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Io c’ero: Sussulti, festival di teatro della periferia fiorentina

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Partecipazione, cittadinanza, educazione, sono solo alcuni dei termini che mi vengono in mente quando penso ai perché dei festival, soprattutto quelli più piccoli e periferici che custodiscono un profondo valore di coscienza collettiva.

Un progetto, un’esperienza, che si costruiscono sulla consapevolezza dell’essere nel mondo, esistere per l’altro. E su queste basi sviluppare il senso della cura. Cura del prossimo, cura dei luoghi, cura della comunità.

È con la coscienza della restituzione di uno spazio collettivo, di un’azione culturale democratica che Daniele Giuliani, regista, attore e docente di Pedagogia Teatrale, ha dato vita a Sussulti – Festival di teatro e trasformazione sociale. Il Brillante – Nuovo Teatro Lippi, che ha sede nella periferia fiorentina di Rifredi, ha ospitato ogni domenica di settembre gli appuntamenti teatrali. Ciascuna rappresentazione ha portato in scena spettacoli legati a tematiche quali l’empowerment femminile, la promozione della salute mentale, la costruzione dell’identità. Un’azione sintetizzata già nel nome, Sussulti, che richiama una serie di choc e che ha all’orizzonte un progetto (o un ideale) di trasformazione. Come dunque non pensare alla citazione brechtiana: “Avevo intenzione di applicare al teatro il principio che ciò che conta non è solo interpretare il mondo, ma trasformarlo”.

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L’ANTEPRIMA: GREEN THEATRICAL WALK

A dare il via all’iniziativa fiorentina è stata un’anteprima dal titolo Green Theatrical Walk. Una performance urbana che si è svolta negli spazi adiacenti al Lippi, trasformando questo “non-luogo” periferico in un inaspettato scenario di maschere e recitazioni poetiche, che hanno attirato la curiosità dei residenti. L’happening si poneva anche un obiettivo pratico: ripulire la strada e il parco, coinvolgendo attivamente tutti i partecipanti in un compito di riqualificazione e cura del quartiere. Costumi e poesia hanno suscitato stupore e attesa in questo pubblico inedito e ritrovato. Penso allo spettatore più distratto che forse, nel bel mezzo di una passeggiata abituale, ha visto campeggiare davanti a sé le parole “poesia” e “utopia” tinte di rosso su degli striscioni bianchi mossi dal vento, mentre veniva pronunciato il giuramento di Mariangela Gualtieri: “Giuro che io salverò la delicatezza mia, la delicatezza del poco e del niente”.

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GLI SPETTACOLI IN CARTELLONE

Il primo spettacolo ad andare in scena in occasione del Festival è stato Nessun Elenco di Cose Storte a cura del Laboratorio Nove di Firenze. Sandra Garuglieri è stata l’interprete di un denso monologo che ha toccato corde profonde, come il senso e il valore della vita, riflettendo su una tematica di grande attualità quale la crisi dei migranti nel Mediterraneo. L’attrice, attraverso un’esibizione che ha mescolato elementi di stand-up comedy e dramma, ha assunto il ruolo di un medico legale alle prese con il corpo senza vita di uno sconosciuto. Che fare di quel corpo senza identità e che non si sa a chi restituire?

Il 15 settembre Daniele Giuliani ha indossato i suoi panni di attore portando sul palco il consolidato spettacolo Memorie dal reparto n.6, liberamente tratto dal racconto di Anton Checov.
Prodotto dal Teatro Nucleo di Ferrara con la regia di Cora Herrendorf e Horacio Czertok, lo spettacolo è essenzialmente un racconto di vite. Vite di esclusione e di manicomio: problematiche, cariche di drammi, eppure uniche e umane.

L’interpretazione è originale e densa di immagini e suggestioni, alcune delle quali estremamente vicine alla quotidianità, come l’uomo che incontriamo per strada e che, mangiandosi un po’ le parole, chiede: “Ce l’hai una sigaretta?”. È forse proprio questo personaggio a metterci di fronte al nostro rapporto con i pazienti dei centri di salute mentale. Come rispondiamo a questa richiesta? Cosa pensiamo in quel momento? Ci soffermiamo mai a interrogarci su chi abbiamo davvero di fronte? D’altronde, il teatro questo vuole: sollevare domande, lasciare spazio alla riflessione, offrire uno sguardo diverso, più attento e meno distratto, sulle cose.

Fole. Il soldato e la rosa è stato il terzo spettacolo della rassegna: una messa in scena dedicata a Elsa Morante. La scrittrice è stata ritratta attraverso una drammaturgia onirica e poetica, caratterizzata da una tensione verso l’allucinazione, che diventa metafora della sua stessa scrittura. L’interpretazione delicata di Antonella de Francesco e la regia di Lina della Rocca del Teatro Ridotto di Bologna hanno portato a Firenze un omaggio alla prima donna vincitrice del Premio Strega.

Il festival si è concluso con la rappresentazione di Dalser. La Mussolina. In scena è andata la vita di Ida Dalser, compagna di un giovane Benito Mussolini e rinchiusa in un manicomio, in quanto “scomoda”, dopo l’ascesa al potere di quest’ultimo. Uno spettacolo che ha unito teatro, storia e riflessione sui ruoli di genere, lasciando spazio a un dibattito che ha coinvolto il pubblico su fascismo, donne e stereotipi, e che ha visto la partecipazione della stessa regista e attrice Michela Embriaco del Multiversoteatro di Trento.

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Laboratorio a cura di Natasha Czertok – ph Marco Giuranna

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LA PERFORMANCE URBANA: IL LABORATORIO DI NATASHA CZERTOK

Ma non solo spettacoli: come già accaduto nell’anteprima, l’arte è uscita dai confini del Brillante per cercare il pubblico, rendendo il quartiere stesso parte dell’iniziativa. Negli ultimi tre giorni del festival, Natasha Czertok del Teatro Nucleo di Ferrara ha condotto un laboratorio di performance urbana che ha animato gli spazi circostanti il teatro. Le rappresentazioni si sono intrecciate nella vita di quartiere, interrompendo la routine quotidiana e convertendo luoghi familiari in inaspettati scenari artistici. Gli attori hanno portato la loro espressività direttamente tra le persone, generando momenti di interazione spontanea e immediata. Un esempio eloquente è stato offerto da un gruppo di bambini che, invece di giocare normalmente nel parco, è stato catturato dall’energia dello spettacolo, partecipando con curiosità ed entusiasmo. Un coinvolgimento spontaneo che ha alimentato la fiducia nell’azione artistica, restituendo concretezza alle esperienze condivise e alimentando la speranza di lasciare un segno costruttivo e immaginativo nelle vite dei partecipanti, soprattutto dei più giovani.

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LA SPERANZA COME ATTO CREATIVO

Sussulti è un festival piccolo e ambizioso, nella sua ricchezza di significati e di entusiasmo. Scegliere gli spazi periferici vuol dire creare nuove identità attraverso pratiche culturali e di riqualificazione territoriale. Zygmunt Bauman definisce questo processo come un continuo bilanciamento tra la dimensione individuale della costruzione dell’io e quella collettiva della partecipazione alla vita pubblica.
In questo senso, festival come Sussulti diventano luoghi di confronto e di sperimentazione, spazi aperti alla riflessione critica sulle contraddizioni della nostra epoca. È attraverso questi eventi che possiamo sviluppare le nostre capacità, le cosiddette “capabilities” teorizzate da Amartya Sen e Martha Nussbaum e contribuiamo alla costruzione di comunità più coese e inclusive.
Quale germoglio dietro questo impegnato agito? Passione e speranza. “La speranza è qualcosa che ci porta al di fuori di quello che accade in questo momento, in questo nostro discorso, la speranza vive nel futuro”, afferma Eugenio Borgna, speranza irrinunciabile per chi si offre al pubblico con l’intento di lasciare anche solo un punto interrogativo. Una domanda che possa diventare leva di un cambiamento più profondo e condiviso, una luce capace di illuminare anche quello che ignoriamo, il più delle volte volontariamente.

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PAOLA CELLAMARE
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Rituali d’ascolto. A Firenze tornano le narrazioni sonore di Lucia Festival

Radunarsi per ascoltare insieme delle storie è forse la pratica più ancestrale di relazione con l’altro e col mondo, un atto generatore di società, culture e comunità. Per quattro giorni, dal 12 al 15 dicembre a Firenze presso CANGO – Cantieri Culturali Goldonetta, sarà possibile immergersi collettivamente in narrazioni sonore dall’Italia e dal mondo grazie a Lucia Festival, il progetto di Radio Papesse dedicato alle storie in audio, quest’anno alla sua quinta edizione diretta dalla produttrice radiofonica indipendente Carola Haupt insieme alla musicista e musicologa Luisa Santacesaria.

Da quale urgenza è nato Lucia Festival e in quale contesto si inseriva? 

Carola Haupt: «Lucia Festival nasce nel 2019, quando io e Ilaria Gadenz abbiamo sentito la necessità di creare un momento di ascolto collettivo di opere radiofoniche e narrazioni audio, specie quelle di non facile reperimento. In Italia in quel periodo non esisteva ancora qualcosa di simile, mentre in altre parti del mondo – penso ad esempio al mondo francofono o anglosassone – ritrovarsi ad ascoltare insieme produzioni audio era un’abitudine consolidata. Guardando quindi alle esperienze straniere, Lucia nasce fin da subito con un’impronta internazionale e con un’attenzione alla soundart e alla ricerca sul suono: quello che ci interessava era creare insomma un contesto in cui avremmo voluto andare noi. Il festival ha immediatamente attratto appassionati di storie raccontate in suono e una grande sorpresa in questo senso l’abbiamo avuta già dalla seconda edizione, che ha avuto un riscontro straordinario pur essendosi tenuta interamente in radio: era il 2020, perciò gli eventi non potevano ancora tenersi in presenza, ma ciò ci ha permesso anche di interagire con persone da tutto il mondo, siamo arrivate fino all’Uruguay.
Negli ultimi anni Lucia è diventato un punto di riferimento in Italia, tanto che è più facile far venire persone dalla Sicilia, dalla Val d’Aosta o dall’Olanda che portare i fiorentini». 

Ora il festival da annuale è diventato biennale. Perché questa scelta? 

Carola: «Dopo il ritorno alla presenza nel 2021, dall’anno successivo abbiamo deciso di far diventare il festival biennale perché Radio Papesse è un’associazione di freelance e producer indipendenti, perciò obiettivamente non avremmo avuto le forze di farlo ogni anno. Ci sono inoltre state piccole e grandi rivoluzioni umane e personali, quindi a cambiare è stato anche l’assetto organizzativo è mutato: da quest’anno è entrata a pieno titolo nella parte operativa Luisa Santacesaria, che insieme a me ha curato il programma 2024, mentre Ilaria Gadenz, dopo 18 anni di lavoro insieme, sarà questa volta impegnata soltanto nei due eventi di apertura e chiusura di festival. Radio Papesse è comunque da sempre una realtà composta da una molteplicità di persone e perciò viva e in continuo cambiamento».

In questi cinque anni come è cambiato invece il contesto della produzione di storie in audio, sia in Italia che all’estero e, di conseguenza, come è cambiato Lucia? 

Carola: «Se nella prima edizione dovevamo quasi spiegare cosa fosse il podcast, oggi tendiamo a volerci allontanare da questa parola. Definiamo infatti Lucia come un festival di storie, narrazioni audio e ascolti collettivi».

Luisa Santacesaria: «Oggi la pratica dell’ascolto si è diffusa infatti in modo esponenziale proprio grazie ai podcast, ma quello che proponiamo a Lucia è qualcosa di diverso. Abbiamo costruito questa edizione pensando a momenti collettivi e altri in cui l’ascolto è individuale o per piccoli gruppi, per cercare di combinare differenti livelli». 

Carola: «l’abitudine ad ascoltare ha reso inoltre le persone più esigenti. Da una parte c’è un pubblico più ampio disposto a cercare produzioni ben fatte, diverse o sperimentali; dall’altra le produzioni italiane degli ultimi anni, anche le amatoriali, hanno una cura per il suono maggiore rispetto a quando abbiamo iniziato. C’è insomma una maggiore attenzione sia in chi ascolta sia in chi crea».

Carola Haupt Co-direttrice artistica di Lucia Festival, foto di Alisa Martynova

Entrando nel vivo del festival, come avviene il processo di selezione e che cosa ascolteremo in questa quinta edizione? 

Carola: «Andiamo molto di pancia, selezionando ciò che ci colpisce, per condividere con altri l’ascolto di creazioni che ci hanno appassionato e che altrimenti sarebbero difficili da trovare. La nostra non è mai una selezione gerarchica o di valore, cerchiamo sempre di portare sullo stesso piano autori e autrici provenienti da realtà differenti. Quest’anno in particolare presentiamo a Lucia molte prime, specie di lavori nati in casa Radio Papesse e Lucia Festival, come le due creazioni realizzate nell’ambito del percorso di mentorship YASS!, o i tre lavori del Premio Lucia 2023/24; o ancora La grande famiglia, un progetto di cui si è discusso per la prima volta a SANTINI 2022, un momento di incontro fra producer e audio maker per confrontarsi, condividere idee, strumenti, esperienze, che ci sarà anche quest’anno. Ora La grande famiglia è diventato un podcast originale di RaiPlaySound». 

Luisa: «Oltre alle scelte di pancia e a quelle legate ai premi e a YASS!, abbiamo cercato di pensare il programma in modo tale da intervallare momenti densi con altri di pausa o decompressione. Ci sono inoltre appuntamenti che avvicinano all’ascolto, una sorta di “ginnastica per le orecchie” in preparazione all’intera giornata». 

Carola: «nonostante la composizione così pensata, resta un programma intenso. Partiamo per esempio giovedì sera con un Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. di ALMARE, collettivo torinese con cui negli ultimi due anni Radio Papesse ha lavorato per la produzione di quest’opera, ovvero un film senza immagini. Si tratta di un audioracconto impegnativo, che richiede un’attenzione e una concentrazione molto alte. Lo stesso vale per Potovanje na robu noči, un audiodocumentario sloveno di 50 minuti, molto lento ma che se riesci a immergertici dentro ti ci perdi completamente. Lucia insomma vuole essere il contesto in cui concedersi il tempo per ascoltare e perdersi». 

Prima avete accennato alla costruzione del festival secondo momenti di ascolto collettivo, alternati ad altri più personali. Di che tipo di esperienze si tratta nel concreto?

