontri curati in collaborazione con la libreria / editore Bauci Città.

C’è spazio anche per altre arti: oltre ai musei cittadini aperti, l’openstudio dell’artista Chiara Lecca ospita la mostra Fragmento, mentre Paola Bandini presenta la sua installazione in terracotta Equilibri Precari all’ingresso de La Tribuna.

«A Modigliana si riparte, ancora una volta – commenta il direttore artistico Antonio Gramentieri – su strade ancora sconnesse e colline ferite. La musica è un invito a venirci a trovare, a mantenere il paese nella mappa delle cose buone. Ristrutturare una comunità, il suo essere propositiva ed accogliente, è importante quanto intervenire sulle infrastrutture».

Saranno presenti stand gastronomici implementati rispetto alla prima edizione, coordinati da Pro Loco.

L’ingresso è ad offerta libera per mantenere la sostenibilità e la gratuità del festival.

Terra Mossa è organizzato dalla Pro Loco di Modigliana con il coordinamento artistico di Crinale Lab e la collaborazione di Bauci Città, il contributo di Regione Emilia Romagna e del Comune di Modigliana, il supporto degli esercenti.

Terra Mossa è in rete con Romagna in Fiore / Ravenna Festival.
 
Info

— 3498132021

— 339 4935284

— 339 7428389

www.crinalelab.com

www.prolocomodigliana.it

Instagram @terramossafestival

Oltre il palcoscenico. La nona edizione de Le Notti delle Sementerie

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In un teatro composto da fili di paglia nel mezzo della campagna emiliana, da nove anni a questa parte Manuela De Meo e Pietro Traldi realizzano Le Notti delle Sementerie, una rassegna di spettacoli che anima la città di Crevalcore (Bologna) e, nello specifico, Sementerie Artistiche, un presidio culturale nato nel 2015 all’interno degli spazi di un’azienda agricola. Teatro e contesto rurale qui si incontrano e insieme creano esperienze performative che hanno come obiettivo quello di rompere le barriere tradizionali scena-platea e instaurare con gli spettatori una relazione teatrale più diretta, accessibile e partecipata.

Quest’anno Le Notti delle Sementerie si tiene dall’11 luglio al 3 agosto e vede alternarsi due spettacoli, Sogno di una notte di mezza estate da Shakespeare e Lisistrata – chi fa l’amore non fa la guerra da Aristofane (prima assoluta), entrambi realizzati con il coinvolgimento di un ampio gruppo di cittadine e cittadini partecipanti a un laboratorio, che affiancano il cast d’interpreti professionisti.

Come e quando è nato Sementerie Artistiche? 

«Il progetto – racconta Manuela De Meo – è nato a seguito del terremoto del 2012 in Emilia. In quel periodo l’azienda che ora ci ospita – attiva dagli anni ‘30 –  stava trasformando la sua produzione, perciò quando i magazzini e gli edifici sono stati danneggiati dal terremoto, poi sono stati ricostruiti diversamente. Io e Pietro lavoravamo già come attori, non avevamo uno spazio ma avevamo accumulato esperienze in diversi luoghi da cui abbiamo tratto ispirazione per Sementerie. Così abbiamo colto questa occasione inaspettata, nel 2013 sono iniziati i lavori e nel giro di un paio d’anni, a fine 2015, abbiamo ufficialmente fondato le Sementerie Artistiche. Il nome è scelto proprio in onore dell’azienda, conosciuta per la sua attività di ricerca genetica sui semi. Inoltre, in questo concetto di seme, volevamo intendere anche il germogliare di qualcosa di nuovo in un luogo inaspettato e non deputato alle attività culturali». 

Quali sono le progettualità all’interno di questo spazio?

«Ci occupiamo di produzione di spettacoli, che nei primi anni erano realizzati in collaborazione con il Banfield Teatro Ensamble di Buenos Aires; e di altre attività culturali come laboratori di teatro, danza aerea, workshop di lettura, residenze, dando anche la possibilità agli artisti di soggiornare nella nostra foresteria.  

A partire dal 2016 abbiamo inoltre dato il via a Le Notti delle Sementerie, che ha visto fin da subito la costruzione del teatro di paglia, nato inizialmente da un problema: la sala al chiuso non poteva ancora ospitare gli spettacoli e il pubblico perché mancava la gradinata, il graticcio etc. Così, relazionandoci con l’azienda, abbiamo costruito il teatro di paglia, poi divenuto il simbolo del Le Notti, luogo che unisce il mondo agricolo a quello teatrale. Sembrano universi inconciliabili, ma è proprio in virtù della non convenzionalità degli spazi che si apre la possibilità di immaginare progetti originali, diversi rispetto a quelli che avvengono nel contesto urbano». 

Quali sono le interlocuzioni con l’azienda e come si è sviluppato il rapporto in relazione alla gestione dello spazio?

«L’interazione è viva e collaborativa. Fra le interazioni principali c’è proprio la costruzione del teatro di paglia: bisogna attendere il momento dell’anno in cui il grano viene mietuto e quando le macchine sono a disposizione. Inoltre, prima che esistessimo noi, l’azienda era un luogo dedito alla sola produzione e quindi anche sul piano estetico lo spazio era funzionale al solo lavoro. Ora invece è diventato un luogo da attraversare e in cui passare del tempo e questo ha dato la possibilità non solo a noi di esistere, ma anche all’azienda di immaginare attività diverse: ha infatti affiancato alla tradizionale produzione, anche un orto a cui è collegato un agriturismo, che negli ultimi due anni ha cominciato a prendere piede e che si occupa della sezione ristoro durante Le Notti. Sementerie è quindi diventato uno spazio pubblico, un’occasione per accogliere persone e per invitarle a restare». 

Le Notti delle Sementerie è oggi giunto alla sua nona edizione. Come è cambiato negli anni e come si configura ora?

«È un’iniziativa che in effetti è cambiata nel tempo. Nei primi anni la direzione artistica era condivisa con Ignacio Gomez Bustamante del Banfield Teatro Ensamble di Buenos Aires e la rassegna prevedeva una serie di spettacoli ospiti, a cui affiancavamo format alternativi, come il “teatro alla carta”, una sorta di varietà. Si trattava di formule in cui cercavamo di sfruttare tutti gli spazi dell’azienda, allargando i confini della scena per invadere luoghi inediti. L’obiettivo è stato di avvicinare le persone togliendo le barriere tra artisti e pubblico, liberandosi cioè dell’artificio dell’attore che appare-scopare da dietro le quinte, un espediente che di certo contribuisce alla magia, ma al contempo crea una distanza relazionale. Questa necessità deriva anche dal luogo decentrato e non debuttato in cui siamo, che ha richiesto la costruzione di un pubblico da zero. Abbiamo quindi cercato un linguaggio accogliente e morbido, in linea con la nostra poetica che si fonda sull’essere diretti e non mascherati, con l’obiettivo di stabilire una relazione di presenza con il pubblico, per un teatro popolare e dunque accessibile. È infatti proprio questo carattere di accessibilità che ci permette di lavorare su più livelli per diversi pubblici, sensibilità e attitudini.

Dopo il Covid il rapporto con l’Argentina, per ovvie ragioni, si è allentato e abbiamo dovuto trovare nuove modalità e rapporti. Così nel 2022, per recuperare la relazione col pubblico che si era disgregata, oltre agli spettacoli ospiti nel teatro di paglia, abbiamo organizzato un laboratorio per la cittadinanza lavorando su Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, poi divenuto una performance itinerante, realizzata coinvolgendo il gruppo di cittadine e cittadini del workshop che affiancano il cast di professionisti. L’operazione è stata davvero soddisfacente sia da un punto di vista artistico, sia sul piano della relazione con il territorio e i suoi abitanti». 

Lo spettacolo torna in scena anche quest’anno, insieme a un altro lavoro simile, Lisistrata di Aristofane…

«Esatto, quest’anno riprendiamo Sogno di una notte di mezza estate (regia di Federico Grazzini)  per la terza volta e abbiamo proposto un altro laboratorio di avvicinamento al teatro, coinvolgendo poi i partecipanti nella produzione di Lisistrata – chi fa la guerra non fa l’amore (regia di Gloria Giacopini). In scena, quindi, ci sono sette interpreti professionisti affiancati da un coro composto da quaranta cittadine e cittadini. Sebbene il teatro di paglia resti il cuore pulsante, entrambi gli spettacoli si diffondono negli spazi di Sementerie. L’idea è di offrire un’esperienza unica, difficile da trovare altrove, anche perché per arrivare a Sementerie è necessario un piccolo viaggio». 

Avete scelto due classici, da due epoche diverse. Perché questi due testi e come ci avete lavorato? 

«I classici contengono un’universalità che permette di essere plasmata su qualsiasi tempo: è la loro capacità di oltrepassare le epoche a renderli dei testi potenti. Ci sembrava quindi la giusta chiave per coinvolgere la cittadinanza. Si tratta inoltre di due opere adattabili a diversi contesti e molto comiche. Nel caso di Shakespeare, soprattutto, ci si trova di fronte a un testo poetico in versi, con tante metafore difficili per le nostre orecchie del 2024 e perciò abbiamo lavorato mantenendo la struttura drammaturgica ma inserendola in un contesto più moderno. È sempre interessante notare come alcune questioni individuate secoli fa siano ancora parte del nostro modo di relazionarci tra individui: viviamo in un mondo radicalmente cambiato, eppure alcuni aspetti propriamente umani restano inevitabilmente immutati». 

I classici, come dicevi, permettono di connettersi ad alcune tematiche calde del presente. Lisistrata, in particolare, ha una forte impronta femminile e si incentra sul tema, purtroppo attualissimo, della guerra. Come avete affrontato queste questioni, sia preliminarmente sia con la cittadinanza? 

«Il motivo per cui abbiamo scelto Lisistrata è proprio per le tematiche contemporanee che porta in sé, anche quelle legate al discorso sul potere e alla possibilità di immaginare un’alternativa a quello già noto. Nell’opera originale, a essere protagoniste sono le donne del coro che si contrappongono ai vecchi potenti, mentre noi abbiamo scelto di comporre un gruppo allargato di persone: non solo donne, quindi, ma tutte le persone contrarie o che subiscono la “guerra”, termine con il quale intendiamo non solo il conflitto armato, ma lo scontro in generale. Si è trattato quindi di proporre una riflessione attorno a tutte quelle situazioni in cui ci trinceriamo in categorie escludendone altre, mettendoci l’uno contro l’altro anche quando il conflitto potrebbe essere superabile. Abbiamo inoltre lavorato sull’aspetto comico-grottesco del testo, che scaturisce dal nucleo della trama: le donne indicono uno sciopero del sesso per convincere gli uomini alla pace. Questo porta a un messaggio politico molto forte, quello che mostra la distinzione tra sesso e amore mostrando come proprio quest’ultimo sia la chiave di risoluzione: solo attraverso concordia e diplomazia è possibile chiudere e superare il conflitto». 

Qual è l’orizzonte ideale a cui Sementerie Artistiche tende?

«Sementerie Artistiche è un luogo aperto e allargato, non si capisce nemmeno bene come entrarci: questa caratteristica fisica è parte anche della nostra poetica. Immaginiamo quindi di collaborare con persone sempre diverse, realizzare progetti fluidi che partano dal teatro come linguaggio e strumento per espanderlo e coinvolgere le persone in prima persona. La presenza infatti vuole essere il nodo fondamentale delle nostre proposte, a fronte di una comunicazione digitale che ha completamente trasformato il nostro modo di relazionarci. Se il teatro ormai non è più il mezzo per parlare a molti, resta il luogo in cui si dà centralità al corpo e alla presenza: è da questa consapevolezza che continuiamo a costruire il nostro lavoro. 