Luisa: «Significa che ci saranno i soliti momenti di ascolto condiviso, in cui ci ritroviamo tutti in uno stesso spazio a condividere la fruizione di un’opera, mentre altri saranno individuali come la performance di Ana Teodora Popa, artista rumena che si è ispirata a The artist is present di Marina Abramovich. In questo caso lei sarà in una stanza mentre il partecipante si troverà in quella accanto: indosseranno entrambi delle cuffie e ascolteranno per cinque minuti la stessa cosa insieme. Ci sarà inoltre un workshop a cura de L’impero della luce (Johann Merrich e eeviac), Foreste elettriche, ispirato alle ricerche di Christina Kubish sul suono dei campi elettromagnetici. I due artisti faranno un’eplorazione del quartiere attorno alla sede di Lucia, aggirandosi con dei dispositivi alla ricerca dei cambiamenti dei campi magnetici. Chi parteciperà al workshop – pensato in due sessioni una per adulti e una per bambini – farà parte di un’esperienza di ascolto profondo, una sorta di preparazione delle orecchie». 

Dalla composizione del programma pensato come fosse un’unica opera, fino agli appuntamenti collaterali di esperienze individuali e di preparazione, sembra ci sia un tentativo di educare alla postura dell’ascolto…

Carola: «Il discorso sulle politiche d’ascolto, su come si ascolta, sull’atteggiamento che noi abbiamo quando ascoltiamo è sempre presente nell’attività di Radio Papesse ed uno dei  fili rossi di Lucia fin dagli esordi. Tuttavia non c’è un intento educativo, quanto il desiderio di creare un’esperienza condivisa e partecipata. Con Ilaria da molti anni ci portiamo con noi un’espressione della ricercatrice Lisbeth Liparin nel suo libro Listening, Thinking, Being, ovvero “In listening we become”, in cui crediamo molto, perché in fondo è proprio vero: ascoltando diventiamo parte di una comunità. In questo senso, riuscire a costruire una drammaturgia e un ritmo all’interno del festival, è un invito a condividere un percorso su più giorni, ascoltando cose diverse per poterne poi parlare con altri. Fondamentale è infatti avere le autrici e gli autori, che presentano i loro lavori, conducono nel dietro le quinte della creazione e incontrano il pubblico nei momenti informali». 

La grande famiglia, opera di Cristiano Barducci, nastro

Il coinvolgimento nelle pratiche d’ascolto è rivolto anche ai più piccoli, col progetto Bambini all’ascolto, nato nel 2022. Cosa proponete quest’anno? 

Carola: «quest’anno ci saranno sia laboratori che momenti d’ascolto. Verrà presentato in anteprima un podcast per bambini che stiamo producendo scritto da Lilith Moscon, in uscita per il 2025. All’ascolto del primo episodio, seguirà un laboratorio ludico insieme all’illustratore Nicola Giorgio. In programma anche il lavoro di Chloè Despax in collaborazione con Internazionale Kids, e anche in questo caso segue un laboratorio. Bambini all’ascolto quindi è pensato esattamente come per gli adulti, anche con ospiti internazionali, e abbiamo visto che funziona, anzi la fascia 6-10 anni a cui ci rivolgiamo è molto più attenta e abituata ad ascoltare rispetto ai più grandi. Gli spazi di Cango poi saranno sempre immersi nel suono, in particolare saranno sonorizzati da un ragazzino di 13 anni, con l’intento insomma di renderli protagonisti di un ambiente in cui possano trovare stimoli all’immaginazione.  

In linea con l’edizione di due anni fa, verrà inoltre presentata la nuova piattaforma dedicata alle produzioni per l’infanzia, in cui chiunque – dagli indipendenti ai musei, i centri di produzione etc – potranno caricare le loro opere pensate appositamente per i bambini». 

Quest’anno il Premio Lucia presenta la sezione Progetti e la sezione Opere. Quali sono i lavori selezionati e cosa ascolteremo? 

Carola: «Il percorso con Archivio dei Diari con cui in questi anni abbiamo realizzato il Premio Lucia ha preso un’altra strada, così abbiamo strutturato il Premio in queste due sezioni. Per la categoria progetto, il lavoro scelto è stato quello di Johann Merrich, che parte dalla storia dello strumento del Theremin per raccontare del suo inventore e della moglie Lavinia Williams, donna afrodiscendente e ballerina, e di Clara Rockmore la prima e più grande esecutrice del Theremin. Merrich di fatto prende lo strumento solo come pretesto per parlare di discriminazione razziale, di storie che si legano all’America degli anni ‘30 e che risuonano ancora nella vita musicale di oggi». 

Luisa: «Lavorare con Merrich a questo progetto è stata per me un’esperienza pazzesca. Io non vengo dalla narrazione audio, mi occupo di suono, in particolare musica contemporanea e elettronica. Con Johann ci conosciamo da diversi anni, lei ha scritto una rubrica per elettronica.it, un portale di Tempo Reale di cui sono parte, dedicato alle donne pioniere della musica elettroacustica. Merrich, essendo in primis una scrittrice, compone testi da leggere, perciò insieme abbiamo lavorato su un tipo di scrittura che avrebbe poi dovuto finalizzarsi per l’ascolto. È stato un processo di lavoro illuminante, abbiamo fatto varie sessioni dal testo e sul testo, capendo dove inserire interventi di suono, di pause, di decompressione, come trovare le relazioni formali dell’intero lavoro».

Carola: «il lavoro che ha vinto invece per la categoria Opere è 9999. Grande Vita Lunga di Giovanni Cioni, cineasta che racconta di Giovanni Farina, accusato del sequestro di Sofia Antini e che invece di ricevere l’ergastolo ha avuto una condanna di 9999 anni. Ciona e Farina sono due uomini che portano lo stesso nome e si ritrovano a vivere negli stessi mondi, quelli della Calvana. Si tratta di un progetto che si ricollega al live di Io ero Milanese presentato due anni fa: si tratta di due documentari che ripercorrono la vite complesse e che hanno incontrato la giustizia riparativa. Giovanni Farina sarà presente all’incontro, così come la cooperativa di servisi sociali legata ai suoi ultimi anni in carcere. Vogliamo portare avanti l’idea dell’audiodocumentario come una possibilità per raccontare le vite senza spettacolarizzarle, ma entrandoci dentro. L’opera, dopo aver vinto il premio, è stata acquisita da Raiplaysound, che la renderà pubblica dal 13 dicembre». 

A che punto è dunque il contesto della produzione audio in Italia e all’estero? 

Luisa: «Io non ho un quadro chiaro di quello che sta succedendo, ma percepisco un interesse molto forte verso le narrazioni sonore, che sta crescendo e si sta diversificando sempre di più. Autori e musicisti vi trovano dunque un interessante territorio da esplorare. Credo dunque ci saranno sempre più proposte che sovvertiranno le forme più popolari e diffuse, per cercare qualcosa di innovativo e originale».  

Carola: «ciò che unisce me e Luisa è proprio la ricerca sonora che si unisce all’aspetto narrativo. Come la radio era stata uno strumento di cui si sono innamorati scrittori, giornalisti e musicisti, allo stesso modo le cose più interessanti sono nate nel momento in cui questi percorsi si sono intrecciati incontrando un compositore che pensa a un paesaggio sonoro, a un certo uso della lingua, al racconto non-verbale. Sicuramente l’esplosione del podcast in  quanto industria ha creato da un lato una grande omogeneizzazione, ma dall’altro ha anche aperto alla possibilità  di trovare punti d’incontro fra diversi livelli della narrazione sonora. Abbiamo in programma proprio su questo argomento, un momento di riflessione con Jonathan Zenti, Dal Bauhaus a Spotify, una riflessione su come elementi di artigianalità e di ricerca si possano combinare con il mondo della grande distribuzione».

C’è una resistenza al fermento sperimentale o c’è un’apertura da parte della grande produzione?

Carola: «decisamente chiusura. Se si guarda al panorama internazionale, si pensi alla BBC che ha appena deciso di chiudere ShortCuts, un faro in europa per la sperimentazione e la ricerca sul suono. Il Prix Europa ha bloccato invece l’accesso a produttori indipendenti. Nonostante tutto la situazione è estremamente vitale ed esistono delle sacche di grande creatività. Lucia Festival è ormai un punto di riferimento, sia per gli indipendenti che per realtà come la Rai, e ci battiamo per restare una piccola realtà per mantenerci libere di continuare a garantire un contesto sperimentale». 

666.PPP: Pasolini, il Diavolo e Rutelli

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Se nell’iconografia e nella numerologia nazista l’88 identifica le lettere HH (appunto l’ottava lettera dell’alfabeto) che stanno per Heil Hitler, da ora in poi il 666 diavolesco sarà affibbiato alla ripetizione della lettera P che, moltiplicata per tre, dà il risultato di Pier Paolo Pasolini. 666.PPP (visto al Teatro Caos di Chianciano terme) è già un titolo che buca lo schermo, la curiosità, la fantasia con queste lettere e numeri quasi sovrapponibili, come se fossero state messe allo specchio, come Narciso che si bea guardandosi nello stagno limpido, cadendovi. Uno è il contrario dell’altro o meglio, due facce della stessa medaglia. L’anno prossimo saranno i cinquant’anni dalla scomparsa del poeta di Casarsa della Delizia ma Manfredi Rutelli, drammaturgo e regista, si è mosso per tempo ed ha anticipato le celebrazioni. Anzi la gestazione di questo nuovo progettone parte dal 2019. Abbiamo usato un sostantivo accrescitivo e rafforzato perché la piece 666.PPP si compone della parte attoriale (a cura di LST Teatro), della sfera musicale live (ad opera della Tetraktis Percussioni) e delle proiezioni (composte dall’artista multimediale Andrea Bisconti).

Tre strati per scandagliare un lavoro complesso e composito, come un pozzo dove scavarci e trovarci sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di eccentrico e originale. Partiamo dalla genesi: nel 1918 Igor Stravinskij, emigrato in Svizzera dopo la Rivoluzione Russa, insieme allo scrittore Charles Ferdinand Ramuz, mette in piedi un’operetta ambulante e viaggiante per suonarla e decantarla, come aedi, nei paesini elvetici e raccogliere qualche fondo per la sussistenza. Prendono due storie della tradizione sovietica con protagonista un soldato, il Diavolo e una principessa: l’uomo medio, le avversità della vita, la ricompensa. Si parla di povertà, di valori, di affetti e della lotta dell’uomo contro il maligno che non è fuori ma è dentro di noi. Un soldato ha soltanto il suo violino che non vale molto e il Diavolo gli propone di barattarlo con un libro dove ci sono scritti fatti ancora non accaduti (come in Ritorno al Futuro), con il quale potrebbe, scommettendo, diventare ricco. Il nostro passa alcuni giorni in compagnia del Diavolo nei quali uno insegna all’altro a suonare il violino e l’altro impara a decodificare il libro. Dopo questi giorni però si accorge che sono passati anni e che i beni immateriali di cui disponeva, l’amore della ragazza e l’affetto della madre, si sono volatilizzati, la prima sposata con un altro uomo, la seconda deceduta credendolo morto. Il nostro ex soldato, grazie al Libro, diventa ricchissimo ma si accorge che le uniche cose che vorrebbe non si possono comprare. Allora abbandona tutti i suoi beni (come San Francesco) e distrugge il tomo che predice l’avvenire tornando misero e senza un soldo. Ecco il tema dell’altalena sociale, da povero con valori a ricco spregiudicato ma infelice, poi nuovamente sul lastrico. Caduta e rinascita, sconfitta e risalita e ancora abisso e perdita.

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Nell’ultima parte, come nelle storie medievali, un Re ha emesso un bando per salvare la figlia dalla depressione e dall’afflizione, proprio perché posseduta dal demonio (come ne L’Esorcista). Il soldato batterà il Diavolo, troverà l’amore, la ricchezza e la serenità ma Lucifero ha sempre in serbo un asso nella manica: la maledizione e promessa-minaccia è quella che il nostro sfortunato sarà salvo solo se rimarrà nel suo Regno ma se oltrepasserà i confini la sua anima sarà presa dagli Inferi (che ricorda Orfeo ed Euridice). E così accade, senza alcuna scena consolatoria né lieto fine. Alla fine al Casinò vince sempre il Banco. Nella rilettura di Pasolini, dalla quale voleva girarne un film con Ninetto Davoli, c’è sicuramente il tema dei valori ancestrali familiari e le tentazioni, di Roma e della carne, così come nel finale la perdita di tutto, anticipando in qualche modo la sua uscita di scena drammatica, legata al superamento dei confini del suo regno, dalla sua comfort zone, la morte e la sconfitta su un terreno, quello della notte, quello della strada, quello dei ragazzi di vita, che ha altre regole che non si imparano ma si possiedono nel sangue e nel Dna. C’è l’innocenza e la corruzione, che in Pasolini si declina con la televisione da lui vista come il Male assoluto, c’è l’ingenuità e un’indagine sociologica e antropologica di un’Italia che stava cambiando, da rurale a industriale.

Nel nostro mondo consumistico, per avere successo, fama e cash, molti venderebbero (come il Faust di Goethe ma anche come ne Il Maestro e Margherita), l’anima al Diavolo, pagandone nell’Aldilà le conseguenze per l’eternità. Il tentativo di PPP non divenne mai una pellicola ma andò in scena sul palcoscenico del Festival di Avignone (a cura del Teatro Due di Parma) nel ’95 (a venti anni dalla scomparsa dell’intellettuale friulano) con tre firme eccellenti alla regia: Martone, Dall’Aglio e Barberio Corsetti. Da Stravinskij passando per Pasolini e arrivando a Manfredi Rutelli, innovazione innestata sulla tradizione. E Rutelli, che scrive e sa scrivere per il teatro, ha immaginato e sostituito la televisione demonizzata da Pasolini con i nostri telefoni cellulari che, con i social network e i loro algoritmi, fanno propaganda e creano mondi che non esistono manipolandoci. Quello che ne esce è un viaggio psichedelico, poetico e tecnologico, futuristico (quasi da Matrix) con l’attenzione spostata sui visori che ci portano in una second life, tra Avatar invece che vivere la nostra vita, in un universo parallelo virtuale che ci ingabbia e mette in sospensione la vita reale per intrattenerci con qualcosa di intangibile. E’ una versione multimediale, pronta e adatta anche per quelle generazioni più giovani che sono tra le più colpite (i nativi digitali) perché non sanno distinguere l’analogico dall’intelligenza artificiale e tutto quello che arriva dal web lo prendono come verità assoluta senza alcuna analisi dei dati, delle fonti, delle notizie.

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Il Diavolo che convince il povero allocco ci ha ricordato Lucignolo con Pinocchio anzi il Gatto e la Volpe con il burattino di Collodi perché questi ultimi erano consapevoli del danno che stavano commettendo. Belzebù offre sempre Paradisi Artificiali (che siano i bit coin o la droga) e Paesi dei Balocchi perfetti solo all’apparenza. Mettersi in mano alla tecnologia, anzi alla tecnocrazia, è molto pericoloso perché perdiamo il controllo di chi controlla il controllore. I visori ci regalano allucinazioni, portandoci in una realtà, senza conflitti o nella quale risultiamo vincitori, fasulla, finta, creata a nostra misura, senza relazioni, una realtà talmente calda e accogliente che ci spinge all’isolamento, all’autoconservazione, anzi al pensiero che si possa fare a meno degli altri perché ci bastiamo da soli e non abbiamo bisogno di nessun altro. La televisione di Pasolini o gli smart phone e i visori di Rutelli sono oggetti che l’uomo ha inventato per migliorare la propria condizione e che poi si sono ribellati all’uomo stesso, proprio perché hanno preso derive incontrollabili e, quando era possibile, non sono stati normati né limitati nelle loro funzioni.

Sopra la scena, dove si muovono e agiscono i tre attori solerti e operosi, Gianni Poliziani e Alessandro Waldergan (storici della compagnia LST) e Giulia Canali, sopra le loro teste si apre un cerchio con dentro un magma pulsante di lava incandescente e ribollente a testimonianza di un Inferno in terra. Bastano pochi anni al protagonista per non riconoscere più la sua città, il proprio quartiere; adesso tutto è stato trasformato con l’idea di una modernizzazione forzata e violenta: è aumentato il traffico e lo smog, la cementificazione, i grattacieli. Una realtà grigia e asfittica che spinge ancora più l’uomo verso il virtuale, quei mondi che non esistono e che, in quanto tali, sono belli e perfetti proprio perché non ci sono. Tutto è agognato ma quando l’obbiettivo viene conquistato il vuoto dell’insoddisfazione cresce ancora di più e niente riesce a placare, a calmare il bisogno d’amore, d’affetto, di vicinanza, di ascolto, di solidarietà. Non si può pagare un abbraccio o almeno un abbraccio pagato non avrà mai lo stesso calore di uno spontaneo. Riempirsi la casa e la vita di oggetti (Amazon docet) non ci porterà più felicità né serenità: è il consumismo, bellezza.

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Le macchine creano una società che non osa né rischia più, con bassa attenzione e che ha sempre bisogno viscerale di nuovi stimoli, di nuove cose per sostituire le precedenti. Le notifiche poi sono lo specchietto per le allodole, l’amo per il pesce, quel bip che ti dice Qualcuno ti sta pensando, taggandoti, Devi vedere assolutamente questo contenuto, per poi capire che era pubblicità, deludendoti. Le notifiche sono iniezioni di adrenalina, quel sentirsi popolari, e quindi voluti e amati e cercati che fa schizzare l’autostima. E’ un gioco psicologico e noi siamo vulnerabili marionette in mano al grande burattinaio del marketing. L’amarezza è tanta: Ho tutto e non ho niente, dice il protagonista. E ancora: Non conta più il vedere, conta solo l’essere visto, insiste dolorosamente. Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il Glamour è il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma. La vostra sofferenza dopa il commercio, ha detto Frederic Beigbeder. E’ nella ricerca forsennata e a tutti i costi del divertimento che ci annoiamo. Una bella sperimentazione, un interessante fumettone questo 666.PPP (il sottotitolo Quel Diavolo di Pasolini invece non ci è piaciuto, ci ha fatto venire in mente Benigni) che speriamo abbia vita anche lontano dalla provincia, una bella prova di cosa voglia dire fare ed essere comunità, di che cosa significhi unire le forze di un territorio, con grande vitalità appassionata, per creare arte e cultura.

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Questione di sguardi

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Incontro con Marco Corsucci (regista) e Matilde Bernardi (performer), autori del progetto ispirato al romanzo di Frank Wedekind Mine- Haha, ovvero dell’educazione fisica delle fanciulle, vincitore della seconda edizione del Premio Silvio d’Amico alla regia, realizzato dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico in collaborazione con Romaeuropa Festival.

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Ascolta qui:

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Approfondimenti: 

https://www.adelphi.it/libro/9788845901782

https://romaeuropa.net/festival-2024/mine-haha-ovvero-delleducazione-fisica-delle-fanciulle/

https://birdmenmagazine.com/2020/01/04/romeo-castellucci-e-la-percezione-dello-sguardo-schwanengesang-d744/

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Bisogna nominare le cose. Cinque brevi note su Autoritratto di Davide Enia

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Diciamolo subito: siamo dalle parti del capolavoro.

Per alcuni precisi motivi, che se non ho certo la pretesa di esaurire, proverò almeno a nominare.

Parlo di Autoritratto, il nuovo spettacolo di e con Davide Enia, visto al Teatro Piccolo di Forlì martedì 3 dicembre.

Per dovere e amor di sintesi, circoscrivo a cinque i motivi di apprezzamento.

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PRIMO: IL PRIMA

Prima dello spettacolo a Forlì, nell’ambito del progetto Teatro e Gusto, al Circolo Ricreativo “Casa del Lavoratore” di Bussecchio adiacente al Teatro Piccolo Enia ha dialogato con Ruggero Sintoni, co-direttore artistico di Accademia Perduta/Romagna Teatri (che co-produce lo spettacolo insieme a CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, e Spoleto Festival dei Due Mondi).

Una manciata di minuti in cui ha raccontato alcune sue procedure creative: tra esperienza di vita e aneddoti, tra mestiere artigiano del teatro e studio, tra nudità dello spazio scenico e iper-esposizione dell’Io narrante, tra la scelta di raccontare storie che vorrebbe per primo ascoltare e l’usare il proprio corpo-voce per permettere ad alcune assenze di affiorare.

Tutto questo con una passione e una esattezza commoventi.

Uso ora questo termine nel senso etimologico del farci muovere assieme: assieme affacciarsi su quella bottega che sta prima e attorno alle creazioni e che non sempre si può pienamente intuire.

Da molti anni mi capita spesso di ascoltare gli artisti e le artiste raccontare il proprio lavoro: troppo spesso in maniera vaga, fumosa, massimamente imprecisa o unicamente sentimentale o egotica.

Questa capacità di creare discorso -dunque mondo- in modo al contempo rovente ed esattissimo, è cosa preziosa, rara: fa sì che fatti privati divengano all’istante patrimonio comune.

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SECONDO: PRECISE PAROLE

Precise parole, ancora, in una drammaturgia che intreccia la propria storia (l’autoritratto del titolo) e la Storia: la mafia, Palermo, il primo morto ammazzato visto a otto anni rientrando da scuola.

Per inciso: il titolo di queste mie brevi note, bisogna nominare le cose, rimanda a quanto diceva a Enia-liceale il suo professore di religione, don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia nel giorno del suo compleanno.

Ancora: italiano e dialetto.

Frasi brevi, nette.

Poche subordinate, parole-cose.

E ritmo, ritmo, ritmo, in una scrittura che si nutre di scena e di vita.

E il ritmo è tutto: forse nella vita, certo in teatro.

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TERZO: SAPER FARE

Enia è un artista poliedrico.

Scrive e dirige.

Recita, canta e cunta.

Fa tutto con smisurata forza e forte misura, che è un equilibrio mica da poco.

Modula la voce con grande espressività, passando dal sussurro al grido con una fluidità che tiene il pubblico costantemente in tensione emotiva.

L’andamento della sua narrazione è tipico del cunto: accelerazioni, rallentamenti, sincopi e pause drammatiche che sospendono il respiro. Una gestione del tempo cruciale per creare pathos e intensità.

Senza bisogno di costumi o cambi di scena, Enia fa vivere nello spazio vuoto del palco una moltitudine di personaggi e ambienti. Attraverso la voce e i gesti, evoca interi paesaggi e atmosfere, portando lo spettatore in un viaggio al contempo di senso e sensoriale.

A noi in platea piace, con buona pace di molte stramberie avanguardistiche, che chi sta sul palco manifesti una téchne a noi non data, che possegga un saper fare che non è nostro.

Che ci faccia al contempo pensare ed emozionare.

Questo, Enia, lo sa fare bene.

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QUARTO: IL GRAN TEATRO DEL MONDO

Con lungimiranza, il pur multi-talentuoso Enia si avvale di molte collaborazioni di pregio: nutre la sua opera in molti modi.

In scena ci sono musiche dal vivo e canto di Giulio Barocchieri: insieme creano mondi.

Questi mondi sono materia, non solo astrazione, grazie al suono di Francesco Vitaliti, che ci consegna questo racconto con la datità di un fatto.

Le luci, di Paolo Casati, disegnano nel nudo spazio scenico alcune (de)centrate geometrie che contribuiscono concretamente a moltiplicare, parallelamente alla drammaturgia, i punti di vista su quanto in scena è messo in vita.

Prima (uno spettacolo come questo necessita di gran lavorio prima, per esistere) certo molti passi, che non conosco.

Uno di questi lo ha raccontato in una bella intervista a Federica Angelini pubblicata in apertura della rivista Palcoscenico 2024-25: «Io mi sono avvalso della collaborazione di tre funzionari della Dia, dipartimento antimafia, che mi hanno fatto una lezione di semiotica, mi hanno aiutato a leggere i segni della mia città e storicizzare come loro hanno combattuto la mafia».

Sulla città come testo ci sarebbe moltissimo da dire – una fascinosa quanto smisurata parentesi, che non apro.

Ai fini del presente piccolo discorso pare sufficiente accennare a questo allargamento per nutrire di mondo il proprio teatro: attitudine sideralmente distante dall’immaginario romantico dell’artista che nel chiuso della propria torre combatte con i propri fantasmi per addivenire alla dolorosa quanto necessaria (che aggettivo consumato, tra teatranti e affini!) creazione dell’opera.

È grande teatro del mondo, questo Autoritratto.

È, etimologicamente, teatro: luogo di sguardi e visioni.

QUINTO: L’ARTE DELLA COMMOZIONE

I temi personali e universali di Autoritratto, che toccano la famiglia, la perdita e la memoria, vengono affrontati con una plausibilità disarmante.

Lo spettatore si sente parte di un’esperienza collettiva: pur attingendo a una modalità di narrazione arcaica, Enia riesce a fondere la tradizione del cunto con una forma di teatro contemporaneo che abbatte la quarta parete emotiva.

Autoritratto riprende e rivitalizza la struttura della tragedia attica, con tanto di prologo ed esodo: parla a qualcosa di antico, in noi.

Il tema è forte, il racconto avvolge, alcuni canti in una lingua antica e carnosa (tra cui il Miserere di Sessa Aurunca inciso da Giovanna Marini e, in chiusura, lo struggente Cumu è sula la strata dei Fratelli Mancuso) muovono e, soprattutto, approssimano al mistero.

Dall’Antica Grecia in poi, questa è una delle funzioni dell’Arte, degli artisti: mediare tra noi persone comuni e ciò che non conosciamo, che solo a fatica intuiamo, ma che generosamente ci nutre.

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Intervista a Isabella Caserta, direttrice artistica del Teatro Scientifico/Teatro Laboratorio di Verona

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Il Teatro Scientifico/Teatro Laboratorio di Verona è una struttura stabile di produzione teatrale riconosciuta dal Ministero della Cultura attiva dal 1968. Il suo pane quotidiano è la drammaturgia contemporanea, il teatro civile, il teatro sociale. Suo fiore all’occhiello è il festival “Non c’è differenza” dedicato alla cultura dell’inclusione e all’abbattimento delle barriere fisiche e mentali. Ha una sezione di studio e ricerca antropologica sulla Commedia dell’Arte. “Da cinquantasette anni siamo un presidio culturale del territorio, che non opera solo nella città di Verona, ma anche in luoghi svantaggiati della provincia, in piccoli comuni e piccoli centri oltre che sul territorio nazionale, che costruisce comunità, spazio aggregativo e inclusivo che accoglie e forma raccontando attraverso il teatro le complessità del presente, cercando sempre di stimolare il pensiero e la riflessione in rapporto costante con la comunità – ci racconta la direttrice Isabella Caserta – portando avanti anche progetti dedicati alle fasce fragili della popolazione e sul femminile”.

Il Teatro Laboratorio nasce nel ’67 per volontà di Ezio Maria Caserta e di Jana Balkan. La sua prima sede, fino al ’75, è uno spazio periferico, dove il gruppo affianca all’attività di produzione quella di ospitalità. Lì arrivano le più importanti compagnie d’avanguardia italiane e straniere: “Nel ’75 la compagnia ristruttura la stazione di partenza dell’ex funicolare di Santo Stefano che era diventata discarica di immondizie del quartiere e la trasforma in un teatro. Da noi in quegli anni si sono esibiti Salvatores, Benigni, Paolo Poli, Elio De Capitani, Odin Theatre, Living Theatre, Grotowski, Carmelo Bene, Pippo Delbono oltre che concerti con nomi illustri come Gianna Nannini, Paolo Conte, al suo debutto, Francesco Guccini, Leo Ferrè, Gino Paoli. Nel ’77 subiamo un attentato doloso che brucia il nostro teatro. Nel frattempo la compagnia nel ’75 viene invitata da Ronconi alla Biennale di Venezia e cominciano le tournée estere: Colonia, Parigi, Berlino, Praga, Mosca, Atene, Marsiglia, Copenaghen, Città del Messico, New York, Montevideo, Vienna, Avignone, Valencia”. Nonostante i grandi lavori di agibilità che il Teatro Scientifico aveva sostenuto per adeguare lo spazio, il Comune di Verona decide di ripristinare la funicolare sfrattando di fatto il gruppo teatrale che nel 2010 trova un altro spazio nell’ex arsenale rimettendolo a nuovo e a norma. Ma anche da qui, nel 2021, vengono allontanati: “Dopo aver ristrutturato per tre volte beni pubblici diroccati trasformandoli in teatri, ci siamo rivolti verso un progetto privato sostenendo la riqualificazione di un ex stamperia in riva all’Adige che è stata inaugurata nel 2023”.

Abbiamo incontrato la direttrice artistica Isabella Caserta. Lei ci tiene a specificare, con giusto orgoglio, che “è nata” sulle tavole del palcoscenico.