Sementerie è inoltre un posto decentrato, la partecipazione qui implica una scelta, faticosa per certi versi. Da una parte questo aspetto può essere un problema, dall’altra però ci permette di instaurare relazioni diverse, forti: l’essere decentrati comporta infatti riuscire a coinvolgere persone anche da molto lontano, perché venire qui da 30 o da 200 km cambia poco. Si genera quindi una strana chimica, per cui Sementerie diventa un’isola in cui si torna e da cui si parte. Immaginiamo quindi che Sementerie Artistiche sia una porta tra il mondo e il territorio allargato. Questa è l’immagine che ci guida, la nostra bussola». 

Programma completo: https://www.sementerieartistiche.it/rassegne/notti-delle-sementerie-2024 

Visto da noi: La belva nella giungla, opera-video di Federico Tiezzi

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La complessa e talora modernamente contraddittoria relazione tra Cinema e Teatro scivola e si declina all’interno del sottile limes-discrimine tra contenuto e forma che, soprattutto nel recepimento, traslazione e trasfigurazione della drammaturgia ‘dentro’ la settima arte, evidenzia come quest’ultima sia capace di deformare il contenuto narrativo aprendolo anche a suggestioni inattese ma coerenti, ma nel contempo come spesso il contenuto narrativo determini slittamenti nella stessa forma in cui è rappresentato grazie alla incompiuta elasticità dello sguardo quando è filtrato dalla cinepresa o comunque dal video.

La premessa, non superflua, consente di avvicinarci, dal lato più perspicuo viene da dire, a questo La belva nella giungla, opera-video (così lui stesso la definisce) di Federico Tiezzi sulla traduzione e drammaturgia di Sandro Lombardi dalla novella di Henry James, in cui tra l’altro questo terzo elemento linguistico, tra epos e poesia, viene ad integrarsi ai due precedenti.

È come se, alla fine, il senso stesso della perturbante narrazione del grande scrittore americano, in un certo qual modo anticipatore della sintassi letteraria del flusso di coscienza, venisse man mano filtrata (dalla letteratura al video) in una osmosi che cerca di distillarne la limpida e ultima purezza, oltre la storia, la sociologia e la stessa psicologia in un territorio prossimo alla metafisica.

La storia è nota: un uomo e una donna incontratisi per caso percorrono il loro tempo in una sorta di distanza ravvicinata che mai si chiude e conclude, in percorsi paralleli che, come per i pianeti la forza di gravità, si influenzano, attraendosi e respingendosi in un equilibrio instabile ma inamovibile, pericoloso ma insieme confortante.

Su tutto domina un evento atteso e sconosciuto, una catastrofe che si aggira nell’animo di lui come, appunto, una belva nella giungla pronta a divorarlo, un evento che lei in un certo senso sollecita in un tentativo disperato di salvarlo da sé stesso che lui inconsapevolmente rifiuta pervicacemente di riconoscere.

Solo alla morte di lei quell’evento si chiarifica ed ha in fondo un nome: Vita, o meglio la paura della vita, che gli affetti e la donna stessa rappresentano come estuario che apre al mare della sensibilità, in un gioco di incomunicabilità, che però, paradossalmente, lancia segni e segnali come zattere di salvataggio abbandonate in quello stesso mare.

Fuga e nascondimento, attrazione e paura per nascondere qualcosa di terribile (l’anaffettività, la mancanza d’amore che si maschera a volte in inespressa misoginia) che ci minaccia ma che è già dentro di noi.

La belva che, come la Balena Bianca di Melville, ci cerca e ci fugge, ma che da sempre ci ha catturato se non sappiamo superarla.

In questa che sembra anche essere un’opera sul tempo, più che una ‘ricerca’ una vera e propria fuga dal tempo perduto, la mano di Sandro Lombardi, prima, e di Federico Tiezzi, poi, disegnano una umanità dispersa e molteplice, perduta nello spazio tempo di un universo sempre più grande e sempre più sconosciuto, in cui dunque il rapporto umanistico e rinascimentale macro-microcosmo appare come ribaltato, quasi rifrangendo dentro la nostra coscienza quella inconoscibilità e incomunicabilità universale.

Ben si adattano a tutto questo muoversi interno ed esterno, restando alla letteratura nordamericana, i versi di Walt Withman, tra l’altro ispiratore di questa edizione di Kilowatt Festival: “E pensare al tempo! Pensare al tempo passato! / E pensare all’oggi e ai secoli che da oggi cominciano! / Hai mai pensato di non avere un domani? Hai mai avuto paura di quegli insetti sottoterra? / Hai mai temuto che il futuro fosse inutile per te?

Questo continuo fluire è linguisticamente reso evidente, nel video, dagli interventi pittorici di Jacopo Stoppa, un’unica ma insieme molteplice raffigurazione figurativa capace di seguire (ricordiamo il ritratto di Dorian Gray) il fluire del tempo nel variare delle stagioni dell’uomo e della donna.

Protagonisti, verrebbe da scrivere in scena, due tra gli attori di maggior qualità oggi in Italia, Anna Della Rosa (May) e Graziano Piazza (John) capaci di espressiva mimica, tra malinconia e disperazione, in un fluire di sequenze che privilegia ovviamente il primo piano ed il cosiddetto piano americano, in fotografia e montaggio di Nicola Bellucci assai efficaci.

Come scrive Federico Tiezzi nel foglio di sala, dunque questo  “È teatro progettato per il video, non la registrazione di uno spettacolo”, e il risultato finale dà ragione di un insieme di suggestioni, diverse per lingua e sintassi, che convergono felicemente nell’unicità-pluralità del nostro sguardo di spettatori di cinema e di teatro.

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LA BELVA NELLA GIUNGLA, the pale blue dot project: capitolo I, da Henry James, opera video Federico Tiezzi, traduzione e drammaturgia di Sandro Lombardi, con Anna Della Rosa e Graziano Piazza, costumi Giovanna Buzzi, luci Gianni Pollini, interventi pittorici Jacopo Stoppa, fotografia e montaggio Nicola Bellucci, trucco Sofia Righi, operatore di macchina Stefano Dei, fonico in presa diretta Alessandro Di Fraia, co-produzione Vulpis Productions
, con il contributo di Fondazione CR Firenze, con il sostegno di Regione Toscana e MiC. Lavoro di video-teatro sull’omonimo testo di Henry James, tradotto e adattato drammaturgicamente da Sandro Lombardi. Durata 40’

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Terra Mossa celebra la musica delle donne

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Marta Del Grandi

Nel centro storico di Modigliana, comune dell’appennino romagnolo in provincia di Forlì-Cesena, il 19, 20 e 21 luglio si terrà la seconda edizione del festival Terra Mossa, nato un anno fa come risposta agli sconvolgimenti del territorio, colpito nel maggio 2023 da piogge torrenziali che hanno provocato numerose frane e cedimenti. “La Città delle Donne” è il sottotitolo – che richiama l’omonimo film di Fellini – dell’edizione di quest’anno, mettendo subito in chiaro il tema scelto: il programma, infatti, è declinato tutto al femminile.

Nada, Cristina Donà e Mara Redeghieri (nota principalmente per la sua attività con il gruppo Üstmamò) sono i nomi di punta della rassegna, e si esibiranno nella serata di sabato 20 luglio. Non mancano poi le nuove interpreti della scena italiana, più vicine alle musica indie ed elettronica, tra cui Maria Antonietta e Arianna Pasini, così come Marta Del Grandi ed Emma Nolde, che invece animeranno la serata di venerdì 19. Insieme a loro molte altre artiste di area folk (Fede ‘N’ Marlen, Noemi Valzano) e jazz (Sara Jane Ghiotti e Silvia Valtieri, The Last Coat of Pink). A rappresentare il teatro ci sarà poi Elena Bucci; come ponte fra le arti la cantante e performer Francesca Amati (già Comaneci) e un talk della fotografa Silvia Camporesi, che ha curato una ricerca visiva sulla Romagna colpita dall’alluvione.

«Il successo della prima edizione è stato certamente straordinario per numeri e circostanze. Il nostro tentativo è quello di rilanciare ed affinare l’idea per costruire un festival di territorio, orgogliosamente di periferia nelle location, ma nient’affatto provinciale nella linea e nelle scelte artistiche – senza dunque complessi di inferiorità». Queste le parole di Antonio Gramentieri, musicista, produttore coordinato artistico di Terra Mossa, che aggiunge: «Questo festival nasce e si sviluppa molto vicino alla terra. Sia terra di frane che terra come appartenenza. Proprio partendo dall’idea di terra-madre è stato inevitabile assumere in primis un punto di vista, per così dire, femminile. E tutto si è sviluppato di conseguenza».

Terra Mossa – che è a ingresso a offerta libera e l’incasso sarà interamente utilizzato per finanziare le prossime edizioni del festival – nasce dalle personalità che stanno dietro a Crinale Lab. Questo è studio di registrazione e laboratorio musicale nato sulle colline tra la città di Brisighella (RA) e per l’appunto Modigliana, in una location per nulla scontata: un antico casolare ristrutturato che si affaccia sulle montagne. Uno spazio unico nel suo genere, che ospita produzioni originali da tutta Italia e non solo: «Un luogo sospeso nel tempo e nello spazio, nato per riportare le persone e gli artisti dentro al gesto di creare musica insieme» spiega Andrea Bernabei, coordinatore del centro.

Terra Mossa è organizzato da Pro Loco Modigliana e Big Ben APS, con il coordinamento artistico di Crinale Lab, ed è reso possibile grazie al contributo di Regione Emilia Romagna, Comune di Modigliana, Fondazione Cassa dei Risparmi Forlì e Credito Cooperativo Ravennate, Forlivese e Imolese, nonché grazie al supporto degli artisti e della comunità locale. Il festival è in collaborazione con Libreria Bauci Città, in rete con Romagna in fiore, mentre i partner tecnici sono Bellosguardo Resort e Agriturismo Rio Monte.

 

Info: 3498132021, 339 4935284, 339 7428389, www.crinalelab.com, www.prolocomodigliana.it
istagram @terramossafestival

La videoarte che ci ha nutrito, da Marina Abramović a Bill Viola. Conversazione con Francesca Leoni e Davide Mastrangelo

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Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, Person-A, 2011

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L’edizione 2024 di Ibrida Festival, in programma dal 19 al 22 settembre a Forlì, si presenta con una nuova e importante partnership con la Collezione di Videoarte Alfredo Hertzog, un archivio creato dall’omonimo collezionista brasiliano e composto da più di 250 lavori sperimentali, storici e recenti.

Innanzi tutto, per chi non se ne intende: cosa differenzia un’opera di videoarte da un altro prodotto filmico come, ad esempio, un cortometraggio d’autore?

La distinzione tra videoarte e cinema non è sempre netta ed è oggetto di dibattito da parte di critici ed esperti. Tuttavia, possiamo individuare alcune caratteristiche che ci permettono di differenziare le due forme d’arte in maniera chiara per un pubblico generico. Quando parliamo di linguaggio, il cinema segue generalmente una struttura narrativa codificata, con un inizio, uno sviluppo e una fine. Utilizza un linguaggio cinematografico che include elementi come recitazione, montaggio, colonna sonora e scenografia. La videoarte non ha una struttura narrativa obbligata. Può essere composta da immagini fisse, video montati in modo non lineare o performance dal vivo rielaborate, ecc. Il linguaggio è libero e sperimentale, può includere anche solo elementi audiovisivi astratti che lavorano sulla percezione visiva e uditiva dello spettatore. Inoltre, il contesto e la fruizione dell’opera sono spesso diversi. Il cinema viene generalmente fruito in una sala cinematografica buia, su un grande schermo e con un pubblico statico. La videoarte può essere fruita in gallerie d’arte, musei, festival ed eventi. Può essere esposta su schermi di diverse dimensioni, in installazioni multimediali e addirittura proiettata su grandi strutture. Infine, non dimentichiamoci dell’autorialità: questa forma d’arte originariamente proviene dagli artisti visivi e non dai cineasti.

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Barbara Hammer, Sync Touch, 1981

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Come si colleziona la videoarte? Le opere sono uniche, come un dipinto a olio o un disegno a matita? E come e dove sono conservate, in genere?