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Ci può raccontare il suo rapporto con il teatro e con la recitazione?

“Il Teatro Scientifico/Teatro Laboratorio è stato fondato dai miei genitori prima della mia nascita e mi sono trovata catapultata sul palco da neonata, il mio rapporto col teatro è cominciato così. Erano anni in cui c’era un grandissimo fervore, c’erano meno regole rispetto ad oggi, in tournée capitava anche di dormire tutti insieme nei teatri, cosa che adesso sarebbe impensabile, erano anni di grandi sperimentazioni e ho avuto la fortuna di passare un’infanzia girovagando per il mondo al seguito dei miei su un bus Volkswagen che a volte è stato il nostro letto, accanto a personaggi del calibro di Grotowski e Julian Beck. Dopo il liceo classico volevo vedere anche l’altro lato della medaglia, quello del teatro “più tradizionale” e ho fatto il provino in una delle accademie più antiche d’Europa che è quella dei Filodrammatici di Milano (attiva dal 1796, ndr) mentre d’estate frequentavo i corsi che Giorgio Albertazzi teneva al Festival di Tagliacozzo in Abruzzo. Al saggio di diploma erano presenti degli osservatori che mi hanno chiesto di fare un provino al Piccolo Teatro di Milano per la nuova produzione che stava partendo, una coproduzione con lo Stabile di Catania, provino che vinsi. Da lì sono iniziati anni in cui ho lavorato come attrice scritturata con le grandi compagnie di giro, l’INDA di Siracusa, a fianco di grandi nomi del teatro, fino a quando mio padre è stato investito e purtroppo è scomparso. A quel punto ho scelto di tornare a Verona per affiancare mia madre e proseguire quel progetto che è il Teatro Scientifico/Teatro Laboratorio, che ho poi sviluppato anche in una mia visione. Di questa scelta non mi sono mai pentita perché mi consente di portare avanti progetti e valori nei quali credo fortemente”.

Quali sono stati gli spettacoli che sente più suoi, quelli che ricorda maggiormente, quelli che l’hanno formata, cambiata, stravolta, quelli che ci ha lasciato un pezzo di cuore?

“Tra gli spettacoli che ho visto quello che mi ha incantata, che ricordo ancora, quello che considero lo spettacolo è stato Le Troiane del Cafè La Mama di New York (con cui poi da adulta ho lavorato a Milano) alla Biennale di Venezia, avrò avuto cinque anni, quello è uno spettacolo per me indimenticabile. Tra quelli che ho fatto ce n’è più d’uno, alcuni anche per ragioni personali. Per citarne uno tra i più recenti sicuramente La Bambola e La Putana il dittico che ci ha donato lo psichiatra Vittorino Andreoli, perché non edulcora la realtà, non nasconde la polvere sotto il tappeto, te la sbatte in faccia in tutta la sua crudezza e ti costringe a riflettere, a guardare cose che magari si preferirebbe evitare di vedere e ti mostra non una realtà lontana ma fatti che accadono dentro e fuori dalla porta di casa, toglie il velo del perbenismo ipocrita dietro il quale spesso ci si nasconde, per cercare di capire il disagio, la malattia, la realtà. E poi Orgia di Pasolini che lui stesso definì il dramma della disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini.  Entrambi gli spettacoli sono miei e del collega Francesco Laruffa”.

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Cos’è per Lei il teatro? Qual è la sua funzione oggi e se questa è cambiata nel corso degli anni?

“Penso che il teatro sia il mezzo che abbiamo a disposizione per parlare di certi argomenti, una tribuna aperta sul mondo. Spesso si sente dire che morirà, invece non muore mai, perché lo spettacolo dal vivo è qualcosa dove tutto accade in diretta, il qui e ora, è l’interscambio tra umani, è la relazione nell’immediato, è come la vita, ti avviene davanti mentre guardi. In un’epoca come questa in cui si è sempre connessi virtualmente, ma di fatto soli, il teatro mantiene le relazioni tra le persone, in presenza, vivi tra i vivi, raccontando delle storie che siano lievi o drammatiche, antiche o moderne, contemporanee o di tradizione, ma sempre intersecando emozioni”.

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Come vede il panorama veneto teatrale e come ha visto cambiare quello nazionale in questi cinquant’anni?

“Vivido, vivace, ricco di sfaccettature, il Veneto che ha dato i natali alla Commedia dell’arte,  ha una molteplicità di espressioni artistiche che vanno dalla tradizione al contemporaneo, mi pare che, pur nell’iperproduzione, che caratterizza questi anni non solo in Veneto, ma su tutto il territorio nazionale ci sia un maggior professionismo e una maggior consapevolezza rispetto al passato, ma è cresciuta molto anche la burocratizzazione, spero che questo non tarpi le ali e non tolga linfa vitale, penso però che gli artisti che hanno qualcosa da dire, oggi come ieri, trovino comunque sempre il modo di dirlo”.

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Dove sta andando e quale direzione sta prendendo il Teatro Scientifico?

“Credo nella funzione civile e sociale del teatro e in questa direzione lavoro, mettendo il focus su tematiche che mi stanno a cuore. Per esempio recentemente mi è capitato di assistere ad una violenta discussione tra adulti allora mi sono chiesta che cosa potevo fare per provare a spostare la sensibilità sul reciproco rispetto e così è nato Cuor di Smeraldo il nostro spettacolo per i più piccoli. E la stessa cosa vale per il festival Non c’è differenza che ho ideato nel 2014 dopo un fatto molto grave di intolleranza successo a Verona ed è dedicato all’altro da sé per una cultura del rispetto perché, citando Camilleri: Non bisogna mai aver paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro e per i vari progetti legati alla violenza sulle donne, il femminile, le fasce fragili. Un teatro che porti riflessioni, dove attraverso gli spettacoli poter valutare anche punti di vista diversi dai propri, aprire visioni altre. Vorrei che il Teatro Scientifico/Teatro Laboratorio continuasse a mantenere la sua indipendenza, la sua onestà di pensiero, la sua coerenza, aldilà delle mode del momento anche se a volte questo vuol dire andare in direzione ostinata e contraria, ma libera”.

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Cosa cerca adesso nel teatro?

“Cerco purezza, cerco verità, cerco poesia, cerco ironia per avere l’occhio dell’incanto e l’occhio del disincanto e cerco contaminazioni. Cerco di portare avanti solo progetti nei quali credo e mi riconosco, sia nelle nostre produzioni, sia come collaborazioni”.

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Ultima domanda: quale spettacolo/sogno nel cassetto vorrebbe mettere in scena nei prossimi anni?

“Certamente mi piacerebbe prima o poi riuscire a mettere in scena un Don Chisciotte”.

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(Un altro?) Natale in casa Cupiello

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Ciò che più colpisce di questo spettacolo di Luca Saccoia, nato da un’idea condivisa con Vincenzo Ambrosino e diretto da Lello Serao, è che la messa in scena è di una fedeltà quasi filologica al testo, sia nella narrazione che nella struttura nei canonici tre atti della conclusiva elaborazione eduardiana di metà anni 30 del ‘900, ma insieme ne è una sorta di catartico travestimento che ne svela il nucleo estetico, a metà tra l’onirico (come non ricordare in proposito il successivo Questi fantasmi) e il metafisico, un nucleo che riesce a coinvolgere biografico e psicologico in una torsione che è propria dell’umano esistere oltre se stesso.

Questo Natale in Casa Cupiello, prima delle grandi commedie tragiche di Eduardo, in cui appunto il comico è il viatico che rivela il tragico, infatti ‘estroflette’ la narrazione scenica portandola tutta dentro quello che ne è il tradizionale centro, il famoso presepe di Luca Cupiello, così da direttamente e significativamente ambientare quasi l’intera vicenda dentro quel mondo di cartone e legno che si fa carne e sangue dell’attore.

Un presepe ‘universale’ che è anche il varco che sulla scena porta la poesia, dei sentimenti e dell’amore, dentro la realtà rigida e dolorosa di ieri e di oggi, trasfigurandola in qualcosa che non è sogno ma vera e propria possibilità.

È dentro questo presepe universale che possono essere composte ed elaborate le contraddizioni personali e familiari, tra schemi e impossibili riscatti che, è noto, lo stesso Eduardo, nella dicotomia dolorosa tra famiglia istituzionale e famiglia affettiva, patì e compatì esistenzialmente sulla propria pelle.

Contraddizioni, e qui il testo quasi centenario mostra la sua più illuminante attualità, che riguardano innanzitutto il rapporto tra uomo e donna, tra moglie e marito duplicato e evoluto tra madri e figlie e tra padri e figli, e poi quelli sociali e di classe con il denaro che, quasi in controscena, comincia ad essere invincibile paradigma del rapporto tra enti ed esistenti.

Tra l’altro in questa drammaturgia, di cui è inutile richiamare la trama, sono anche custoditi, quasi come una promessa, i successivi e analogamente perturbanti drammi familiari, tra regola e riscatto, di Edoardo De Filippo, da Filumena Marturano a Napoli Milionaria, in cui più di altre sono evidenti le ricadute del suo rivelatorio sguardo sociale e, perché no, politico.

Tutto precipita dunque in quel presepe, intimo luogo di elaborazione latamente psicoanalitico ma anche luogo della speranza che sotto le vestigia della morte prossima e dell’apparente obnubilamento (un artifizio geniale) della mente di Lucariello sancisce il giudizio e l’agnizione finale nella prevalenza dell’amore autentico (tra la figlia e l’amante chissà se non veramente riconosciuto) su quello di convenienza sociale (con il marito di lei che viene quasi scacciato dalla scena).

Luca Saccoia riesce a far questo magistralmente utilizzando la sintassi del teatro di figura, tra luci e ombre che appunto come in un presepe inglobano l’intero transito scenico, e soprattutto i pupazzi che lo circondano, esprimendolo pienamente, e che svelano i personaggi quali concretamente sono, proiezioni di un passato o di un futuro che non è solo immaginato, facendosi così, come magicamente accade, più umani dell’umano.

All’interno di questo palcoscenico/mondo Luca (Saccoia ma anche Cupiello) tiene letteralmente le fila (e i fili) muovendosi, unico e assai bravo attore monologante ma mai solo, tra ombre e proiezioni (in tutti i sensi possibili), tra oggetti sempre significanti (la ‘lettera’ o anche la ‘cinque lire’) e pupazzi, anzi entrando e uscendo da questi ultimi come spirito irriducibile di un rito (quello che il presepe custodisce nella sua forma storicamente contingente) in reiterato rinnovamento.

Si crea così un gioco (play dicono gli inglesi di entrambi) speculare tra la recitazione dell’attore e quella dei pupazzi, il cui spazio straniante è progressivamente riempito di senso e significatività al quale entrambi partecipano, paritariamente ma reciprocamente risuonando.

Il testo parlando ai suoi personaggi, pur costruiti ad immagine del loro tempo, parla a tutti noi e Saccoia è bravo a farsene interprete, colui cioè che traduce da una lingua all’altra mentre trasfigura la vita in scrittura, in parola oltre il tempo.

La sua lingua, quel napoletano che Edoardo De Filippo seppe riscattare dal folclore teatrale per farlo vera e propria letteratura nazionale, è per questo necessaria e lo spettacolo giustamente la preserva nella efficace dizione che diventa la sonorità, la musica intensa, del complessivo sentimento narrativo e scenico.

Uno spettacolo intriso di una religiosità laica e molto umana, che proprio nelle reiterate litanie, quasi trasfigurate e distorte dal dolore che si nutre degli eventi cui assistono, sono l’eco e l’onda che tracima dal palcoscenico per lambire la nostra intimità.

Drammaturgia, regia e scenografia assecondano così una intuizione profonda che forse solo attraverso i pupazzi (bellissimi ed efficacemente manovrati da attori o anche di questi efficaci manovratori, ed è significativo che nell’ultimo atto quei manovrati/manovratori abbiano anche voce e presenza scenica) può trovare il coraggio di esteticamente accadere.

Alla sala Eleonora Duse del Teatro Nazionale di Genova che lo ospita per soli, purtroppo, due giorni, il 3 e 4 dicembre. Una sala piena e convinta che allo scoccare delle oltre due ore di spettacolo, durante i quali sono stati numerosi gli applausi a scena aperta, ha a lungo acclamato e festeggiato.

Natale in casa Cupiello | spettacolo per attore cum figuris Produzione Teatri Associati di Napoli, Interno 5 con il sostegno di Fondazione Eduardo De Filippo e Teatro Augusteo. Da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia. Regia Lello Serao. Interprete Luca Saccoia. Spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario. Manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Angela Dionisia Severino, Irene Vecchia (formazione e coordinamento). Costumi Federica del Gaudio. Musiche originali Luca Toller. Luci Luigi Biondi e Giuseppe di Lorenzo.

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Col grammelot faccio canzoni. Audio-conversazione con Sergio Cammariere

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Ieri sera, dopo il concerto di Sergio Cammariere al Teatro Diego Fabbri di Forlì nell’ambito dell’Emilia Romagna Festival, lo abbiamo intervistato.

Dieci minuti tondi per farsi raccontare quello che sta dietro alle sue creazioni.

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Buon ascolto:

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La visione di una melodia. Conversazione con Andrea Cramarossa a partire da Borges

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Ha appena inaugurato alla Casa delle Culture di Bari la mostra BORGES – Ipotesi foto-grafica sulle geografie del corpo (concept Andrea Cramarossa, foto Gennaro Gargiulo, elaborazione grafica Federico Gobbi, curatela Loredana Cacucciolo). Il cortometraggio Borges, da cui è scaturita, nei mesi scorsi ha ricevuto decine di premi in Festival internazionali. Attualmente è anche finalista al The Next Generation short film festival di Bari, nella sezione Film d’artista. Le opere finaliste saranno proiettate a Bari dal 16 al 18 dicembre.

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Come definiresti quest’opera e per quali motivi, secondo te, sta raccogliendo così tanto consenso?

Definendola secondo un genere, sarebbe un cortometraggio docu-sperimentale.

Invece, per me e come spesso accade con l’Arte e i fenomeni estetici, è uno dei tanti beni che hanno il potere di mettere in relazione l’anima più superficiale della nostra esistenza umana con quella più profonda; dunque è, anche e principalmente, un bene extra terreno ed extra quotidiano.

Per quanto riguarda il suo successo mondiale, no, non so darmi alcuna spiegazione razionale, posso solo provare molta gratitudine.