Le opere video sono riproducibili, a differenza di dipinti o disegni unici. Una volta i collezionisti compravano il film in pellicola o la cassetta, ora la maggior parte delle opere sono in digitale; quindi, stiamo parlando di un file immateriale. Spesso gli artisti hanno una copia in altissima definizione nei loro archivi e mandano in giro nei festival una riproduzione. L’artista stabilisce il numero di edizioni (copie) dell’opera, simile alle stampe fotografiche. Maggiori edizioni generalmente comportano un prezzo inferiore. Il collezionista compra una delle edizioni dell’opera, che viene inviata su un supporto fisico in una chiavetta o hard disk a seconda delle dimensioni, accompagnata da un certificato di autenticazione. Ogni artista poi presenta l’opera come vuole. Noi, per esempio, abbiamo una cartellina personalizzata con la firma del documento accompagnata da un sigillo con le nostre iniziali. Il collezionista può disporre di quell’edizione per proiezioni pubbliche e private, la può prestare a musei ed esposizioni e ovviamente rivendere. Con l’avvento degli NFT alcuni videoartisti hanno aggiunto un certificato digitale di proprietà immutabile e riconducibile a una blockchain, offrendo, così, una maggiore tracciabilità all’opera.

Due vostre creazioni sono state recentemente acquisite dalla Collezione di Videoarte Alfredo Hertzog. Come è avvenuto l’incontro con questa Collezione e come la scelta di quelle opere, fra tante da voi realizzate?

Abbiamo un legame di sangue con il Brasile, poiché Francesca è cresciuta lì e parte della sua famiglia vive ancora a San Paolo. Inoltre, il panorama brasiliano della videoarte è molto ricco di festival e artisti con cui collaboriamo attivamente. In pratica, la curatrice della collezione ha proposto le nostre opere, e Alfredo Hertzog stesso ha scelto tra i nostri lavori le due opere da acquisire. La scelta è ricaduta su Person-A e Simulacro, che fanno parte della trilogia della pelle. Assieme ad Androgynous, le due opere acquistate completano un trittico realizzato tra il 2011 e il 2016. In particolare, Person-A (2011) è stato uno dei lavori che ha girato di più per mostre, rassegne e festival. La caratteristica di questi lavori è data dalla presenza di simboli, oltre alla nostra presenza come performer. Per noi è motivo di grande orgoglio far parte di una collezione così importante. Alfredo Hertzog, inoltre, sta compiendo un lavoro lodevole di catalogazione e archiviazione di tutti i lavori per renderli consultabili online da studiosi, appassionati e curiosi di videoarte. A breve lanceranno anche la collezione online.

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Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, Simulacro

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In questa Collezione sono presenti anche creazioni di Marina Abramović. Lei è o è stata un riferimento, nel vostro percorso creativo?

Certamente. Marina Abramović è stata un riferimento fondamentale per noi e per molti artisti contemporanei, soprattutto per la sua pratica nella performance art e per il suo rapporto con Ulay. Il loro lavoro ha segnato un’epoca d’oro della performance art, esplorando temi di identità, relazione e resistenza fisica, attraverso performance memorabili. L’influenza di Marina Abramović sulla fusione tra videoarte e performance art è ampiamente riconosciuta. Le sue opere spesso integrano elementi video per documentare e amplificare le performance dal vivo, consentendo loro di raggiungere un pubblico più vasto e di lasciare un’impronta duratura nel panorama dell’arte contemporanea. La collezione Hertzog, oltre a nomi più gettonati come quello dell’Abramovic, è anche ricca di videoartisti storici brasiliani, come la bahiana Letícia Parente (Brasile, 1930-1991), Lucila Meirelles (Brasile, 1953), Regina Vater (Brasile, 1943) e Gretta Sarfaty (Grecia-Brasile, 1947).

Come artisti, quali altri Maestri riconoscete?

Vogliamo ricordare in primis Bill Viola, scomparso qualche giorno fa. È stato un pioniere della videoarte, l’abbiamo studiato e amato per la capacità di esplorare le esperienze umane come nascita, morte e coscienza attraverso il medium video. Le sue opere utilizzano spesso ralenty estremi per creare ambienti immersivi e contemplativi, che invitano gli spettatori a interagire profondamente con le immagini. Dziga Vertov, che con il proprio lavoro, già un secolo fa, interpretò le possibilità di un nuovo linguaggio cinematografico e che abbiamo omaggiato con il nome della nostra associazione (Vertov Project). Vertov è noto per il suo contributo al cinema documentario e per aver sviluppato il concetto di “Cineocchio”, che enfatizza il ruolo della cinepresa nel rivelare la verità e superare i limiti della visione umana. Avanti davvero anni luce.

Matthew Barney, performer, regista e scultore statunitense che ha creato opere totali. Conosciuto per il suo ciclo di film The Cremaster Cycle, Barney ha combinato performance, scultura e narrazione cinematografica per esplorare temi di genere, mitologia e biologia in opere totali. Non possiamo non citare Maya Deren, una divinità indiscussa, alla quale Ibrida festival ha dedicato la copertina del festival nel 2022. Infine vogliamo almeno nominare David Cronenberg e la sua fisicità plastica. Cronenberg ha esplorato temi come mutazione, tecnologia e identità attraverso una cinematografia unica che spesso sfida le convenzioni narrative e visive tradizionali.

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Dana Levy, The Wake, 2011

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Due delle opere di videoarte premiate durante Ibrida Festival 2024 saranno acquistate e andranno a far parte della prestigiosa Collezione brasiliana, una dinamica virtuosa unica in Italia e (quasi) in Europa.

Possiamo affermare con certezza che questa iniziativa è unica in Italia. Ci sono premi per la videoarte nel nostro Paese, ma nessuno prevede l’acquisizione delle opere vincitrici. In Europa, solo un altro festival mantiene un simile rapporto con i collezionisti, acquistando le opere premiate. Speriamo che questa iniziativa possa incoraggiare altri ad acquistare opere attraverso il nostro festival (o altri). Il nostro obiettivo, come Ibrida Festival, è promuovere la cultura della videoarte e delle arti digitali, affinché ci siano sempre più artisti e fruitori di questa forma d’arte, oltre a un numero crescente di investitori e collezionisti.

Dal vostro osservatorio privilegiato sul panorama internazionale, come Direttori Artistici di Ibrida Festival, potete individuare, oggi, tendenze in atto in Italia nel mondo della videoarte?

Ogni anno riceviamo oltre 500 lavori video, dai quali selezioniamo circa 50 opere che poi proiettiamo durante il festival. Notiamo una continua evoluzione delle tecnologie utilizzate. Negli ultimi anni abbiamo iniziato a ricevere lavori generati con l’intelligenza artificiale (AI). Questo riflette una tendenza globale, dove l’AI sta diventando sempre più prevalente nelle pratiche artistiche.

Anche la ricerca estetica cambia costantemente. I temi trattati variano in base agli eventi. Ad esempio, il tema della guerra e dell’attivismo politico è al centro di molti lavori oggi, così come le questioni ambientali. L’anno scorso, il vincitore del premio Ibrida ha presentato un’opera realizzata durante il lockdown.

In sintesi, c’è una forte attenzione ai temi contemporanei: la videoarte in Italia sta rispondendo in modo dinamico alle nuove tecnologie e ai cambiamenti sociopolitici, in una fertile interazione con il contesto globale.

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Marcia Beatriz Granero, TRIP Paulista,2010

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Vi è un Paese, secondo voi, oggi particolarmente vivace, in questo ambito?

Quest’anno abbiamo ricevuto lavori da oltre 30 nazioni differenti. Molta partecipazione di artisti provenienti dagli Stati Uniti, Brasile, Corea del sud, Australia e da tutta Europa, inclusi molti italiani. Tuttavia, basandoci sulle opere ricevute, i paesi più vivaci, oltre all’Italia, sono il Brasile e il Belgio.

I lavori provenienti dal Belgio sono di altissima qualità e spesso finanziati da enti o istituzioni. L’anno scorso, i principali premi di Ibrida sono andati ad artisti belgi. Questo successo può essere attribuito in gran parte alle politiche culturali del Belgio, che supportano gli artisti con fondi statali ed eventi dedicati.

Il Brasile, d’altra parte, ha una scena di videoarte molto ricca e dinamica. Nonostante le sfide economiche e politiche, il panorama artistico brasiliano continua a prosperare grazie a festival locali, collettivi artistici e una crescente comunità di artisti digitali. La videoarte brasiliana spesso esplora temi di identità, politica e ambiente, riflettendo la complessità e la diversità del Paese. In sintesi, il Belgio e il Brasile emergono come Paesi particolarmente vivaci nel campo della videoarte internazionale, grazie a un solido supporto istituzionale e a una comunità artistica attiva e impegnata.

Per concludere: ci date un’altra anticipazione sull’edizione 2024 di Ibrida Festival?

Ogni anno introduciamo novità al nostro festival per offrire al pubblico un’edizione sempre in crescita e in aggiornamento. Oltre al premio di acquisizione delle opere, che rappresenta già un grande passo in avanti, ci saranno alcuni cambiamenti significativi. Il festival diventerà diffuso e si svolgerà in luoghi diversi. La parte clou si terrà alla Fabbrica delle Candele dal 19 al 22 settembre.

Ogni giorno apriremo al pubblico intorno alle 19:30 il nostro villaggio intermediale, che comprenderà due stanze dedicate alla selezione di videoarte, installazioni interattive e live. Venerdì 20 ci saranno due live performance: Enrico Malatesta in una nuova compagine e Gianmarco Donaggio. Sabato 21 tornerà Carlos Casa con Cyclope e un live straordinario di GO!YA!, con NAIP accompagnato da una celebre artista forlivese, alla batteria Julie Ant (Giulia Formica). Infine, domenica avremo la premiazione e un live co-prodotto in collaborazione con il festival di Trieste Science + Fiction con Luca Maria Baldini e Igor Imhoff.

Una novità di quest’anno è l’arrivo della videoartista brasiliana Marcia Beatriz Granero per una residenza artistica che culminerà con la realizzazione di una sua opera qui a Forlì: verrà anch’essa acquista dalla Collezione Hertzog.

Durante le giornate non mancheranno incontri e workshop, tra cui uno dedicato all’elaborazione video con l’AI. Inoltre, continua la nostra collaborazione con la Fondazione Dino Zoli, che presenterà una nuova e affascinante mostra tra performance art e nuove tecnologie. Quest’anno ospiteremo l’artista intermediale Francesca Fini con Cyborg Fatale, una mostra a cura di Bruno Di Marino con installazioni e video che verrà inaugurata lunedì 2 settembre alle ore 19 alla Fondazione Zoli. L’entrata sarà libera. La mostra sarà inclusa anche nella Giornata del Contemporaneo e si concluderà il 13 ottobre. Un programma fitto e denso di appuntamenti, consultabili sul sito di Ibrida Festival e sulle nostre pagine social.

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Davide Mastrangelo e Francesca Leoni – ph Consuelo Canducci

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Le Ariette, Brecht e l’alluvione

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Erano Territori da Cucire, adesso sono diventati Territori da Curare, anche se la cura può essere proprio la cucitura di paesi, di una comunità, un ritrovarsi e guardarsi negli occhi. La cura sono i rapporti, la vicinanza, le relazioni che i coltivatori biologici e teatranti delle Ariette hanno intessuto dall’89 ad oggi, attraverso il teatro e lo stare insieme, attraverso il racconto e la natura, gli animali e il cercare di unire tutti attorno ad un tavolo, attraverso le parole, gli abbracci, le storie. Da dieci anni va avanti il progetto di portare il teatro nelle piazze di alcuni comuni della Valsamoggia fatto con gli abitanti di quei luoghi. Quest’anno a cambiare i piani, la filosofia del progetto e la scelta del testo, è intervenuto l’alluvione che ha distrutto Monteveglio e alcune zone limitrofe e a Paola e Stefano ha portato via macchina e furgone, necessari per poter lavorare e spostarsi. Con una raccolta fondi, in pochi giorni, persone, abitanti, cittadini, amici, conoscenti hanno donato una somma utile a poter acquistare un furgone blu che faceva da fondale a questa Benvenuti a Mahagonny reinterpretazione dell’Ascesa e caduta brechtiana. Tre i comuni interessati, la replica che abbiamo visto a Crespellano, poi ci saranno quelle di Castelletto e Bazzano.

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Una trentina di abitanti (un progetto confinante con quelli di Monticchiello o della Tovaglia a Quadri di Anghiari) hanno recitato in piazza sotto al campanile rosso che staziona la targa Se mi trascorri nel bene ti conduco alla vita vera in riferimento al tempo che passa e se ne va lontano. Le sedie a semicerchio, sui tavoli bottiglie di Aperol, riempite di tè, e ciotole per cani con dentro praline al formaggio, lampadine da sagra e festa paesana, una fisarmonica per mettere in scena questo dramma (del 1930), sempre più attuale: in piazza campeggia una banca e uno sportello GoldBet di scommesse e per un testo che ha a che fare con l’economia sembra una perfetta e coerente scenografia. La drammaturgia è divisa in Fondazione, Ascesa e Caduta di questa città molto simile a Las Vegas, costruita nel deserto per spennare i polli con casinò, alcool, prostituzione, con quel divertimento vuoto da saloon del Far West dove sguazzano pescecani e iene e avvoltoi in attesa dell’ingenuo sognatore. C’è il gruppo delle prostitute (tra le quali spicca Alessandra Gabriela Baldoni), nei loro costumi dominano i colori rosso e nero, i comuni cittadini richiamati dalla costruzione di questa nuova città, in bianco candido, sorridenti e stupiti con le loro valige in mano attirati da questo Paradiso in terra, i quattro boscaioli che hanno sudato per anni in Alaska cercando l’oro e che adesso, dopo immense fatiche e sacrifici, sperpereranno tutto il loro capitale nella perdizione, nella noia, nel malaffare.

Mahagonny attira, grazie alla pubblicità (ricorda le bolle edilizie, finanziarie ed economiche tipo Dubai) gli scontenti del mondo che lì confluiscono credendolo il Paese del Bengodi o quello dei Balocchi collodiano tra tentazioni e vizi. La chiamano però città-trappola, città-ragnatela ma la gente dopo un po’ di anni comincia a partire, inizia ad andarsene delusa senza gioia, perché la felicità comprata con i soldi non è vera felicità e la libertà comprata con i soldi non è libertà, perché mangiavo e avevo ancora fame, bevevo e avevo ancora sete. Ma sta arrivando un uragano a spazzare via questa contemporanea Sodoma e Gomorra, la Natura (come nel caso dell’alluvione di Monteveglio) che si ribella al cambiamento climatico che l’Uomo ha provocato con i suoi comportamenti irrazionali e incoscienti, un tifone che raserà al suolo la città della gioia che si è trasformata nella città dell’insoddisfazione dell’uomo che cerca la felicità ma non trova pace: Perché costruire torri alte come l’Himalaya?

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Nell’avvicinarsi della fine (ci ha ricordato la pellicola catastrofica Il mondo dietro di te con Ethan Hawke) tutto è permesso e Jack (il primo dei boscaioli) si ingozza fino a scoppiare di cibo, il secondo Bill si getta nel bordello, il terzo Joe muore sul ring (contro Moses, la brava Paola Jara) e Jim (Giuseppe Patti da sottolineare la sua prova), che ha perso tutti i suoi soldi scommettendo sull’amico, ordina da bere senza poter pagare e facendo debiti e venendo per questo (i reati di natura economica sono i peggiori da poter commettere a Mahagonny) condannato all’impiccagione dopo un processo farsa, dopo che gli amici non gli prestano pochi dollari per ripianare il debito contratto, dopo che la giustizia si è fatta vendetta al grido di Non ha i soldi, deve morire. Qui c’è più rispetto per i soldi che per le persone. L’inganno è palpabile, l’inferno è in terra, la città brucia (come Troia) perché si era fondata soltanto sul denaro.

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Una notte a Sorrivoli tra arte e astronomia

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L’associazione Kairòs A.P.S, in collaborazione con Casa dell’upupa e con l’Associazione Astronomica del Rubicone A.P.S., presenta il prossimo 18 Luglio alle ore 21:00 la seconda edizione dell’evento intitolato: Gli astri d’intorno alla leggiadra luna… Una notte a Sorrivoli tra arte e astronomia.

Dentro alla Casa dell’upupa, casa-studio di Ilario Fioravanti e suo luogo dell’anima, dove “i personaggi che ha creato lo salutano […]. Perché la sua memoria è fatta solo delle sue terre crete.” (Vittorino Andreoli), il professor Mirko Orioli illustrerà ai partecipanti come Sole, Luna e stelle sono stati utilizzati nell’arte dalla preistoria fino ai nostri giorni.

Successivamente, nel giardino di casa dell’ upupa avrà luogo un’osservazione astronomica, a cura del professor Matteo Montemaggi, presidente dell’Associazione Astronomica del Rubicone A.P.S. Tramite la visione a occhio nudo e al telescopio, sarà possibile riconoscere le principali stelle e costellazioni estive e alcuni oggetti del profondo cielo (ammassi stellari, nebulose…).

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Nel rispetto delle esigenze di natura conservativa della Casa dell’upupa, facente parte dell’Associazione Nazionale Case della memoria, la visita sarà riservata a un numero limitato di persone.

La partecipazione è gratuita, grazie al contributo di Romagna Banca – Banca di Credito Cooperativo – Piadineria Amarcord di Santarcangelo Sul Rubicone – L’orto di Famiglia di Caraboin e Galiscia a San Mauro Pascoli.

La Prenotazione obbligatoria al nr. 334 3651256 o all’e-mail ilario.fioravanti@gmail.com.

L’indirizzo di Casa dell’Upupa è Piazza Roverella n. 13 frazione di Sorrivoli – Comune di Roncofreddo.

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Vinicio Capossela, il condottiero dalla parte de “I Superflui”

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Martedì 4 luglio siamo stati a Bertinoro, “Balcone della Romagna”, all’interno di Entroterre Festival per il live di Vinicio Capossela nella spendida cornice dei Giardini della Rocca.

Assistere ad uno spettacolo di Capossela è sempre un miscuglio di grandi emozioni, uno spettacolo musicale dove la magia delle note e delle parole si fondono con la teatralità e la letteratura e dove ognuno di noi si interroga sulle grandi domande che sia in passato che nel presente ogni essere umano si pone.

“Altri tasti” è il nome del tour estivo che Capossela ha proposto in giro per l’italia con formazioni e repertori differenti, ma dove l’urgenza di esprimersi tramite la musica e le parole rimane la stessa di sempre, dove oltre alle canzoni urgenti del suo ultimo album trovano spazio anche pezzi tratti da Camera a sud nell’anniversario del suo trentennale, ogni pezzo eseguito magistralmente dal condottiere Capossela e dalla sua band che ha accompagnato il cantautore durante l’ultimo tour.

Quello che mi è rimasto impresso particolarmente in questo live sono state le parole di Capossela quando ha parlato di Dante Arfelli (1921-1995), scrittore, nato proprio a Bertinoro, celebre per I superflui, romanzo vincitore nel 1949 del Premio Venezia (antenato del Premio Campiello), pubblicato in Italia da Rizzoli e negli Stati Uniti da Scribner, l’editore di Ernest Hemingway, dove vende milioni di copie.

Ma chi sono questi superflui? Sono espressione dello smarrimento di un’intera generazione così come allora, dopo la seconda guerra mondiale, anche oggi. Sono personaggi soli e abbandonati a se stessi, pedine immobili che si lasciano trascinare dalla corrente di fronte allo spaesamento di una quotidianità distrutta dalla guerra, di una società da ricostruire. Sono uomini e donne le cui vicende personali si fanno universali, ma che suonano ancora molto attuali. Tutti i personaggi sono in cerca di amore e realizzazione, di un posto dove stare, ma alla fine devono soccombere al proprio destino di inettitudine. Un destino di fallimento morale, civile e sociale.

Ed è proprio in questa categoria che io stessa sono incasellata, una perdente, emarginata, nonostante la mia voglia di vivere, i miei sogni e speranze, schiacciata da una società corrotta e sempre più alla deriva.

Capossela è riuscito ancora una volta a toccare quei tasti più intimi e profondi delle nostre anime. Non siamo soli, ed è proprio in questi momenti che la mia voglia di cambiare le cose si fa sempre più viva e travolgente e i miei sogni diventati illusioni prendono nuova linfa vitale, perchè è solo in questo modo che riusciremo a sopravviere.

Grazia alla musica, alle parole, alla lotta, a toccare il fondo ma rialzarsi sempre, con bellisime cicatrici da mostrare con orgoglio.

Grazia a Vinicio Capossela, a tutta la sua band, a Entroterre Festival e a quelli che come me non smettono di sognare un mondo migliore.

Che coss’è l’amor? Semplicemente tutto questo.

 

 

 

I Colla: la Tempesta, Eduardo, i burattini

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Assistere ad una rappresentazione della Compagnia Carlo Colla e Figli è fare un viaggio nel teatro, è assaporare l’autenticità dell’artigianato, è fare un’esperienza nella storia, è vedere la maestria all’opera, è gustarsi i particolari, i colori, le maschere, la grazia, la costruzione di personaggi senza tempo.

Nel mettere in scena La Tempesta shakespeariana, i Colla (i burattini li costruiscono da soli, così come i costumi, hanno quattro magazzini pieni a Milano di scenografie e soprattutto di 3.000 marionette) hanno effettuato un’ulteriore coraggiosa scelta: le voci dei personaggi sono quelle registrate per lo spettacolo del 1982 che Eduardo De Filippo preparò, e soprattutto tradusse. La traduzione de La Tempesta fu l’ultima opera, come è stato per lo stesso Shakespeare, su cui Eduardo lavorò: infatti interpretò e incise le parti di tutti i personaggi, tranne quella di Miranda.

Burattini, scene complesse di fili e carrucole e binari a scomparsa su più livelli a creare profondità e prospettiva, la traduzione in un napoletano stretto seicentesco e popolare. I burattini vengono manovrati dall’alto, grazie ad una decina di movimentatori, per due ore di magia, meraviglia, incanto, stupore, allegria.

Un lavoro complesso e impegnativo, di grande costruzione intellettuale, di sforzo collettivo, un’idea davvero mirabile e da sottolineare, un’opera raffinata di cesello e cura dei dettagli.

Niente è lasciato al caso, tutto è filologico, pensato ma anche giocato e sentito e vissuto.

Ecco la grotta rossa e dantesca dove Prospero (il suo volto ci ha fatto pensare a Michele Placido) attua i suoi malefici per vendetta contro il fratello Alonso impostore, ecco il palazzo fiabesco e sfarzoso (che ci ha ricordato il Castello di Sammezzano in Toscana), sul fondale il mare in movimento così come le galee in navigazione, il tutto accompagnato dalla musica partenopea e la voce roca e flebile di un grande uomo che si apprestava al suo tramonto, a chiudere il suo sipario.

Ariel, lo spirito aiutante di Prospero, è su un cavalluccio a dondolo, è cangiante e fluido ed ora ha le fattezze di una donna, quasi Fata Turchina, adesso di un ragazzo.

La scritta sopra il palcoscenico nel palcoscenico è raggiante: Nuje simme fatte cu la stoffa de li suonne. E sta tutto lì: l’inventiva, la trasformazione, l’equilibrio, il tradimento.

 

 

Le scene (vere e proprie opere d’arte) si muovono orizzontalmente mentre, ad esempio, il ruscello verticalmente, per un impianto tecnicamente sbalorditivo, commovente, preciso e perfetto.

Ogni scena è come una matriska dentro la quale se ne anima un’altra, uno zoom.