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Il tuo lavoro da sempre eccede il teatro. «Il mio modo di fare teatro è il fare del pittore», mi dicesti qualche anno fa in una intervista (QUI) che realizzammo in occasione della nascita dell’archivio Andrea Cramarossa – Teatro delle Bambole presso la prestigiosa Fondazione Morra – Istituto di Scienze delle Comunicazioni Visive di Napoli. In che modo questa nuova creazione allarga la tua ricerca linguistica e quali principi, invece, conferma?

È una lente che riflette, deforma, rispecchia fedelmente e, infine, risucchia ogni cosa dentro di sé, questa specie di fagocitazione delle immagini, delle sensazioni e delle vibrazioni sonore che sono il mondo intero e che alberga dentro di me.

È da essa e con essa che rendo plausibile la possibilità del creare, coerente con la pratica performativa che da sempre invade il mio lasciarmi agire dall’arte.

Così, la fotografia, ha stimolato in me una necessità, come dire?, più letteraria, più narrata ma nella fissità del rapporto 1 a 1 a cui ti sottopone la visione statica di una foto che invita alla contemplazione.

Avevo bisogno di narrare diversamente le tracce emozionali già espresse nel cortometraggio; si è trattato di un bisogno simile al desiderio di voler “collezionare” o “catalogare” le immagini in impressioni paesaggistiche accentuando i concetti di “estraneità” e di “straniero”, sottesi nel cortometraggio e non marcatamente espressi.

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Nel delicato e sempre mobile equilibrio tra intelligibilità di un contenuto (soprattutto se con una matrice civile e sociale) e fedeltà alla stratificata complessità del proprio universo estetico dove si colloca, questa esposizione?

Credo si possa collocare sempre nella dimensione diaristica o da album fotografico, una sorta di storiografia delle istanze migratorie, dello spostamento, del nomadismo.

L’attualità ci pone di fronte a molte questioni lasciate in sospeso per troppo tempo: prima o poi, esse, tornano alla luce per interrogarci enormemente.

È necessario poter porre un freno o un limite al degrado immenso che sta devastando la nostra umanità, intendo a livello interiore, principalmente, di pensiero, di percezione delle cose, della gravità degli accadimenti.

La sofferenza non viene più letta, decriptata dalla nebbia del nostro ego, e tutto il dolore passa come se non fosse mai esistito.

Non ho mai pensato che l’arte esista per allievarci dalle nostre “sofferenze” quotidiane ma, al contrario, che sia essa il modo migliore per andare in crisi.

L’esposizione, dunque, si pone esattamente al centro di questa crisi, è l’ombra che emerge dal taglio, dalla ferita, è il solco tracciato dalle parole del viaggio, quell’insieme di segni, direi quella “cosmogonia” di segni, che di-segna tutto il nostro corpo e che tendiamo a nascondere.

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Frammentazione dei paesaggi, dei corpi, come impossibilità di significare pienamente l’Altro da sé. È così?

Più che altro è una visione minuziosa del “nascosto”.

Nella domanda che possiamo porre al nostro esser-ci nel mondo, noi troviamo un “chiesto” (come direbbe Heidegger) che, in questo caso, ci spiazza, toglie energie alla riposta, al fiato, lo rende un alito appena percettibile, inudibile, molto intimo, molto segreto, quasi misterioso.

D’altro canto, il cortometraggio si apre proprio con una domanda: “Quanto tempo può resistere un uomo sott’acqua senza respirare?”.

La risposta attiene alle creature degli abissi; esse parlano con movimento poetico, quello dell’acqua, la melodia più profonda, quella della nostra anima più profonda, come a voler cantare una nenia d’addio a chi non ha potuto ricevere una sepoltura nel cuore della terra.

E l’abisso è, anche, quella “terra di mezzo” dove il viaggiatore perlustra il proprio essere, cerca la volontà per determinarlo, si oppone, in realtà, alla frammentazione.

Questa ha una sua qualità e, in base a questa qualità, noi possiamo osservare una frammentazione che è totalità, integrità, unità: è il caso di Borges, appunto, un caso certamente “realistico” e certamente “magico”.

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Il cortometraggio Borges inizia con una esplicita, reiterata esortazione al guardare. A cosa è auspicabile che si presti attenzione, visitando la mostra?

Ancor di più oggi, l’arte contemporanea, dovrebbe porre interrogativi chiari, netti, alla mente dello spettatore, porlo di fronte all’arte stessa ma al di fuori del rumore quotidiano, farlo entrare nell’agito, nelle meccaniche della percezione per trovare un senso proprio alle cose dell’esistenza.

Ecco, direi che auspico la visione di una melodia.

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E una volta usciti?

Il paesaggio.

Certamente credo che il paesaggio urbano sia, oggi, sempre più in trasformazione, ma il suo cambiamento è un cambiamento, sì, dei segni (le persone – gli oggetti – che abitano i luoghi) ma anche un cambiamento formale.

A questo cambiamento mi riferisco soprattutto quando parlo di paesaggio.

Sono le persone a darne la tinta, il tratto saliente, sono le persone ed il loro andare a determinare la città.

Spero che usciti dalla visione della mostra si possa guardare il paesaggio circostante con altri occhi, per una possibile riscoperta di una interiorità, quella sì, spesso frammentata e da ricomporre.

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La mostra sarà visitabile fino al 28 dicembre, tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 20. La Casa delle Culture si trova in Via Barisano da Trani, 15 (ingresso da Traversa di Via G. Pugliese) a Bari. Per informazioni: info@teatrodellebambole.it, 347 3003359, https://www.teatrodellebambole.it/. 

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The old man, un cammino

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È terminato il mese scorso, al Festival Aperto di Reggio Emilia, un percorso iniziato questa estate, presso il festival Direction Under 30 di Gualtieri.

Anzi, più che terminato direi che si è compiuto, e mi lascia con grandi aspettative.

Da dove cominciare a raccontarlo?

Per rompere il ghiaccio partirò da qualcosa che, apparentemente, non ha nulla a che fare con tutto questo. Jack London e la mia intervista a Chiara Guidi fatta in occasione del debutto di Preparare un fuoco, del Corso di Ritmo Drammatico.

In questa ricchissima intervista ho chiesto a Chiara Guidi perché avesse scelto di portare in scena il racconto di London Preparare un fuoco. La risposta è stata questa:

«Ho aperto e ho letto “quest’uomo non aveva immaginazione” e ho detto: questo testo fa per me. C’è un processo di lavoro sul recupero dell’immaginazione come forma di conoscenza…»

Ho ragionato a lungo su quel concetto: l’immaginazione come forma di conoscenza.

Un’immaginazione che, in campo artistico e teatrale, diventa corpo, voce, forma, movimento e rende accessibile un’esperienza di cui non si può esperire. Non solo per lo spettatore ma in primo luogo, soprattutto, per l’artista.

Avevo ancora in mente quelle parole quando mi sono recato, a luglio, al festival Direction Under 30 in qualità di membro della giuria critica e le ho sentite riecheggiare in un lavoro in particolare: The old man, della compagnia Nanouk.

Apro subito una parentesi.

Il festival Direction Under 30 di Gualtieri, praticamente unico nel suo genere, compie la scelta anticonvenzionale (e a volte rischiosa) di portare sul palco solo giovani artisti e di costruire davanti ad essi un pubblico fatto principalmente di loro coetanei.

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Festival Direction Under 30, anno 2023, X edizione

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Il risultato è un ambiente prolifico per il dibattito, il confronto, la sperimentazione di temi e linguaggi, in cui è facile trovarsi di fronte a progetti che aprono lo sguardo a nuove prospettive.

Quest’anno la selezione proponeva sei spettacoli, estremamente diversi tra loro, molto curati, frutto di profondi studi artistici e urgenze personali degli autori e performer. Il vincitore del festival è stato Roberto Onorato con A.L.D.E. non ho mai voluto essere qui, e ad aggiudicarsi il premio della critica è stato The Old Man della compagnia Nanouk.

In quest’ultimo spettacolo, di teatro danza, ci sono tre personaggi, interpretati da Daniel Tosseghini, Linda Pasquini e Marianna Basso (mi riferirò spesso a loro con il loro nome, perché la loro identità mi appare legata alla loro espressione artistica).

The old man, nella forma in cui è stato presentato a Direction Under 30, ha una durata di 25 minuti e porta in scena un trittico di personaggi in profonda relazione tra loro, che rappresentano ed esplorano un’ unica natura umana di vecchiezza e fragilità.

Lo spettacolo è diviso in due parti. Nella prima vengono introdotti i tre personaggi.

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ph Aurora Pica e Luca Guido

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Il primo, Daniel Tosseghini, indossa una giacca marrone e si trova spesso immobile, con le mani giunte dietro la schiena, come un umarèll. È l’uomo vecchio, concreto, tangibile, presente, ed è animato da movimenti che nascono, come impulsi, dal respiro e che rimbalzano sulle articolazioni.

Il secondo, Linda Pasquini, ha il volto coperto da una maschera verde del Grinch, almeno inizialmente. Ha un abito scuro, completo, e lo sguardo pesante.
Insegue e ricerca il primo personaggio, nonostante questo gli volti le spalle, in un continuo tentativo di abbandonare il proprio peso ad esso.

Il terzo elemento, Marianna Basso, appare da subito più dinamico e più chiaro degli altri due. Il contrasto con il secondo personaggio è evidente. Uno indossa un completo scuro, l’altro una canottiera bianca e dei calzoni corti. Uno viene allontanato e l’altro, invece, preso in braccio, sorretto, sostenuto dal personaggio dell’old man incarnato da Daniel.

Tre passi a due, più radicati che dinamici, seppur ricchi di slanci, in cui i tre personaggi interagiscono tra loro a coppie, costituiscono e concludono questa prima parte..

Nella seconda parte, i tre personaggi si presentano spogli delle loro maschere e costumi. Entrano in scena insieme, seguendo lo stesso ritmo e lo stesso tempo, accompagnati dal suono dei loro passi e del respiro.

I movimenti, inizialmente solidi, si spezzano, mostrando le singole peculiarità di ciascuno dei tre corpi, dotato di un suo modo di muoversi e di interagire con gli altri.

Piano piano, come un elastico che torna a ridursi, i movimenti si restringono, i corpi si accorpano, i gesti si fanno piccoli, ripetuti, insistiti. L’old man di Daniel Tosseghini assurge a mediatore, e muove, ferma, sposta, con delicatezza e cura, gli altri due corpi.

La partitura artistica di The old man è scritta su tre diversi pentagrammi, i tre corpi dei performers, che costituiscono insieme la melodia di un uno che si unisce e disunisce ineluttabilmente.

L’obiettivo è quello di esplorare il tema tangibile della vecchiaia di un uomo, tormentato dal conflitto tra passato e presente. Qualcosa di cui i Nanouk, tutti sotto i trent’anni, non hanno certo potuto fare esperienza diretta. Questo mi riporta all’affermazione con cui ho iniziato l’articolo, sulle possibilità dell’immaginazione (e dell’arte) come forma esperienziale alternativa a quella sensibile.

Infatti, una delle motivazioni con cui è stato conferito a questo spettacolo il premio della critica è che esso ha saputo fare “dell’immaginazione uno strumento di conoscenza di storie ben oltre il proprio esperito”, riconoscendo l’efficacia del lavoro di studio e ricerca artistica che hanno saputo delineare un mondo altro in modo così minuzioso e profondo.

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ph Aurora Pica e Luca Guido

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Il cerchio con cui ho aperto l’articolo si chiude, ma, prima di concludere, aggiungo l’ultima tappa. Lo spettacolo The old man, in quanto vincitore del premio della critica, è stato riproposto al Festival Aperto di Reggio Emilia nel mese di novembre. In questa occasione la compagnia ha sorpreso tutti, portando una versione profondamente modificata, dimostrando la volontà di approfondire un percorso di ricerca e accettandone i rischi.

La nuova versione, di almeno 15 minuti più lunga, oltre ad avere un’introduzione con voce narrante presa da La grande bellezza e un impianto sonoro più ricco di brani ed effetti, porta in scena due personaggi nuovi, presenti sin dal primo istante: due bambine di 8 e 11 anni (Letizia Revelli e Greta Serra).

Le due giovanissime performers si muovono in scena con sicurezza e precisione. Eseguono un passo a due che richiama quello tra Marianna Basso e Linda Pasquini, fatto di piccoli spostamenti, mani che cercano il perimetro di un altro corpo, tentativi di affondi, momenti di allontanamento.

La loro presenza aggiunge un tassello alla storia, completa l’arco narrativo dello spettacolo, scrive un inizio e una fine più netti attorno all’immagine aperta che era The old man nella sua prima versione.

Non aggiungo altro, sperando di aver descritto nella maniera più sincera, trattando di uno spettacolo in particolare, il mondo artistico nel quale mi sono trovato a muovere dei passi.

Spero che questo lungo articolo possa mettere a parte di un cammino al quale ho avuto la fortuna di assistere, che ha visto il seme di una proposta trovare terreno fertile in un festival, pensato per nutrire e far fiorire nuove istanze artistiche, e poi crescere ancora, mettendo a frutto le occasioni, per coltivare nuovi talenti e intrecciare rami e relazioni.

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La grande magia di Gabriele Russo. Un Eduardo visionario, tra Pirandello e David Lynch

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Quando si esce da uno spettacolo come La grande magia diretto da Gabriele Russo (a noi è capitato domenica 1 dicembre al Teatro Masini di Faenza), due domande risuonano nella mente:

Cosa è vero?

Cosa è falso?

Questo duplice interrogativo non è solo al cuore del testo di Eduardo De Filippo, ma anche del modo in cui Russo lo reinterpreta, in un meccanismo teatrale a orologeria che dialoga con Luigi Pirandello, David Lynch e perfino il surrealismo di René Magritte.

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TIEPIDA ACCOGLIENZA, NEL ‘48

Quando Eduardo scrisse e mise in scena La grande magia per la prima volta, nel 1948, il pubblico rimase spiazzato.

In un’Italia che cercava ancora di riprendersi dalla guerra, lo spettacolo, con la sua atmosfera onirica e filosofica, sembrò quasi troppo distante dai drammi quotidiani a cui Eduardo aveva abituato gli spettatori.

La commedia non fu un grande successo immediato: troppe metafore, troppi livelli di lettura.

Solo con il tempo si è riconosciuta la sua potenza, non solo come riflessione sulla verità e sull’illusione, ma anche come specchio della modernità.

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UN FILO (IN)VISIBILE

C’è un filo (in)visibile che lega Eduardo De Filippo, Luigi Pirandello e David Lynch, e Gabriele Russo lo rende tangibile nella sua messa in scena.