Colpisce, e non può essere il contrario, Calibano il mostro dell’isola imprigionato da Prospero: un mix tra Maui, il gigante tatuato della Disney in Oceania, Shrek, Sloth dei Goonies, Dwayne Johnson, attore di Fast & Furious, e Jason Momoa, Aquaman e Conan.

Divertenti le scimmie e i cani in pelouche davvero realistici. Un grande presepe semovente d’impatto, granitico, eccezionale, raro. E poi si crea, grazie alla prospettiva che inganna l’occhio della platea, una sorta di miraggio riguardo alle dimensioni dei personaggi che dal basso sembrano dominanti e alti ma che in realtà non superano il metro, un effetto ottico che sbalordisce ulteriormente.

Geniale è infine il teatro nel teatro all’ennesima potenza: marionette che tengono e muovono i fili di altrettante marionette più piccole in un teatrino sul palcoscenico.

Nel finale il coup de théâtre e ciliegina sulla torta è assolutamente il burattino dello stesso Eduardo che appare come per benedire e suggellare questa prova, il regista che viene a prende l’applauso della platea grata.

I Colla sono abilità, bravura, perizia, padronanza dei linguaggi, competenza della scena, che si tramandano da generazioni: impossibile non amarli. Un sogno barocco esaltante nel quale immergersi perché siamo fatti della stessa sostanza ed è bello riscoprirsi bambini pieni di fantasia, illusioni, desideri.

 

 

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Colpi di Scena #3 – DNA e parole

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ph Sergio Ferri

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Tanti spettacoli per ragazzi nascono dai libri. Non solo dalle fiabe, ma anche da romanzi best-seller e testi poetici, più o meno moderni.

Durante la rassegna Colpi di Scena, organizzata da Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione ho assistito a tre spettacoli che dialogano con un testo letterario, ciascuno con un approccio diverso.

Se consideriamo uno spettacolo come un organismo e il suo testo come un codice genetico, in esso possono comparire, più o meno evidenti, le tracce del DNA genitoriale, ossia dello spunto o del soggetto che ne ha posto le basi.

Nel caso di spettacoli tratti da libri spesso si persegue la via della massima fedeltà al testo letterario, ed ecco allora che lo spettacolo ha intere “sequenze di DNA” che coincidono parola per parola al romanzo/racconto di partenza. È il caso di molti adattamenti recenti, come Blankets (di cui ho parlato qui) e anche del lavoro di Teatro Gioco Vita, La ragazza dei lupi.

 

ph Sergio Ferri

 

La ragazza dei lupi è un romanzo di Katherine Rundell, vincitore del Premio Andersen nel 2017. La storia tratta di una ragazzina, Feo, cresciuta in una famiglia di Liberalupi, cioè individui che liberano i lupi, li proteggono e dialogano con loro. Quando sua mamma viene incarcerata, Feo scappa, aiutata da tre lupi. A loro si aggiunge il giovane Ilya, un soldato che desidera fare il danzatore e che diserta per partire con Feo.

Tutto il racconto è un inno alla libertà, contro ogni forma di dittatura, tanto che nel finale Feo riesce a scatenare una vera e propria rivoluzione e ad avere la meglio sui militari.

Lo spettacolo di Teatro Gioco Vita mette in piedi una complessa macchina scenografica, che da principio richiama subito la vita nei boschi, con un’alta struttura di osservazione in legno, ricchissima di dettagli capace di incantare lo sguardo. Attorno ad essa si muovono i due attori, Valeria Barreca e Tiziano Ferrari. I due riportano e narrano con grande fedeltà il testo della Rundell. Interpretano con diverse voci i personaggi e gli danno vita tramite il sapiente uso delle ombre che contraddistingue da sempre la compagnia teatrale.

 

ph Costanza Maremmi

 

È diverso l’approccio di Illoco Teatro, che con Asola & Bottone. Storia di un sarto e della sua anima, traspone il racconto L’anima smarrita di Olga Nawoja Tokarczuk, scrittrice polacca, di recente insignita del premio Nobel per la letteratura.

Roberto Andolfi, il regista, prende il testo letterario e lo porta in scena, ma toglie quasi tutte le parole. Poco del testo effettivo viene mantenuto e le poche frasi dello spettacolo vengono relegate ad alcuni momenti introduttivi e conclusivi tramite un voice over. Tutto il resto è spazio, luce e azione.

Il testo non entra più direttamente nel DNA dello spettacolo, dando forma e parole al testo teatrale. Lo spettacolo non è clone del libro, ma figlio, con l’impronta del genitore ma un carattere unico e particolare.

La storia è quella di un sarto anziano, sempre al lavoro nella sua bottega. Ad aiutarlo c’è la sua anima, la stessa che narra il racconto, ma che non può entrare in contatto con lui direttamente. Una notte la vita del sarto viene ripercorsa tutta: dalle prime aspirazioni, al fallimento, fino alla proposta di un inquietante investitore con cui il sarto firma un contratto di esclusiva. Questo gesto lo porta ad una separazione dalla propria anima. Ma nel finale il sarto, ormai vecchio, strappa il contratto e ritorna alla libertà creativa della giovinezza, riunendosi con la sua anima.

Sarto e anima sono interpretati da Dario Carbone e Annarita Colucci, perfettamente padroni di gesti, posizioni, intenzioni, in un set scenografico per nulla facile da gestire. A farla da padrona sul palco, infatti, è la complessa scenografia di Federico Biancalani.

Una struttura tridimensionale cubica contiene l’intero ambiente in cui si muove il sarto. All’interno, illuminati da luci calde, ci sono manichini, abiti, altri oggetti e tende che delimitano stanze e ambienti differenti. All’esterno, sotto una luce bianca, che sfuma nell’oscurità, è relegata l’anima. Lei si muove freneticamente tutto attorno alla struttura, osservando il padrone, seguendolo, agganciando e sganciando corde per far scendere o salire, con un sistema precisissimo di contrappesi, gli oggetti usati dal sarto.

Un lavoro sulla leggerezza e pesantezza e sul fuori e dentro, che, senza parlare, racconta tutto della storia da cui prende vita.

 

 

Il terzo spettacolo è Stravaganze in sol minore del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto, che parte dai testi de La mela di Amleto di Toti Scialoja, pittore e poeta italiano. Questa è una raccolta di brevi nonsense verbali in poesia.

Scialoja gioca con le parole, girandoci attorno con rime, ripetizioni, allitterazioni, recuperandole nel loro suono prima che nel loro senso, intrecciando i significanti senza pensare al significato.

Un esempio:

Calma la talpa al chiaro di luna
palpa le sue patate ad una ad una.

Lo spettacolo di Aterballetto vuole proseguire l’indagine sul puro suono delle parole, utilizzandole come spunto scenico e coreografico, affiancate o meno da musiche di vario genere.

Questo scopo viene attuato con la ripetizione insistita, spesso seguendo una melodia cantilenata, delle poesie di Scialoja. Ognuna inserita in un contesto diverso e associata a movimenti e oggetti di scena differenti.

Ad esempio Calma la talpa è declamata dall’attore (e baritono) Piersilvio De Santis, che si rivolge al pubblico e lo coinvolge nel gioco di ripetizione, mentre Vittoria Franchina esegue movimenti di danza indossando una maschera kabuki.

Altre due poesie, Pipistrello ti par bello e Topo topo senza scopo, vengono recitate e ripetute dai due interpreti mentre lottano furiosamente tra loro.

La mela di Amleto viene pronunciata in un fitto fumo, durante un combattimento con spade di legno.

La poesia della lumaca e la luna è recitata una sola volta, dopodiché i due interpreti si lanciano in un ballo di coppia sulle note di Dean Martin.

A volte sembra di trovare delle regole nel movimento, nella melodia, nell’uso di maschere e oggetti, ma subito quest’impressione sfugge.

Lo spettacolo è stra-vagante proprio perché vaga straripando tra espressioni visive, rimbalzando tra i suoni delle parole, senza dettare un terreno comune solido per lo spettatore, determinando un’esperienza a metà tra lo smarrimento, il divertimento (nello svelarsi di volta in volta di nuove stravaganze) e l’attesa.

 

 

I tre spettacoli citati partono tutti da testi letterari. I testi sono piuttosto diversi, soprattutto per quanto riguarda Scialoja, ma quello che distingue i lavori presentati è soprattutto l’intento con cui viene affrontata la materia di partenza.

Nel caso de La ragazza dei lupi si tratta di una semplice traduzione del testo in forma scenica. Il romanzo è drammatizzato e sintetizzato per il palco, dove viene narrato, quasi come fosse una lettura, dalla compagnia Teatro Gioco Vita, con le sue modalità e tecniche, efficaci e ben consolidate.

Per Asola & Bottone parlerei più di trasposizione che di traduzione. Dal linguaggio verbale letterario si cerca un linguaggio “teatrale” che sfrutta le prerogative uniche della macchina scenica, per veicolare un secondo livello di significati, che anche nel testo originale possono essere presenti senza essere esplicitati.

Nel caso, infine, di Stravaganze in sol minore l’intento sembra quello della ricerca artistica, che prosegua la scrittura del testo di partenza, andando avanti là dove l’autore aveva messo la parola fine.

Tornando alla metafora iniziale, con il primo spettacolo si ha la conservazione del patrimonio genetico di partenza, con il secondo un’evoluzione controllata e regolata dai meccanismi interpretativi del regista, con il terzo si introducono elementi alieni, per scatenare una rapida trasformazione del materiale in qualcosa di completamente nuovo.

Questi tre percorsi si affiancano a molti altri possibili, che hanno il grande pregio di aprire le porte che spesso separano il mezzo teatrale da quello letterario e favoriscono lo scambio tra i generi, arricchendo la variabilità genetica del nostro patrimonio culturale, che, non dimentichiamolo, vive ed evolve nel tempo.

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Verso l’origine. Il Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi ha inaugurato l’Emilia Romagna Festival

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ph Daniel Carnevale

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Rivoluzione, come ci ricorda Roberto Zarpellon in chiusura del programma di sala del Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi che lo scorso 3 luglio ha inaugurato all’Abbazia di San Mercuriale a Forlì l’Emilia Romagna Festival 2024, è etimologicamente ritorno alle origini.

Questo stimolante paradosso ribalta il senso comune secondo il quale ogni rivoluzione tende a distruggere ciò che c’è per edificare qualcosa che ancora non c’è.

Come non pensare, analogamente, alla grande mostra dedicata ai Preraffaelliti (che ha chiuso ai Musei San Domenico di Forlì il 30 giugno scorso), che ha presentato la Confraternita inglese nata a metà Ottocento che andava verso il nuovo rivisitando, nomen omen, gli autori e le opere del passato, precedenti la rivoluzione formale di Raffaello Sanzio (QUI la nostra recensione)?

La Venice Monteverdi Academy, affiancata dall’Orchestra “Lorenzo Da Ponte” e dal coro Schola Gregoriana “Reale Corte Armonica – Asolo” diretti da Ernest Hoetzl, ha dato vigoroso corpo sonoro alla rivoluzione della seconda prattica del divin Claudio nel rimettere al centro la parola.

Secondo tale concezione, com’è noto, è il rapporto col testo a determinare la struttura musicale.

«Armonia serva al oratione e oratione padrona del armonia»: per trovare un puntello teorico a questo modo di vedere, Monteverdi non poté evitare di rifarsi all’autorità degli antichi, primo fra tutti Platone.

Non didascalica descrizione, men che meno traduzione sonora (semmai fosse possibile) del significato letterale di ogni singola parola, come già volevano i madrigalisti cinquecenteschi, ma tensione a rendere in musica il contenuto generale e più profondo del testo, indicibile attraverso il mero linguaggio verbale.

Per fare ciò, paradossalmente, è necessario che la musica abbia una propria autonomia, che nell’esecuzione forlivese si è manifestata attraverso nette variazioni di organico, a consegnare a chi ascolta sempre mutevoli materie e consistenze sonore.

Questo il nutriente sdoppiamento filologico che il concerto ha proposto.

Il festival prosegue fino all’11 settembre: QUI il prezioso programma.

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Colpi di Scena #2 – Le strade di Hansel e Gretel

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ph Elena Beregoi

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Di recente sono stato a Colpi di Scena, biennale di teatro per ragazzi e giovani, organizzata da Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione.

In un precedente articolo ho sollevato il problema del rapporto tra teatro e fiaba, prendendo in esame tre spettacoli, tra quelli in rassegna, che riprendevano la storia di una fiaba, con modalità e intenti diversi. Una di queste fiabe è Hansel e Gretel, e ho potuto ritrovarla in altri due spettacoli.

Uno di questi è Hansel e Gretel, fratelli unici di La Baracca – Testoni Ragazzi, dove viene messa in scena direttamente la storia dei fratelli Grimm.

L’altro è Down, spettacolo di teatro danza del Collettivo Clochard, dove la storia dello spettacolo non coincide con la fiaba dei Grimm, anzi, appartiene alla realtà più che al fiabesco. Ma compaiono comunque alcuni riferimenti alla fiaba.

 

ph Matteo Chiura

 

Hansel e Gretel, fratelli unici è stato sviluppato all’interno del progetto Arte e Salute Ragazzi, un laboratorio tramite il quale si è creata una compagnia teatrale con persone che soffrono di disturbi psichiatrici.

Proprio perché all’interno di una cornice di ricerca laboratoriale, che interroga in primo luogo le coscienze dei partecipanti, lo spettacolo nasce dall’esigenza di cercare elementi della fiaba attraverso i quali sia possibile rileggere la storia personale di chi lo mette in scena.

La narrazione è lineare e fedele alla storia originale, con le sue svolte e i suoi personaggi. Ma tra i vari temi di Hansel e Gretel viene selezionato e messo al centro quello della fratellanza e dell’appartenenza familiare.

Tenendo ben presente questo tema gli attori si confrontano con esso, uscendo in alcuni momenti dai loro personaggi e raccontando esperienze personali sul tema della fratellanza o, è il caso dell’attore che interpreta il padre dei ragazzi, interrompendo l’azione drammatica per fare commenti sul personaggio che sta interpretando, criticandone le decisioni.

Inoltre il personaggio di Hansel viene triplicato e diventa un piccolo coro, nel quale ogni attore interpreta una veste di Hansel, un aspetto della sua personalità, nel quale riesce a inserire una parte della propria esperienza. Al centro di questo Hansel-coro c’è Gretel, vera protagonista del racconto. È lei quella a cui tocca il compito di ricucire i rapporti familiari e salvare la sua vita e quella del fratello.

Anche Down ricerca e seleziona all’interno della fiaba determinati temi, in  particolare il rapporto figli-genitori e il sentirsi abbandonati. Tuttavia lo fa raccontando un’altra storia, in cui inserisce simboli che richiamino il personaggio di Gretel e i significati ad esso associati.

Nello spettacolo viene raccontata la vita di una bambina con sindrome di Down: si parte dal concepimento, poi la nascita, il rapporto con la madre, le prime esperienze di bullismo e discriminazione da parte di coetanei. Di fronte a queste esperienze negative la bambina perde fiducia nella madre, che, rimasta sola, non sa come gestire la situazione e salvare il rapporto. Il dramma è vissuto da entrambe, madre e figlia, ambedue vittime di un padre assente che ad un certo punto ritorna, scatenando un furioso confronto.

Quello del Collettivo Clochard è uno spettacolo fatto di simboli.

La madre della bambina indossa una casetta, come una maschera, che gli copre la testa. Il padre è vestito da apicoltore. La bambina gioca con una casetta tutta nera, con la scritta Gretel. Dentro c’è una bambola, Gretel appunto, che è specchio della bambina stessa e le permette di farsi a sua volta mamma.

Anche le parole, in alcuni momenti, sono usate come simboli. All’inizio, pronunciati sporadicamente, isolati, ritornano alcuni termini: amore, casa, sole, io, mamma. C’è un gioco di ritorni, in cui queste parole passano dalla bocca della mamma a quella della figlia, che le usa nel suo rapporto con la bambola.

Lo spettacolo alterna momenti di parola a momenti di danza. L’attrice Giorgia Benassi, che interpreta la bambina e che, nella realtà, ha veramente la sindrome di Down, dà vita senza problemi ad entrambi con naturalezza e forza.

La sua presenza si distingue, nel complesso dello spettacolo, per essere l’elemento più denotativo e meno iconico, più reale e meno simbolico, e permette di raccontare con molta efficacia un problema e una situazione reali, andando dritto al cuore della questione e portandola sul palco.

 

ph Elena Beregoi

 

Hansel e Gretel, fratelli unici è una fiaba. Down una storia di realtà.

La prima è più semplice, diretta nei suoi messaggi, la seconda segue le sfumature della vita e spesso è difficile prendere una posizione. Tuttavia entrambe vogliono veicolare un messaggio di speranza, di una crescita possibile, che permetta di uscire dalle cornici o dalle casette in cui ci si trova intrappolati e di aderire alle pieghe dell’anima umana, che non ha una forma precisa e ben definita, ma che bisogna imparare a conoscere e rispettare.

Entrambe fanno riferimento alla stessa fiaba, scavando per trovare in essa i significati che possono risultare più funzionali alla narrazione e la inseriscono in un discorso educativo e comunicativo moderno. Down con un’attenzione all’attualità e alla società, il progetto di Arte e Salute Ragazzi con la consapevolezza dell’utilità della finzione nel processo di conquista di sé.

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Pinocchio è diverso ma vuole lo stesso rispetto

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ph Renato Esposito

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Chi in Pinocchio ha sempre visto soltanto un burattino di legno ne ha colto soltanto la sua patina superficiale: Pinocchio è il diverso, il differente, il dissimile, il difforme, il discordante, il disuguale dalla massa. In un mondo di bambini in carne ed ossa lui è fatto di pino, ha un naso che si allunga, è nato soltanto dal padre. Il regista napoletano, pedagogo sensibile e formatore Davide Iodice ancora una volta lavora in teatro portandoci dentro urgenze sociali, di collettività, di umanità, come nella pièce La Luna dove si faceva il parallelismo tra i rifiuti solidi urbani e le persone considerate scarti, avanzi superflui.

C’è una grande verità in questo Pinocchio (a cura della compagnia della Scuola Elementare del Teatro – Conservatorio popolare delle arti sceniche, prod. Interno 5, Teatro APS, Campania Teatro Festival, Forgat ODV, Teatro Trianon Viviani; visto al festival Narni Città Teatro) che esce ed erompe dal palco e tutti trascina per semplicità e potenza, vitalità e forza.

 

ph Renato Esposito

 

In scena un gruppo di ragazzi diversamente abili (affetti da Sindrome di Down, autismo, Williams, Asperger) accompagnati sulla scena da genitori o parenti o amici per raccontare un pezzo della loro biografia e delle loro giornate.

C’è il grillo parlante che è un povero Cristo che si porta la sua croce sulle spalle stanche: Mi hanno schiacciato sotto il peso delle paure, delle diagnosi, del disamore, dice curvo, ripiegato su se stesso. Pinocchio, come questi ragazzi, ha sempre sofferto del giudizio sociale, anzi del pregiudizio, dello sguardo ora compassionevole, adesso finto amorevole, ora consolatorio, con quella gentilezza di maniera che ti fa sentire lontano dalla normalità, qualsiasi cosa voglia dire questa parola, guardato con sospetto e a tratti anche con ribrezzo come un oggetto strano e raro, un qualcuno da compatire, e spesso allontanare, con sorrisi di circostanza.

Sono tanti Pinocchio con i loro nasi con l’elastico, che vorrebbero essere considerati come gli altri ragazzi: c’è Giorgio con la madre Patrizia, Chiara e la mamma Pina, Yuri e il padre Renato, Mauro il cugino di Stefano, Cinzia la mamma di Ariele, Tommaso e la mamma Paola, Gaetano e l’amica Serena, Alì l’amico di Federico.

In queste presentazioni pubbliche, sono gli adulti a dire bugie velate d’ironia acre ai loro figli: li rassicurano che la nostra società troverà loro uno spazio adeguato e rispettabile nel mondo, che riusciranno ad avere un compagno di vita e a formarsi una famiglia, che faranno figli e avranno un lavoro stabile e soddisfacente, che saranno accolti e non abbandonati. Siamo tutti uguali dicono con una lieve, sottile amarezza. Si sentono esclusi, emarginati, marginali, sempre in trincea a schivare i colpi. Si chiedono che cos’è una persona (che è anche il sottotitolo), che cos’è la normalità, che cos’è il futuro.

Impossibile non commuoversi di fronte alle dichiarazioni di questi genitori, stanchi ma orgogliosi dei passi avanti fatti dai loro cari (anche grazie al teatro e a persone come Iodice), che hanno accettato questo tempo dilatato con consapevolezza ma senza più rabbia sterile.

Se i genitori Geppetto e la Fata Turchina stanno diventando anziani, per loro il timore più grande è il dopo, quando non ci saranno più a proteggerli, sostenerli, tutelarli e la loro ansia è proprio quella legata al tempo che avanza e al lasciare soli, in un mondo ostile o quantomeno indifferente, i propri amati.

 

ph Renato Esposito

 

La fame di vita di questi ragazzi è insaziabile e vorace, chiedendo costantemente Che facciamo dopo? con i genitori che tentano di arginare le domande donandosi generosi, spendendosi anima e corpo fino all’ultima energia per cercare di alleviare sofferenze e dolori, di cercare soluzioni, tamponare emergenze.

Si aprono, si confrontano sui loro desideri, comuni ai coetanei, ma purtroppo irrealizzabili, chiedono più pazienza e ascolto. In un’altra occasione scenica assistemmo ad un nuovo binomio tra il burattino di Collodi e la disabilità con lo spettacolo dei Babilonia Teatri con persone, adesso invalide, uscite dal coma dopo aver subito importanti lesioni in gravi incidenti.

Fragilità esposte desiderose soltanto di essere guardate con occhi diversi, con il cuore e le orecchie aperte al dialogo, allo scambio paritetico. Senza pelle si mostrano, non hanno più paura del giudizio, cercano soltanto solidarietà, vicinanza, umanità. In fondo siamo tutti Pinocchio.

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Colpi di Scena #1 – La fiaba è l’alfabeto dell’umanità

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Teatro Perdavvero, Il segreto di Barbablù - ph Emanuela Caselli

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Nel mese di giugno a Forlì si è tenuto Colpi di Scena, evento biennale di teatro per ragazzi e giovani, a cura di Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione. Sono stati portati in scena, in quattro giorni, ben sedici spettacoli, di cui sette prime nazionali, di compagnie provenienti da tutta Italia e dall’estero.

In tutta questa abbondanza di storie, stili, idee e punti di vista è stato possibile confrontarsi ancora una volta con il mondo del teatro ragazzi e trovare, in una diversità di linguaggi, antichi tratti ricorrenti e moderni spunti di innovazione.

Ad esempio, parlando di ciò che ricorre: tra i titoli sui cartelloni del teatro ragazzi compaiono quasi sempre una o più fiabe classiche. A Colpi di Scena ne ho incontrate tre, riprese più o meno fedelmente, reinterpretate mediante determinati linguaggi o anche solo accennate: Barbablù, Cappuccetto Rosso e Hansel e Gretel.

La fiaba è l’alfabeto dell’umanità, un sillabario di elementi che non sono altro che le componenti prime dell’uomo: istinti (la fame in Hansel e Gretel), emozioni (la paura del bosco e del lupo in Cappuccetto Rosso), legami familiari e poi sociali (il rapporto con i genitori di Hansel e Gretel, il matrimonio d’interesse di Giovanna con Barbablù).

 

TCP Tanti Cosi Progetti, Granny e Lupo – ph Francesco Bondi

 

Non stupisce dunque che sia ancora al centro del discorso educativo e artistico per le nuove generazioni. Ma come viene portata sul palco?

Innanzitutto, la fiaba è un racconto, viene dalla tradizione orale, e la si può semplicemente ri-raccontare.