A prima vista sembrano mondi lontani: Eduardo, figlio del teatro popolare napoletano; Pirandello, esploratore della crisi dell’identità e della realtà; Lynch, regista di sogni e incubi.

Eppure, in questo spettacolo, universi lontani convergono in un modo sorprendentemente naturale.

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EDUARDO E PIRANDELLO: LA VERITÀ COME ILLUSIONE

Il tema centrale de La grande magia, cioè il confine labile tra vero e falso, sembra quasi un omaggio al maestro siciliano.

Pirandello, con opere come Così è (se vi pare) o Sei personaggi in cerca d’autore, aveva già scardinato le certezze del pubblico: la realtà non è mai oggettiva, ma sempre una costruzione, un’interpretazione.

Eduardo, però, aggiunge un tocco tutto suo: mentre Pirandello gioca con la mente e con le strutture teatrali, Eduardo ci mette il cuore.

La crisi di Calogero, che costruisce un mondo fittizio per sopravvivere alla propria mediocrità, non è solo un esperimento filosofico, ma un dramma profondamente umano.

La Figura interpretata da Natalino Balasso, come molti personaggi del grande autore siciliano, vive intrappolata nella maschera che si è costruita.

Diventa una sorta di demiurgo di un universo alternativo, proprio come Pirandello immaginava che il teatro fosse uno specchio deformante della vita.

Eduardo ci ricorda che, a volte, scegliere l’illusione è più sopportabile che affrontare la crudezza della verità.

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E LYNCH? PERCHÉ LYNCH?

È qui che la regia di Russo fa un passo in più.

David Lynch non c’entra, a prima vista, con Eduardo o Pirandello.

Ma se si pensa a film come Mulholland Drive o Twin Peaks, si intuisce che Lynch lavora sugli stessi temi: cos’è reale? E cos’è un sogno? Nei suoi mondi, le regole della logica si piegano, si spezzano, e i personaggi si perdono in labirinti mentali.

In La grande magia, la scenografia di Roberto Crea sembra uscita dal set di un film di Lynch: ambienti sospesi, luci e ombre che suggeriscono più di quanto mostrino.

Lo spettatore è costantemente messo alla prova, trascinato in una realtà dove tutto può essere posto in discussione.

Il mondo di Eduardo è agito in un’atmosfera straniante, quasi onirica.

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LE GABBIE DI MAGRITTE E LE STANZE DI SKOGLUND

Lo spazio del dramma, con le sue geometrie rigorose e surreali, evoca tanto le incubotiche installazioni fotografate da Sandy Skoglund quanto le gabbie dipinte da René Magritte: imprigionano uccelli e idee, esseri umani e slanci vitali in uno spazio apparentemente aperto.

Anche i personaggi di La grande magia vivono in gabbie mentali: il marito che si rifiuta di accettare la verità sull’infedeltà della moglie, l’illusionista che si nasconde dietro i suoi trucchi, il pubblico che vuole disperatamente credere in qualcosa, anche quando sa che è falso.

I personaggi si muovono (o, spesso, semplicemente stanno) in uno spazio e tempo che somiglia a una grande scatola magica, dove ogni coperchio aperto rivela una nuova sorpresa.

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UNA QUESTIONE DI PERCEZIONE

Un altro elemento che unisce Eduardo, Pirandello e Lynch è l’idea della magia, non tanto nel senso di illusionismo, piuttosto come possibilità di vedere il mondo attraverso una lente diversa.

Pirandello lo fa con la parola e con la struttura narrativa, Lynch con il cinema e il potere dell’immagine, Eduardo con il teatro e la forza del linguaggio teatrale.

Eduardo, Pirandello e Lynch trattano con strumenti diversi un medesimo tema universale: la percezione.

La realtà non è mai oggettiva, è sempre mediata dai nostri sensi, dalla nostra intelligenza e cultura, dalle nostre esperienze e dai nostri traumi.

Così come Lynch ci fa dubitare di cosa sia vero nei suoi film, così come Pirandello ci mostra che la verità è un compromesso, anche Eduardo ci lascia con un dubbio.

Ma è un dubbio che, se accettato, diventa una forma di libertà.

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LA LINGUA NAPOLETANA: TRA POESIA E INCANTESIMO

Ne La grande magia, Eduardo usa il napoletano non solo come lingua, ma come strumento letteralmente magico, nel senso di trasformante.

Nel suo ritmo musicale e nelle sue sfumature, il dialetto diventa un modo per ingannare e ammaliare, per costruire e distruggere illusioni.

Il napoletano non è solo comunicazione: è incantesimo.

La scelta di mantenere questa lingua nella messa in scena di Russo è cruciale, perché rende palpabile la distanza tra realtà e finzione.

Le parole in napoletano sembrano a volte vere, finanche materiche, a volte false, fatte d’aria, quasi fossero un gioco di prestigio linguistico.

 

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AI MARGINI DELLA REALTÀ

Michele Di Mauro brilla in una performance che richiama la figura di Babilano il buono, venditore di miracoli, protagonista del folgorante racconto di Gabriel García Márquez (del 1968, parte di una piccola quanto preziosa raccolta, La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata).

Come Babilano, anche il personaggio di Di Mauro è un uomo che vive ai margini della realtà, un visionario che preferisce un mondo immaginario a una vita troppo cruda.

Con Natalino Balasso, che con il suo stile inconfondibile -ilare e al contempo malinconico- dà corpo a una comicità amara e pungente, creano un perfetto contraltare al resto del nutrito cast.

Le attrici e gli attori non interpretano solo personaggi, ma incarnano concetti: la credulità, il dubbio, la disillusione.

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SOGNO O REALTÀ?

Le domande che Eduardo poneva – Cosa è vero? Cosa è falso? – trovano nuove risposte grazie a una regia moderna, stracolma di ritmo, figlia di grande sapienza artigiana (a gennaio 2024 il Teatro Masini ospitò il folgorante allestimento di Gabriele Russo di un cult della nuova drammaturgia napoletana, Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello).

Per concludere e sintetizzare: La grande magia invita a interrogarsi sulla natura della verità e sull’importanza delle illusioni, nel mondo e in quella sua stramba traduzione che da oltre due millenni chiamiamo teatro.

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René Magritte, La condizione umana, 1933

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Arrivano i Dunque – le pirotecnie linguistiche di Alessandro Bergonzoni in prima nazionale al Teatro Elfo Puccini di Milano

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Un uomo che indossa un camice bianco. Luci rosse e un unico elemento di arredamento scenico: una strana cassa che fa anche da tavolo/arca/vasca/sepolcro in mezzo al palco. Alcuni libri sparsi sul tavolo. Sarà un tavolo operatorio? L’uomo dal camice bianco potrebbe essere un chirurgo ma il suo bisturi è la parola acuminata e stralunata. E il paziente? Forse è la società tutta, forse è il tempo bislacco e senza (più) umanità nel quale siamo stati gettati ma del quale siamo congiuntamente responsabili: lo sancisce la congiungivite.

È un torrente in piena Alessandro Bergonzoni in questo suo nuovo spettacolo Arrivano i Dunque (avannotti, sole blu e la storia della giovane saracinesca) che ha debuttato al Teatro Elfo Puccini di Milano in prima nazionale. Due ore di ininterrotto profluvio di parole e rocamboleschi giochi semantici che prende l’abbrivio da un’asta dei pensieri alla ricerca del «miglior (s)offerente per mettere all’incanto il verso delle cose». Ed è davvero un pa(r)tire allo sproposito per lanciarsi alla conquista di nuovi sentieri di significati, deragliando dal senso comune, dagli schemi mentali che ingabbiano, perché si sta così bene fuori contesto, assicura Bergonzoni. E, fraintendiamoci, il corpo a corpo con le parole di questo atleta del verbo è come una follata di aria fresca che improvvisamente irrompe nella stanza chiusa di un teatro che è spesso puro onanismo e sterile vacuità. Nel suo intento di disertare dal mondo, l’artista rigetta innanzitutto la banalità delle convenzioni e dei cliché: la vittoria sta nel cercare di non capirci.

Bergonzoni ringrazia Dio per la dote della rinfusa e il suo accumulo di fulminazioni, geniali intuizioni e pirotecnie linguistiche fanno piazza pulita di ogni stantio ragionamento.  La sua è anche un’arte dell’esagerazione e un depensare nel solco di Deleuze e Bene. Nel teatro si parla (e quante volte a sproposito!) di urgenza ma Bergonzoni ci indica con il dito i minuti che sono passati e che nessuno aveva notato mentre uscivano in fondo alla platea. Il tempo stringe ma non abbraccia. E allora, l’artista che sente davvero l’urgenza di questo scorrere immane degli attimi ha anche il dovere etico di non rimanere zitto e sordo dinanzi alle ingiustizie e ai crimini che hanno prodotto nella nostra società un’assuefazione all’orrore e alla banalità del male. Si ride con Bergonzoni e i neuroni vanno in visibilio ma la questione etica è una costante di questo spettacolo (l’assurdità della guerra contro la quale ci dovremmo sbellicare, la boria della classe politica). Abbiamo bisogno di altristi e di tealtro, di uno sconfinare continuo dai propri limiti e dai propri meschini interessi per dischiuderci verso il prossimo e per abbracciarlo in tutta la sua irriducibile umanità e alterità.

Insomma, è un pazzo carrabile scatenato Alessandro Bergonzoni ed è meglio aspettare pazientemente la fine (sempre rimandata) dello spettacolo perché, avverte, non vuole nessuno davanti quando esce pazzo. Una pazzia salvifica la sua, un surreale e straripante comicità che ci porta oltre i confini della realtà per approdare alla crealtà. E sia chiaro, ognuno di noi è chiamato a dare un significato alla realtà nella quale viviamo. Ognuno di noi dovrà scegliere se decidere o decedere. La (c)realtà avrà il volto di questa decisione.

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ARRIVANO I DUNQUE
(avannotti, sole blu e la storia della giovane saracinesca)
di e con Alessandro Bergonzoni
regia Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi
scene Alessandro Bergonzoni
produzione Allibito
prima nazionale
visto all’Elfo il 30/11/2024

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Esercizi di vastità. Note su Anna Ghiaccio di Rita Frongia e Isadora Angelini

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Convoca a sé molte larghezze la recente creazione di due valorose donne di teatro, Isadora Angelini e Rita Frongia, che ho incontrato a Santarcangelo di Romagna domenica 24 novembre 2024.

Molte larghezze, e molte altre donne valorose, mobilita e rilancia: Figure del mondo e dell’immaginazione – che poi, per più di qualcuno, immaginazione immagine del mondo, è.

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DULLA COI TACCHI

Per quanto mi riguarda, dalla parziale prospettiva di ometto che anche attraverso questa rubrica, Donne valorose, si affaccia sui mondi del femminile e dei femminismi per provare a imparare qualcosa, in quella Figura sgambettante e fuori misura ho ritrovato Dulla coi Tacchi.

Chi è, dirà qualcuno.

Ah, penserà qualcun altro.

Dulla coi Tacchi è una delle sei maschere (dunque, persone) di Nei leoni e nei lupi, spettacolo del Teatro Valdoca del 1997 che ha cambiato per sempre il mio modo di guardare all’arte e, dunque, alla vita.

Un cappotto, là militare e sdrucito, qui metallizzato.

Tacchi e zeppe vertiginose, là e qui.

E qui un incedere che due esoscheletri di metallo rendono inciampante, burattinesco: a falcate larghe, come larga è la questione sul mistero del dicibile, nell’arte et ultra, che quella e questa opera mettono in campo.

Meglio: mettono in vita.

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MOLTIPLICAZIONI

La creazione di Rita Frongia e Isadora Angelini -nominalmente drammaturga e regista la prima, interprete la seconda, nella prassi co-creatrici di un organismo polimorfo fugace e persistente, fatto come noi umani della materia del tempo –dei sogni, direbbe qualcuno- che tutto moltiplica.

I fuochi nello spazio della scena, per cominciare.

Con buona pace della prospettiva univoca -lasciando a casa il Principe e il suo sguardo privilegiato- due grandi membrane fantasmatiche evocano, piuttosto che illustrare, due smisurati assenti: Amore e Figlio, come è stato suggerito nel denso incontro post spettacolo, al Teatro Il Lavatoio, tra le artiste e un gruppo di affamate e splendenti anime adolescenti parte, ieri o oggi, di Let’s Revolution, progetto di Teatro Patalò che, nomen omen, attraversa e rivoluziona giovani vite.

Amore, Figlio: ciò non faccia pensare, sia detto chiaramente, al trito cliché della donna che si realizza solo in quanto Moglie e Madre (nell’esperienza così come nella mancanza).

È un femminile vertiginosamente vasto e linguisticamente inclassificabile, quello che Anna Ghiaccio, nome palindromo di una Figura suggerita da La regina delle nevi di Hans Christian Andersen: a indicare forse, il sempre mobile equilibro tra ciò che -nella vita così come in quella sua stramba trasduzione che è l’arte della scena- è spiegabile, circoscrivibile, etichettabile e ciò che -vivaddio- non lo è.

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UN’AVVENTURA DEL COME

Linguisticamente: uso questo temine per ricordare, al di là di ogni contenuto, che l’Arte, quale essa sia, è sempre in primis questione, e avventura, del come, prima e più che del cosa.

Se così non fosse, una canzone d’amore di Toto Cutugno e una di Tom Waits sarebbero artisticamente analoghe. E invece.

Il come, nel caso di Anna Ghiaccio, è un continuum di canto e recitazione (e già questa, nel modo di pensare occidentale che tutto separa e cataloga, è già una capriola non da poco).

Il come, nel caso di Anna Ghiaccio, è un corpo-teatro (per dirla con Jean-Luc Nancy) in bilico traballante e solidissimo tra ironia e tragedia, eccesso e struggimento.

Il come, nel caso di Anna Ghiaccio, è una Figura minuta e maestosa, savia e ingenua, feroce e dolente che abita un paesaggio di plastica e argento attraversato dal vento.

Soprattutto dal vento, a scompigliare pensieri, a commuovere -far muovere insieme- in un territorio solo in parte dicibile: femminile nel suo allargare, accogliere, dar forma.

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ph Dorin Mihai

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TRAMPOLINI E CORNICI

Affinché possa esistere questa maestosa architettura dell’impermanenza, opera di un’arte che nell’esatto istate in cui accade scompare, occorrono trampolini, servono cornici.

Ne nomino due.