È la modalità che contraddistingue artisti-narratori come Marco Cantori del Teatro Perdavvero e Danilo Conti di TCP Tanti Cosi Progetti. Entrambi navigati affabulatori, salgono sul palco e riempiono l’aria di parole, narrando, pagina dopo pagina, la storia.

I loro spettacoli Il segreto di Barbablù (Teatro Perdavvero) e Granny e Lupo (TCP) però, pur con modalità simili, prendono direzioni diverse nel rapporto con la fiaba.

Marco Cantori aderisce perfettamente al racconto di Charles Perrault e lo porta in scena semplicemente arricchendolo di canzoni vivaci e colorandolo con la scenografia vistosa di Denis Riva e con alcuni inserti di teatro d’ombra.

Accanto alla narrazione compaiono elementi scenici simbolici, la presenza di due sagome di cavalli, le due grandi mani ai lati della scena, il viraggio di colore dal blu iniziale al giallo. Tuttavia il grosso dello spettacolo è portato sulle (larghe) spalle di Marco Cantori, perfettamente a suo agio, in grado di divertirsi divertendo, e che si rivolge direttamente al pubblico bambino come a un pubblico di pari.

Danilo Conti, dal canto suo, ha una grandissima esperienza di narratore e ne fa buon uso. Cattura il pubblico già dalle prime parole e inizia anche lui a raccontare, come seguendo le pagine di un libro. Tuttavia nel suo caso il rapporto con la fiaba è diverso.

In una delle due storie, infatti, quella che dà il titolo allo spettacolo, non viene narrata la storia di Cappuccetto Rosso, ma se ne ipotizza un proseguo. Il teatro viene utilizzato come strumento di indagine, che permette di spingere l’immaginazione a cercare nuovi significati e nuove conoscenze. L’ipotesi è questa: la nonna di cappuccetto rosso, Granny, dopo essere stata divorata, è diventata un fantasma e continua ad infestare la sua casa aspettando l’arrivo di un altro lupo in grado di liberarla e darle la pace.

In questa cornice, molto postmoderna e un po’ inquietante, Danilo Conti si muove con i suoi strumenti: la voce, le ombre, e soprattutto i pupazzi, di cui particolarmente impressionante risulta quello del lupo, alto, grande, spaventoso e molto credibile.

Tuttavia, anche senza pupazzi, l’attore è sempre efficace. Nella prima storia infatti interpreta i due personaggi di un lupo e di un capretto con il semplice espediente di una scatola di cartone che, girata da un lato mostra la faccia del lupo, dall’altro quella del capretto.

Granny e Lupo e Il segreto di Barbablù sono spettacoli con modalità simili e spunti diversi. Ma il teatro di narrazione non è l’unica forma per raccontare una fiaba.

 

Quattrox4, Gretel – ph Alessandro Villa

 

Il teatro di Clara Storti è diverso. È puro movimento, tra danza e circo, ed è capace di creare spazi visivi e sonori dosando con cura volumi, parole, lingue e gesti.

Il suo spettacolo si chiama Gretel, della compagnia Quattrox4.

Come dice la sinossi stessa, la fiaba dei Grimm è la suggestione di partenza, da cui l’autrice e attrice si è focalizzata sui temi del perdersi, sui percorsi rischiosi e sul tentativo eroico di superare il dramma.

La storia che racconta, quindi, non è quella della fiaba di Hansel e Gretel. Il percorso fatto di briciole di pane c’è, come anche l’incontro con una strana e magica casetta. Ma ci si discosta dalla struttura della fiaba originale per andare ad astrarre e indagarne alcuni degli elementi, lasciando a chi guarda il compito di interpretare quello che vede.

La scena è composta di piccoli oggetti, in bilico su articolati supporti in legno. Tra di loro si muove, nella sua quotidianità, Gretel, che convive con due strani animali, un cavallino e un piumino, di nome Fritz e Oscar.

Tutto è instabile, tutto è annodato, anche la stessa Gretel che è un nido di movimenti ingarbugliati e, per compiere un’azione, prende sempre il percorso più tortuoso. Una radio a volume basso crea un piacevole e appena percettibile rumore di fondo.

Questa delicatissima quotidianità viene sconvolta quando tutto crolla. Dopo il buio e lo spavento Gretel raccoglie le cose, una ad una, separando gli oggetti dai supporti in legno. Mentre questi ultimi finiscono su un carretto, gli altri vengono incastrati uno sull’altro sopra ad uno sgabello rovesciato. Quando tutto è impacchettato, Gretel si mette in testa lo sgabello e parte.

In poco tempo incontra una casetta sospesa in aria tra le nuvole. L’unico modo per raggiungerla è arrampicarsi lungo una corda, fino alla sommità dello spazio scenico. Gretel non sa come si fa. Prova prima con una mano, poi con l’altra, poi con i piedi. Sale, scivola, rotola, si ingarbuglia. Infine riesce a salire, abbandonando ogni cosa e portando con sé solo i due amici animali Fritz e Oscar.

Anche la casa nel cielo però crolla. Gretel si schianta a terra. Tutto sembra finito ma si accende una luce da fondo sala e Gretel incuriosita, ancora una volta, parte e si avventura.

È evidente di come l’approccio sia differente dai primi due spettacoli citati, sia nel linguaggio artistico che nel rapporto con la fiaba. Se essa è riportata fedelmente ne Il segreto di Barbablù ed è spunto per l’immaginazione in Granny e Lupo, per Clara Storti è miniera di simboli e significati.

In ogni caso la fiaba resta una risorsa. Un luogo di libertà e di ricerca. Sicuramente continuerà a fare la sua comparsa tra una pagina e l’altra nei nostri teatri, nelle nostre storie e nei nostri discorsi.

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Promemoria. Sul teatro in furgone di Giulio Stasi

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«Ben arrivati. Avvicinatevi al portellone laterale. Quando lampeggeranno le quattro frecce potrete aprirlo. Entrate. Vedrete una piccola panca alla vostra sinistra. Chiudete il portellone e poi sedetevi. Emma può stare e muoversi come vuole»: questo il messaggio WhatsApp che Giulio Stasi mi ha mandato, il 25 giugno scorso, quando nel parcheggio sotto casa mia ha donato, a me e alla mia cagnolina, Un caffè sospeso, performance che realizza nel suo furgone da artista nomade e inclassificabile.

Un teatro molto stretto, il suo, figlio di una visione molto larga.

Promemoria, ho chiamato queste note, dal titolo di una raccolta di Andrea Bajani: rintraccio una fonda affinità tematica, stilistica e funzionale, tra quelle brevi, autobiografiche ed esortanti poesie e la creazione mobile di Giulio Stasi.

Un caffè sospeso andrebbe programmato in ogni Festival di teatro contemporaneo d’Italia, se i Festival fossero ancora affaccio sul nuovo, al di là dei soliti nomi à la page che tutti chiamano per nome come parte di una grande Famiglia (maiuscola non casuale).

Dovrebbe arrivare in ogni Festival di teatro contemporaneo d’Italia, questo furgone stracolmo di arte-in-vita, se le creazioni fuori formato, se ciò che difficilmente è incasellabile, se chi è difficilmente incasellabile, se la miniatura e il sussurro avessero ancora spazio e sostegno.

E invece: il mondo, anche quello strambo delle scene contemporanee, si sa, va da tutt’altra parte.

In tale desolante paesaggio Un caffè sospeso, costola di un progetto analogo ma più imponente, Morandi, funziona da promemoria per almeno tre motivi.

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LESS IS MORE

Quindici minuti circa, giusto il tempo di entrare, abituare gli occhi al semibuio, ascoltare la calma e appassionata voce (registrata) di Giulio Stasi, guardarlo alzarsi dal letto, entrare in doccia, prepararci e offrirci un caffè.

Ed ecco che la performance è già finita.

Less is more, ci hanno insegnato.

A saperlo fare, altrimenti less è niente.

Qui, invece: pochi segni chiari e significanti, evidenza di chi conosce il mestiere di comunicare.

E un affaccio vertiginoso su un un’altra vita, fragile e determinata, evidenza di chi usa l’arte come strumento di conoscenza.

Compresenza ed equilibrio di elementi complementari: esercizio di vastità attraverso il poco poco.

Bisogna saperlo fare.

Bisogna volerlo fare.

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RISERVATEZZA ED ESTROFLESSIONE

«Questo è un luogo intimo per me. Raramente lascio entrare qualcuno»: sono le prime parole che si ascoltano, in questa complice intrusione.

Il delicato riserbo chiama altrettanto.

La micro-comunità temporanea che Giulio Stasi istituisce mediante il suo offrirsi mi e ci ricorda il prerequisito del patto teatrale: l’incontro tra umani.

A proposito di offrirsi: il titolo Un caffè sospeso richiama l’ormai dimenticata pratica del dono. In un modo in cui ogni cosa è mercanteggiata, è un fatto ancor più prezioso. Meglio: è un fatto.

«Getta il tuo pane nell’acqua, perché in molti giorni lo ritroverai», è scritto nell’Ecclesiaste.

Forme diverse, quella e questa, di perseguire il sacro.

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CANTO ALLA DURATA

Il tempo, si sa, è elemento costitutivo dell’arte performativa.

Allargando: di ogni vita. Di ogni attraversamento del mondo.

La commovente miniatura di Giulio Stasi ha la forma, la forza, l’andamento di un canto.

Più commovente, nel senso letterale del far muovere insieme, di molte mastodontiche, inutili produzioni che ci è dato vedere (e pagare con le nostre tasse, sarebbe sempre bene ricordarselo).

Un caffè sospeso è «un piccolo pieno in mezzo a un grande vuoto», per dirla con Samuel Beckett.

Un accadimento per cui molto, molto, ringraziare.

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Esercizio: trattare la felicità come
un organo qualsiasi. Dire tre volte
trentatré respirare a bocca aperta.
Se fa molto male farsi massaggiare.
Se si infetta d’infelicità disinfettare.
Camminare senza fretta. Riposare.

[ Andrea Bajani, Promemoria, Giulio Einaudi Editore, 2017, p. 26 ]

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Il Rumore del Lutto: Torna il primo festival di Cultura in Death Education in Italia

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Tindersticks

Torna la diciottesima edizione de Il Rumore del Lutto Festival, la prima e più importante rassegna di cultura in Death Education in Italia, in programma dal 28 settembre al 17 novembre a Parma, cuore della manifestazione, e in tante altre città in tutta Italia attraverso le sue speciali Experience.

Tindersticks, Andrea Morricone, Motta, Bouquet of Madness, Umberto Pelizzari, Stefano Mancuso, Daniel Lumera sono alcuni dei primi ospiti annunciati dell’edizione 2024, che nell’anno di raggiungimento della maggiore età promette di essere più ricca, poliedrica e interessante che mai.

Sette settimane di concerti, incontri, convegni, performance, passeggiate, ritiri, laboratori per le scuole e tanto altro per incoraggiare e approfondire una riflessione individuale e collettiva sulla vita in tutte le sue sfaccettature, che includono quindi anche la perdita, stimolando attraverso le varie attività proposte l’acquisizione di una maggiore connessione con le varie sfaccettature della nostra esistenza, aprendo nuove prospettive e consapevolezze.

Promosso da Segnali di Vita Aps, con la direzione scientifica e artistica dalla tanatologa, formatrice e giornalista Maria Angela Gelati e del giornalista, critico musicale e fotografo Marco Pipitone, Il Rumore del Lutto quest’anno ha scelto come claim Respira: una parola che è un invito a godere e curare ogni momento, consapevoli della preziosità del tempo. Un incoraggiamento a vivere in modo pieno e ricco, per non avere mai rimorsi o rimpianti. “Vivi intensamente, abbraccia ogni istante” è infatti la frase che ispira e guida il festival, riflettendone l’essenza.

Il programma si apre sabato 28 settembre all’Abbazia di Valserena a Parma con il tradizionale GALA IN NERO, un evento che si ispira alla convivialità del banchetto funebre vittoriano e offre ai partecipanti (rigorosamente vestiti di nero) una serata indimenticabile tra arte, musica e dj set, e si chiude domenica 17 novembre al Teatro Ariosto a Reggio Emilia con un concerto di MOTTA: un live speciale e unico in cui l’artista, tra i più apprezzati della nuova scena italiana, rivisita alcuni dei suoi successi e le canzoni dell’ultimo album La musica è finita, che sta portando in tour sui palchi di tutta la penisola.

Nel mezzo, Il Rumore del Lutto sviluppa un programma ricchissimo e diffuso in tutta la città di Parma.

A partire dalla parte musicale, che ospita al Teatro Al Parco il concerto dei TINDERSTICKS giovedì 31 ottobre nella loro unica data italiana. Un grande ritorno a due anni di distanza dalla loro ultima apparizione nel nostro Paese: un’occasione imperdibile per ascoltare dal vivo Soft Tissue, il nuovo album in arrivo a settembre della band di Nottingham che ha fatto scuola con il suo inconfondibile sound pop orchestrale cupo e sfarzoso.

E poi venerdì 1 novembre il duo composto da ALEXANDER HACKE (Einstürzende Neubauten) & DANIELLE DE PICCIOTTO a Borgo Santa Brigida 5/A; martedì 12 novembre al Teatro Regio una serata incantata dedicata alle MUSICHE PER IL CINEMA DI ANDREA & ENNIO MORRICONE dove i maestri Andrea Morricone e Cecilia Grillo al pianoforte e il baritono Alessio Quaresima Escobar trasporteranno il pubblico in un emozionante viaggio attraverso le più belle colonne sonore, e tanti altri eventi da annunciare.

Nel festival trovano poi ampio spazio gli incontri e le lectio magistralis a tema, come quelle con l’apneista e conduttore TV UMBERTO PELIZZARI (5 ottobre ore 11, Palazzo del Governatore), con il biologo DANIEL LUMERA (10 novembre ore 11.30, Cinema Astra) e con il botanico e saggista STEFANO MANCUSO (10 novembre ore 16.30, Sala Pizzetti, Auditorium Paganini).

Sabato 12 ottobre al Cinema Astra arriva invece BOUQUET OF MADNESS, l’acclamato podcast di true crime di Federica Frezza e Martina Peloponesi, con Fino all’ultimo respiro?, pomeriggio dedicato al racconto di due storie di cronaca nera nelle quali alle vittime viene strappato un ultimo respiro.

Grazie al format Il Rumore del Lutto Experience anche quest’anno il festival si diramerà oltre i confini cittadini, coinvolgendo altre città e comunità.

Oltre a Reggio Emilia, dove è in programma il concerto di chiusura del festival, Il Rumore del Lutto arriva anche a Genova giovedì 3 e venerdì 4 ottobre nel Pantheon del Cimitero Monumentale di Staglieno con tre convegni a tema Guardare la morte a occhi aperti e lo spettacolo teatrale Cordialmente Gassman; a Prato sabato 5 e domenica 6 ottobre per il ritiro di meditazione Oltre la paura. Meditare per respirare con l’infinito guidato dal religioso, scrittore e tanatologo Guidalberto Bormolini nel Monastero di San Leonardo al Palco; a Firenze, dove lunedì 7 ottobre nella Biblioteca delle Oblate Marco Pipitone intervista Gianni Maroccolo, una colonna portante della scena musicale indipendente italiana degli ultimi 40 anni e fra i più prolifici musicisti e produttori di sempre, per il format 9 Canzoni 9, con la partecipazione del saggista e animatore culturale Michele Rossi. Inoltre il festival sarà a Bologna venerdì 18 ottobre con la camminata artistica in Certosa Fino all’ultimo respiro e a Salsomaggiore Terme (PR) domenica 27 ottobre per il ritiro con la Comunità di Fudenji e la partecipazione del rev. Fausto Taiten Guareschi Abate Emerito.

Non mancheranno poi i consueti laboratori nelle scuole e vari appuntamenti in streaming gratuito per offrire la possibilità di seguire, attraverso piattaforme dedicate, alcuni incontri sulle tematiche del festival.

Ulteriori informazioni su: www.ilrumoredellutto.com

Il Rumore del Lutto Festival è promosso da Segnali di Vita Aps con il patrocinio di: Comune di Parma, Complesso Monumentale della Pilotta, Università di Parma, Università degli Studi di Padova, Master Death Studies and the End of Life.

Partner: Danza Urbana, Ordine Architetti PPC Parma, AMA – Accademia Mendrisio Alumni, Verdi OFF, Tutto è Vita, Zero K, Scuola Capitale Sociale, SoCrem Genova, R&P Contemporary Art, Video Type, Teatro del Cerchio, Esplora, Borgo Santa Brigida 5/A, Artemis Danza.

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Una grande fiducia nel teatro. Nota sul Festival Opera Prima 2024

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«Una grande fiducia nel teatro»: per questo ha ringraziato una spettatrice durante uno degli incontri mattutini del Festival Opera Prima, appassionatamente guidati dal coordinatore artistico Massimo Munaro allo scopo di connettere modi e mondi della comunità temporanea che si è agglutinata attorno alla proposizione che da trent’anni (e venti edizioni) il Teatro del Lemming cura a Rovigo, e che nel 2024 è accaduta dal 26 al 30 giugno.

«Una grande fiducia nel teatro»: da questo voglio partire.

Scrivo in prima persona, anche se è noto che nelle recensioni è cosa da evitare, per un’occasione che ha nutrito e condizionato il mio sguardo, in questa edizione del Festival: un laboratorio di cronaca e critica teatrale realizzato con venticinque adolescenti del territorio (chi lo desidera ne trova alcune tracce QUI).

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Senza entrare nel merito di questa avventura del linguaggio e dell’accorgersi, che sposterebbe dal focus di queste righe, voglio almeno nominare come questo incontro laboratoriale abbia rinnovato il mio sguardo nella direzione della concretezza – finanche della matericità- comunicativa di ogni atto linguistico (compreso, dunque, ogni dispositivo spettacolare).

È da questa prospettiva che proverò, in estrema sintesi e senza alcuna pretesa di esaustività, a nominare alcuni accadimenti che il Festival ha accolto, a partire da una fiducia larga nelle possibilità evolutive, finanche trasformanti, dell’atto e del patto teatrale (e sa il cielo quanti reali motivi ci sarebbero per muovere in opposta direzione).

I già citati momenti di confronto mattutini, realizzati in un giardino posto nel centro della città, sono stati un elementare quanto netto posizionamento rispetto alla necessità di prender parola nello spazio pubblico nella direzione dell’ispessimento dell’esperienza estetica (dunque, etimologicamente, conoscitiva), con attitudine sideralmente distante dal semplice –e abbruttente- mi è piaciuto/non mi è piaciuto.

Creare discorso, con fiducia (ancora) in questo elementare atto della polis che si ritrova e attraverso il dialogo costruisce senso e comunità: bisogna volerlo fare. Bisogna saperlo fare.

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Nero e bianco, secco e fiorito, soli con specchio e con altra persona, nel privato della scrittura e nell’aperto del prender parola nella piazza: compone opposti con geometrico equilibrio, Rivolti del collettivo MOMEC, che attraverso una precisa forma dà forma, e forza, e voce, a una delle funzioni che, da sempre, l’arte del teatro incarna. Ribellarsi, in questo caso, è rivoluzione che non può che partire dal linguaggio. E da sé.

Ed è un sé in primis corporeo, sensoriale, quello che il Teatro del Lemming ha interpellato e osteso in Chiamata pubblica: un atto di denudamento (Massimo Munaro ha condiviso con chiunque lo desiderasse una parte del training del proprio gruppo) posto in essere in due diversi luoghi del centro storico della città e che, collocato in apertura del Festival, ha costituito una possibile dichiarazione di intenti commovente, nel senso letterale del far muovere insieme chi ha fatto e chi ha guardato. Persone di età, esperienze e mobilità molto diverse, tutte biancovestite, hanno attraversato esercizi che, con progressive aperture e costanti rimandi a figure del mito, del teatro e della letteratura, hanno dato carne e respiro condiviso a ciò che solitamente resta celato.

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Carne e respiro sono motore anche dell’istantanea simpatia che le tre anime del Teatro delle Ariette han saputo ancora una volta creare. Il loro spettacolo-cult Teatro da mangiare? è tornato al Festival dopo quasi un quarto di secolo, analogamento allo Jago di Roberto Latini: entrambi maestri nell’impasto di elementi diversi (autobiografia, poesia e musica i primi, testi drammatici, corpo-voce, materia sonora e materia luminosa il secondo), queste presenze ritornanti hanno almeno per me rappresentato il tentativo di forzare la temporalità insita nell’arte dal vivo, in uno struggente canto alla durata, per dirla con Peter Handke, che ha reso la materia del tempo una concreta, percepibile esperienza.

A proposito di esperienza: misterioso ed ammaliante è stato l’incontro, nel chiostro di un antico monastero della città, con Voodoo di masque teatro. Rituale laico, basato non sulla fede ma sull’atto, si potrebbe sintetizzare con Jerzy Grotowsky, questo accadimento muove da cultura a natura, da forma a informe, da inorganico a organico. Sotto un grande albero una Figura sta, piena di pensieri e silenzio. Attraverso la reiterazione e la progressiva scomposizione dell’atto del sedere e dell’alzarsi da un massiccio sgabello di legno, in dialogo con un battente tappeto ritmico e rumoristico, davanti ai nostri occhi il corpo-in-azione sembra letteralmente cambiare consistenza, da carnale a legnosa. Fulcro primario pare essere la respirazione, da cui origina l’alternanza di tensione e distensione che informa di sé l’intera performance. A un’organica progressione vocalica di espirazioni sonore, lamenti, grugniti e risate sguaiate corrisponde un’energica sequenza di posture stilizzate e bruschi spostamenti nello spazio, che paiono rispondere a una personale esigenza estetica (termine ancora una volta da intendersi come opposto di anestetico, non di inestetico): «scena-crogiolo in cui si rifanno i corpi» si potrebbe dire con Antonin Artaud «per calpestio di ossa, membra e sillabe». Quello che è dato a vedere, in quello che sembra improprio definire spettacolo, è un continuum di quasi 30 minuti di trasformazioni energetiche e modificazioni dello stato di coscienza e del corpo che l’azione stessa produce sulla performer. L’anti-grazioso Voodoo propone un’idea e una prassi di arte performativa come esperienza, lontanissima da ogni intento narrativo, che il pubblico può ricevere per via cinestetica, grazie all’empatia con ciò che accade in scena che anni di studi sui neuroni specchio hanno ormai anche scientificamente validato. masque revoca la figura dello spettatore riformulandone il ruolo in termini di testimonianza: non opera d’arte, dunque, ma opera dell’arte.

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Il legno -ma ripulito, lavorato, concettualizzato- è motore anche della creazione di Fabio Liberti. Meglio: è materia d’uso, come lo sono la plastica e le parole-cose che Maud Karlsson Lima de Faria profonde senza risparmio, prima in differita e poi in diretta, in un dispositivo scenico che fa della totale estroflessione dei propri elementi e del continuo muovere, come una palla su un piano inclinato, tra pars denstruens e pars construens, la propria cifra. La coreografia, termine qui da intendersi nell’accezione etimologica di scrittura di corpi (biologici, materici, narrativi, sonori, luminosi) in uno spazio dato si fa elenco di possibilità, catalogo oggettivo di occasioni, lista di occorrenze che chi guarda può scomporre e ricomporre secondo la propria attitudine e sensibilità. Anche l’autobiografia -questo è il dato forse più sorprendente della creazione- diviene un fatto: cosa tra le cose.

Tanto altro si potrebbe e forse dovrebbe dire su questa impresa culturale.

Ma è estate, ho già chiesto fin troppa pazienza a chi legge.

Dunque mi fermo qui: ma prima voglio ancora una volta, e tanto, ringraziare per questa avventura dei sensi, di senso e visione.

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