La programmazione di Votes for Women!, lungimirante progetto di una lungimirante città che mira a generare uno sguardo altro sui mondi del femminile, nel segno del quale lo spettacolo è andato in scena, alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

La produzione dello spettacolo: Artisti Drama e Teatro Patalò e Teatro delle Moire/Danae Festival.

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PER FINIRE, DA DOVE SON PARTITO

Sullo spettacolo Nei leoni e nei lupi del Teatro Valdoca, una pagina con molti materiali preziosissimi è QUI, parte di un grande progetto sul Nuovo Teatro Made in Italy guidato da una valorosa studiosa, Valentina Valentini.

Per concludere questo che più che un articolo -e molto più che una recensione- è un semplice grazie, desidero copiare un frammento del non detto di quell’indimeticato spettacolo.

Il testo è di Mariangela Gualtieri, come tutti quelli dell’ensemble cesenate.

Mi sembra che Frongia e Angelini, in altri termini, facciano nascere qualcosa che sta molto vicino.

Come
di molti miracoli nei
suoi cantoni e corridoi e piazze,
come essere pronti a gettare le vite
a chi chiede, nell’essere pregni di
immenso spazio e tempo, nell’essere
nello strabordare, nell’essere
adesso pronti a qualunque
morire ridere correre
fare la domanda o
per sempre per sempre restare.

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ph Dorin Mihai

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Audio-conversazione con gli e le interpreti de La Signora delle Camelie di Giovanni Ortoleva

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Martedì 26 novembre è andato in scena al Teatro Giovanni Testori di Forlì, in apertura di Stagione, La Signora delle Camelie, dall’opera di Alexandre Dumas figlio.

Drammaturgia e regia Giovanni Ortoleva, dramaturg Federico Bellini, scene Federico Biancalani, costumi Daniela De Blasio, musica Pietro Guarracino, aiuto regia Marco Santi, con Gabriele Benedetti, Anna Manella, Alberto Marcello, Nika Perrone e Vito Vicino, produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse/ Elsinor/ Tpe-Teatro Piemonte Europa/ Arca Azzurra.

Dopo lo spettacolo abbiamo conversato con le e gli interpreti.

Si è parlato di come si costruisce e tiene vivo il ritmo scenico e del ruolo del dramaturg, di sorprese e difficoltà.

E di quella volta in cui Coco Chanel definì Sarah Bernhardt «un vecchio clown».

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Buon ascolto:

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ph Francesca Tisano

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Carlotta Gargalli, una pittrice dimenticata: la sua storia nel romanzo di Ilaria Chia

Inizio Ottocento, Bologna. Carlotta Gargalli sceglie di fare della pittura la sua professione. Con intraprendenza e tenacia, riuscirà a ritagliarsi un ruolo in un contesto maschile e conservatore, fra Bologna e Roma, riscontrando un certo successo. Soltanto che, purtroppo, la Storia è ancora “fatta dagli uomini” e della Gargalli, fino a poco tempo fa, erano rimaste solo poche tracce.
Così Ilaria Chia, storica dell’arte e scrittrice, ha scelto di non lasciare quest’artista nell’ombra, e dopo anni di studio ne è nato un romanzo dedicato alla vita e alle opere di Carlotta Gargalli, prima donna a frequentare l’Accademia di Belle arti di Bologna.

Dopo L’allieva di Canova (Damster, 2022), è ora in libreria la seconda parte del romanzo, La gallerista di via del Corso. La seconda vita di Carlotta Gargalli (Damster, 2024), che chiude il racconto del complesso percorso di vita della pittrice bolognese, sempre tesa all’affermazione professionale e alla propria emancipazione. 

Come ti sei avvicinata a Carlotta Gargalli e che cosa ti ha affascinato della sua figura?

«Mi sono avvicinata a lei come storica dell’arte – racconta l’autrice Ilaria Chia – e nel 2013 ho pubblicato un piccolo saggio dal titolo Donne professioniste del primo Ottocento, dedicato a tre pittrici bolognesi: Anna Mignani, Anna Maria Crescimbeni e, appunto, Carlotta Gargalli. Il profilo di quest’ultima mi ha subito colpito per alcune particolarità, fra tutte il fatto che sia stata allieva di Canova e una delle pochissime donne a frequentare l’Accademia di Belle Arti. Inoltre, è andata a studiare a Roma per quattro anni grazie a una convenzione dello Stato, una vera e propria eccezione per una donna. Ha avuto poi molto successo all’epoca, tanto che è stata paragonata a Elisabetta Sirani dalla viaggiatrice irlandere Lady Sidney Morgan. Ciò che mi ha colpito maggiormente è quindi il fatto che Carlotta Gargalli abbia avuto una vita e una carriera straordinarie per una donna di primo Ottocento, ma che la storia l’abbia dimenticata». 

Per raccontare la vita e l’arte di Carlotta Gargalli, hai scelto lo stile romanzesco e narrativo. Da cosa deriva questa scelta stilistico-formale? 

«Volevo raccontare la sua personalità e la sua intraprendenza, la sua figura particolarmente contemporanea, perciò la forma romanzesca mi è sembrata più appropriata di quella saggistica. Studiando la biografia di Carlotta Gargalli, infatti, è emerso quanto la sua vita sia stata molto diversa da quella delle donne del tempo. La si potrebbe definire avventurosa, anche per il solo fatto di essersi spostata per due volte a Roma, che all’epoca era paragonabile a un trasferimento all’estero. È stata una personalità moderna, che ha voluto dedicarsi interamente all’arte, pensandola proprio come una professione: si è impegnata tutta la vita per affermarsi come pittrice e come artista al pari di un uomo. Era molto ambiziosa, non si accontentava di piccoli traguardi, voleva studiare e vincere premi al pari dei suoi colleghi. A cinquant’anni poi ha deciso di tornare a Roma e di rimettersi in gioco aprendo un negozio di quadri. Anche nella sua vita privata è stata all’avanguardia, scegliendo per esempio di sposare un uomo più giovane e non ancora affermato, solo per amore. Gargalli per tutta la sua esistenza ha scelto e perseguito dunque l’indipendenza e questo matrimonio non lo ha fatto per convenienza, ma per essere libera».

 

Come hai lavorato quindi per costruire il personaggio? Quanto c’è di vero?

«Mi sono affidata ai documenti che ho raccolto in questi anni di studio presso gli archivi, da quello dell’Accademia di Belle Arti a quello di Stato di Bologna, in cui ho trovato anche un importante carteggio fra lei e il conte Carlo Filippo Aldrovandi. Il romanzo quindi ripercorre le diverse tappe della sua biografia nel modo più fedele possibile, dopo un lungo lavoro di ricerca durato anni. Poi ho cercato di immedesimarmi in lei e di capire la natura delle sue scelte, come il periodo in cui decide di smettere di dipingere. In altre parole, quando la storia per ovvie ragioni non mi veniva incontro, ho provato a interpretare io, a dare delle spiegazioni, a immaginare quali potessero essere i suoi sentimenti. Ho voluto in questo modo dare voce alla personalità di una donna che ha cercato di affermarsi professionalmente come artista in un contesto maschile ed esclusivo. E nella sua storia e nella sua figura è molto facile identificarsi anche oggi: il mondo contemporaneo è ancora molto simile».

In quale Bologna e in quale Roma ha vissuto Gargalli a livello socio-culturale? 

«La sua vita si intreccia con un passaggio storico, l’arrivo delle truppe di Napoleone a Bologna. Da qui si apre un periodo favorevole per le donne, che cominciano ad avere un ruolo diverso nella società: si iniziano infatti a rivendicare alcuni diritti, fra tutti l’indipendenza economica e intellettuale. Cornelia Rossi Marinetti, per esempio, era all’epoca una delle contesse più famose a Bologna e per il suo salotto sono passati importanti personaggi del tempo, da Antonio Canova a Stendhal; oppure molto nota era la salottiera Maria Brizzi Giorgi, sempre a Bologna. Carlotta Gargalli quindi si inserisce in questo momento favorevole e riesce a ritagliarsi un ruolo come artista e pittrice. Tuttavia, dopo il 1815 terminato il periodo napoleonico, la situazione cambia e la restaurazione riporta le donne a un ruolo più tradizionale. Quando infatti si trasferisce nella Roma pontificia fra il 1839 e il 1840, fatica molto a costruirsi uno spazio e un’indipendenza, scontrandosi con un ambiente chiuso e conservatore».

Sembra che la vita di Carlotta Gargalli abbia avuto quindi due fasi. La divisione del romanzo in due volumi è specchio di questi differenti momenti? Cosa si racconta?

«In verità la divisione in due parti nasce per rendere il testo più fruibile, dal momento che è molto lungo. Tuttavia nei due libri si raccontano in effetti due fasi della sua vita diverse: la prima parte è dedicata alla Gargalli giovane, e quindi anche più ingenua, che va incontro alla vita con maggiore slancio; la seconda parte è invece più malinconica e racconta di un suo ripiegamento dopo essersi scontrata con l’amarezza e il disincanto dell’età adulta. Il secondo volume narra infatti anche il momento in cui mette da parte la pittura e cerca di reinventarsi come gallerista. Mentre scrivevo ho pensato che molti si sarebbero potuti immedesimare nel suo percorso, specie in quella scelta di intraprendere una professione che poi può incontrare un cambio di rotta, di settore, una necessità di reinventarsi. Carlotta Gargalli non abbandonerà comunque mai la pittura, la inseguirà per tutta la vita, solo che da uno studio di pittura passerà alla gestione di un negozio di quadri».

A quale pubblico vuoi arrivare?

«Senz’altro mi riferisco a studiosi ed esperti, che hanno dimostrato interesse per quest’opera di riscoperta, tanto che il romanzo ha dato vita a una mostra (realizzata al Museo Ottocento Bologna fra 2023-2024, vedi qui, ndr) e ad altri progetti. Tuttavia il libro mira a far conoscere la figura di Carlotta Gargalli a un pubblico più ampio e differenziato. La storia che racconto è quella di una pittrice, certo, ma anche di una donna ferma sui principi di parità e di uguaglianza di genere, nonostante tutte le difficoltà che incontra. Nel suo percorso ci si può quindi facilmente rispecchiare e riconoscere. Il romanzo è rivolto a tutte quelle persone che hanno una passione a cui cercano di dedicare interamente la loro vita».

Ilaria Chia, autrice de ‘La gallerista di via del Corso. La seconda vita di Carlotta Gargalli’

Attorno al libro, come ricordavi, è stata realizzata a Bologna anche una mostra. Ci sono altri progetti collaterali in programma, oppure stai già lavorando a qualcosa di nuovo?

«Oltre alla mostra è stato realizzato uno spettacolo al Teatro di Villa Mazzacorati con l’Associazione Ottocento APS, un momento rievocativo con danze e musiche dell’epoca, in cui abbiamo raccontato la storia della Gargalli. Si tratta di un appuntamento che mi piacerebbe replicare in altri contesti. Nel frattempo sto continuando a scrivere, al momento sono al lavoro su un altro romanzo, sempre dedicato a una donna e un’artista, per continuare a dar voce a tutte quelle figure femminili rimaste nell’ombra, proseguendo così questo percorso di riscoperta delle artiste dell’Ottocento». 

Animula vagula blandula. Perdersi e ritrovarsi nel centro di Firenze, con i Sentieri di Azul Teatro

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Quello che non puoi nascondere, mettilo in evidenza: così si diceva, nel teatro di una volta.

Quello che non posso nascondere, io, è la mia origine proletaria, l’attitudine sempliciotta, di gente alla buona.

Ecco che, qualche giorno fa, trovarsi tra i «pochi ospiti selezionati» (come si legge in QUESTO ARTICOLO, in cui si posson rintracciare i nomi e le facce) di un evento nel centro di Firenze, a Palazzo Strozzi, è cosa che sposta.

Spaesa.

Richiede prendere in prestito un abito elegante, un cappotto e una borsa di cuoio. E quelli, li ho trovati.

Soprattutto: richiede curiosità per quello che è diverso da me. E quella, per fortuna, non manca.

L’occasione: la presentazione della creazione video realizzata a partire da Sentieri #11, che Azul Teatro ha realizzato nel 2023 al Paradiso dei Conigli, una minuscola vigna sull’Isola del Giglio.

Del progetto appartato e visionario di Serena Gatti e Raffaele Natale ho già scritto QUI.

Ora non mi ripeto.

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Sentieri #11 – ph Lara Leovino

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OCCASIONE DI DIVERTIMENTO

Quel che vorrei sottolineare in queste righe, a partire dalla mia piccola, personale esperienza da ragazzo di campagna (perché alla fine non si può che partire dalla propria piccola, personale esperienza, forse) è la qualità divertente di questa occasione.

Uso questo aggettivo sia nell’accezione comune (quanta allegria, nel travestirsi da persone eleganti, per qualche ora!) sia in quella etimologica del «volgere altrove».

Il primo altrove che questo appuntamento ha attraversato è il dove.

Sentieri, di consueto, accade in luoghi dismessi o abbandonati, solitamente non accessibili.

Trovarsi nel centro di una delle più famose e frequentate città d’arte del mondo, in uno dei Palazzi storici più prestigiosi (sede, com’è noto, di esposizioni dal richiamo nazionale et ultra) fa sì che il Grande Teatro del Mondo, per dirla con Calderón, irrompa nella delicata operazione estetica di Azul, travolgendola.

Snaturandola, qualcuno potrebbe dire. Un po’ come appoggiare un origami in sottilissima carta di riso in mezzo a un’autostrada zeppa di TIR.

Offrendone nuove forme di ricezione significante, qualcun altro potrebbe ribattere: senza quel silenzio attento, finanche quel sensibile svuotamento, che solitamente è la pre-condizione perché Sentieri possa anche solamente iniziare a esistere.

Non è mai da me -e men che meno in questo caso- emetter giudizi sommari.

Molto più proficuo, credo, è dar voce alle domande che questo inedito accostamento ha generato.

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SGUARDO E MATERIA

Le domande di Sentieri, anche in questa inusitata forma, hanno radicalmente a che fare con lo sguardo.

E con la materia.

Problematizzano lo statuto ontologico dell’opera, direbbero quelli che parlano bene.

Ci interrogano su quale sia il punctum, scriverebbe Roland Barthes.

Generano domande su cosa sia l’opera e su come il mio posizionamento la crea, o almeno contribuisce a crearla, penso io.

Una delle caratteristiche peculiari di Sentieri è che la scrittura nello e dello spazio suggerisce punti di attenzione -o fuochi poetici- senza mai imporli: azioni anche minuscole accadono (a volte dietro a un fitto cespuglio o una finestra semichiusa, ad esempio) e, in mancanza di esplicite sottolineature su cosa e quando guardare, è demandata alla temporanea piccola comunità di attenti camminanti la responsabilità dell’incontro con le forme in movimento a cui questi artisti danno avvio.

Al contrario, la scelta delle inquadrature e il successivo montaggio cinematografico non possono non guidare lo sguardo: ora su un dettaglio dello spazio o di un corpo, ora su un largo orizzonte, eccetera.

A monte -o forse di conseguenza- vi è un altro sdoppiamento letteralmente costitutivo.

Le arti sceniche dal vivo, si sa, accadono in un irripetibile qui e ora.

Nel caso di un’architettura dell’impermanenza come Sentieri, tale caratteristica è elevata a progetto, finanche a struttura.

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PRESENZA E MONTAGGIO

Detto altrimenti: l’analisi del rapporto tra questo ciclo di accadimenti e una ancorché puntiforme trasduzione cinematografica può partire dall’osservazione che teatro e cinema sono linguaggi distinti, ciascuno con un proprio sistema di segni e un proprio insieme di codici espressivi.

Sebbene entrambi condividano elementi narrativi, visivi e performativi, la natura dei segni e il modo in cui vengono decodificati dallo spettatore differiscono profondamente.

Il teatro è intrinsecamente un’esperienza dal vivo, costruita sul rapporto diretto tra performer e pubblico, all’interno di un momento unico che esiste solo in quell’istante e non può essere replicato. La dimensione spaziale è vissuta nella sua concretezza: il palcoscenico, ancor più se collocato fuori dai teatri, come appunto accade in Sentieri, è un luogo fisico e simbolico, una cornice in cui ogni gesto, parola e movimento degli attori assume valore comunicativo immediato. Un esempio paradigmatico è il teatro di Bertolt Brecht, che con il suo “effetto di straniamento” rompe la quarta parete per ricordare allo spettatore la natura artificiale dell’evento teatrale, spingendolo a un’analisi critica.

Nel contesto della danza, opere come quelle di Pina Bausch (cito la coreografa tedesca perché mi pare che il sistema di significanti e significati messo in opera da Azul le sia affine) trasformano il corpo umano in un segno complesso che può trasmettere emozioni, narrazioni e concetti astratti. Il teatrodanza (ma io preferisco la definizione danza-teatro) di Bausch -e, mutatis mutandis, di Azul- si nutre della presenza fisica e emotiva degli interpreti, creando una comunicazione diretta che il pubblico percepisce in modo viscerale, o comunque non solo razionale.

Il cinema, al contrario, elimina la dimensione dell’immediatezza a favore di una costruzione mediata. La macchina da presa seleziona, isola e guida l’attenzione dello spettatore attraverso inquadrature, angolazioni e movimenti. Il montaggio, poi, sovverte la continuità spazio-temporale del teatro, creando connessioni e ritmi nuovi.

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Sentieri #11 – ph Stefano Pozzuoli

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UN LINGUAGGIO IBRIDO

Ci sono casi in cui il teatro e il cinema non si limitano a traslarsi l’uno nell’altro, ma si contaminano. Un esempio è il lavoro di Robert Wilson, regista teatrale che incorpora nelle sue opere elementi visivi e ritmi cinematografici, creando un’estetica visivamente spettacolare che rompe i confini tra teatro e film.

Allo stesso modo Peter Brook, con il suo film Marat/Sade (1967), utilizza la macchina da presa non solo per registrare l’opera teatrale, ma per rielaborarla, sfruttando il linguaggio cinematografico per enfatizzare i conflitti interni dei personaggi e il dinamismo della scena.

Questo è, mi sembra, ciò che facciano -per via evocativa più che descrittiva- gli espedienti della trasduzione filmica di Sentieri #11 (in primis attraverso l’utilizzo di alcuni droni, con spettacolari riprese dall’alto e fulminei movimenti di macchina).

La danza offre un esempio ancora più chiaro di questa dialettica.

Nel film Pina di Wim Wenders (2011), le coreografie di Pina Bausch, pensate per il teatro, vengono traslate nel linguaggio cinematografico attraverso l’uso del 3D, che trasmette la profondità spaziale e la fisicità del linguaggio coreutico.

In questo caso, come in quello, il film pare non limitarsi a registrare l’opera originale, ma ne esplora nuove potenzialità espressive, facendo del cinema un’estensione del linguaggio teatrale.

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INFINE. O DAL PRINCIPIO

Animula vagula  blandula
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca

«Animuccia vagabonda, leggiadra / ospite e compagna del corpo / In quali luoghi andrai ora»: la monca traduzione di questi celeberrimi versi mi aiuta a suggerire (non certo a definire) la prima e ultima domanda che quest’arte -come forse ogni Arte, quando è tale- pone.

Una interrogazione senza fine sulla complementarità di vita e morte, di biologie e di ciò che è altro dalle biologie, di linguaggio e di ciò che qualsiasi linguaggio non può significare, nonostante la piena sincerità, la totale dedizione di un autore, di un’autrice.

«L’infinito inizia qui»: il materiale filmico incontrato a Palazzo Strozzi comincia con un sorvolo, un puntiforme baluginare in bianco e nero che solo dopo un po’ si scopre essere mare.

Affiorano i meditabondi versi di Serena Gatti, la sua voce antica, su un tappeto d’archi dolenti.

Sembra un passaggio di un precedente capolavoro di Wenders, Il cielo sopra Berlino, con gli angeli incappottati che osservano e poi si slanciano nella vertiginosa impresa del ricordare, del nominare.

Invisibili e al contempo carnosi, presentissimi ma impalpabili, qui e non qui, come in una delocazione di Claudio Parmiggiani: come fantasmi, testimoni di qualcosa che ci trascende.

Questo l’Arte ci ha incoraggiato a fare, nel centro di Firenze.

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Claudio Parmiggiani, Delocazione, 1970

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Ridi, piangi, ti ecciti: la vita anno per anno

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Vista cinicamente la vita non è che un ammasso di tempo al quale, per convenzioni sociali, diamo delle scadenze, degli step, degli scarti, per ammorbidire meglio questo gioco dell’Oca nel quale prima abbiamo fretta di bruciare le tappe e poi vorremmo che gli anni, i mesi, le ore e i minuti si fermassero, si cristallizzassero in una impossibile eternità. Titolo quasi ungarettiano quello di Alessio Genchi e Innocenzo Capriuoli che con quattro parole folgorano l’esistenza, riducendola a poche azioni che poi, in definitiva, sono quelle che danno senso al tutto: la risata come i giorni felici (non beckettiani), le lacrime come i piccoli e grandi traumi che la vita ci pone davanti e che ci ricordiamo come scoglio, come ostacolo ma anche come rinascita, l’eccitazione che è il motore e il fuoco del piacere, del sesso, della scoperta di sé e dell’altro, le relazioni umane, gli scambi di umori che ci fanno sobbalzare il cuore, che ci fanno penare e sentire al settimo cielo come sprofondare sotto la Fossa delle Marianne. Ecco la fotografia, Ridi, Piangi, Ti ecciti (prod. Teatri di Vita; visto al Teatro Goldoni di Firenze), come a dire: Sta tutto qua? Sì, al netto di yoga, karma, reincarnazioni, religioni e soprattutto di quello che potrebbe esserci in una possibile, eventuale vita nell’Aldilà, sì, sta tutto qua questi ottant’anni (se va tutto bene tra incidenti di percorso e malattie) che a volte sembrano non passare mai e in altri momenti sfuggono dalle dita lasciandoci l’amaro in bocca per quello che non abbiamo fatto e per quello che non abbiamo detto. Ormai gli anni sulla nostra carta d’identità li misuriamo con le cose che abbiamo fatto: le relazioni, lo stipendio, il lavoro, i fidanzati, i viaggi, come se un accumulo più grande e più corposo, paragonandolo rispetto agli altri nostri simili e vicini, identificasse una vita più piena e vissuta meglio. E’ la foga del consumismo che tutto vuole mordere ma che non ha tempo di assaporare, è lo shock e la ferita dell’esperienza che ci porta a fare cose in serie per non pensare alle cose veramente serie. Dopotutto anche Calvino diceva che la vita degli uomini era quella storia di sangue e corpi nudi.

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Questo RPTE ci ha ricordato da una parte un Benjamin Button al contrario, ovvero progressivo, dall’altro Storia di un corpo di Daniel Pennac con la scansione, condivisibile e plausibile, dello scorrere inesorabile, foscoliano, delle rughe, della crescita come del deperimento, e ad ogni sosta e fermata di questa Via Crucis un accadimento che cambia le prospettive, che fa mutare la direzione, fa prendere nuove strade. Come a Monopoly gli imprevisti e le opportunità. Ed ogni possibilità sul momento ci sembra un avanzamento, un miglioramento perché nel nostro sistema capitalistico lo stare fermi è già una sconfitta mentre ogni piccola rivoluzione per noi è fonte di una stucchevole, banale, frivola esaltazione perché pensiamo sempre che si apriranno chissà quali portoni, illudendoci, esorcizzando così la paura dello stallo. Che se non siamo presi dal fare mille azioni, se non ci sentiamo nel vortice allora ci resta troppo tempo libero per noi stessi che dovremmo dedicare non alle cose da fare ma alle domande a cui pensare. Molto meglio avere piccoli, grandi obbiettivi (spesso imposti socialmente e nei quali non crediamo ma che perpetriamo con poca convinzione), piccole vittorie, che una volta ottenute si sgonfiano di senso, grandi fallimenti che ci ingrigiscono, ci rattristano, ci deludono. Anche le disfatte e le sconfitte fanno parte di questa catena di montaggio perché ogni tanto l’uomo moderno contemporaneo occidentale ha il disperato bisogno di cadere, di toccare il fondo: è il suo modo per voltare pagina e riemergere, nutrirsi di nuove energie chiudendo vecchi capitoli e chiamando il tutto rinascita. L’uomo per sentirsi nuovo ha la necessità di chiudere parentesi con la nuova allucinazione e abbaglio che domani sarà tutto diverso, che sarà tutto migliore. La vita è una cosa spiacevole e io mi sono proposto di passare la mia a rifletterci sopra, filosofeggiava Schopenhauer.

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Genchi e Capriuoli, con una recitazione frontale e sfrontata (ci hanno ricordato Gli Omini come i Sotterraneo, ma anche tanti altri giovani gruppi di qualche stagione fa), hanno energia da vendere, carisma, forza, freschezza e cazzimma, oltre a una grande amalgama, unione, chimica ed empatia, pronti sul palco a non perdere il ritmo e il rap, base fondamentale di questo spettacolo, agili in platea a confrontarsi con il pubblico, tenerlo, lasciandosi trasportare con ironia e tenacia. Mentre gli anni scorrono, cadenzati, è impossibile non ritrovarsi nelle loro parole, non immedesimarci nelle nostre tenerezze, nei nostri errori, nelle nostre stupide credenze perché a vent’anni pensiamo di aver capito il mondo e a trenta ci accorgiamo di come eravamo ingenui dieci anni prima, e a quaranta sorridiamo dei nostri trenta e a cinquanta ci diciamo che dieci anni prima potevamo vivercela con più tranquillità, e a sessanta che il meglio forse è già passato e a settanta che tutto era o poteva essere vissuto in maniera più semplice e facile. La distinzione è vedere il naufragio dalla riva, di leopardiana memoria, o stare con la propria zattera al centro nell’occhio dell’uragano. Quando dopo, a posteriori, sai che ce l’hai fatta, che l’hai scampata, anche le esperienze più brutte diventano motivo di orgoglio e felicità proprio perché passate, affrontate e vinte, quando invece le stai vivendo, o peggio subendo, non hai la percezione che quel drammatico e tremendo e tragico attimo possa mai finire e concludersi. Ridi, piangi, ti ecciti è un gioiellino scenico scoppiettante e una bussola e caleidoscopio che ci indica, in modo realistico e nazional-popolare, dove stiamo andando, che cosa abbiamo vissuto e che, soprattutto, non siamo quegli esseri speciali e unici che abbiamo creduto di essere guardandoci allo specchio, ma che facciamo, tutti, chi prima chi poi, le stesse cose con le stesse modalità, dal lavoro ai figli, dal matrimonio al divorzio, pensando pure di essere originali. Purtroppo siamo piatti e monotoni e la vita è un soffio e un respiro che vola via e gli anni saranno sempre pochi. Il trucco sta nel non contarli ma di cercare di stare bene nella complicata guerriglia di ogni giorno. Il nostro nemico più grande è la noia non la morte. Il punto non è il verbo avere ma il verbo essere. Vivi ora ciò che altri sognano di vivere nel futuro, scriveva Paulo Coelho.

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Visto da noi: Ti vedo. La leggenda del basilisco di Emanuela Dall’Aglio

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Ne Le cronache di Narnia è un armadio guardaroba a contenere un intero mondo incantato. Nel teatro di Emanuela Dall’Aglio è un singolo capo d’abbigliamento.

In più di uno dei suoi spettacoli di teatro ragazzi, infatti, l’artista costruisce una storia tutto attorno (e dentro) ad un’ampia gonna, alta e robusta come una piccola capanna, che viene “abitata” da oggetti e da personaggi (umani e pupazzi). È il caso anche dello spettacolo Ti vedo. La leggenda del basilisco, che ho visto al Teatro Testori, all’interno della rassegna di teatro ragazzi Le domeniche per le famiglie.

Ti vedo. La leggenda del basilisco racconta la genesi di questo mostro, poco conosciuto nell’immaginario moderno.

Del basilisco, nella storia, sono state date diverse descrizioni. In questo racconto non è semplicemente il serpentone che si vede in Harry Potter e la Camera dei Segreti, ma è un mostro a metà strada tra il gallo e il rettile (infatti nasce da un uovo di gallo covato per nove anni da un rospo), dotato di un potere che rappresenta più una maledizione che un dono: la capacità di trasformare in pietra coloro che incrociano il suo sguardo.

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La simbologia legata a questa creatura, che ha profonde radici nel mondo alchemico, la lega al concetto di trasformazione, intesa come processo di purificazione a partire da uno stato infimo (come è quello del serpente). Sconfiggere il basilisco è possibile soltanto grazie ad uno specchio. Dunque, bisogna guardarsi dentro, scavare nel proprio inconscio e raggiungere una piena consapevolezza di sé.

Nello spettacolo di Emanuela Dall’Aglio è centrale il tema dello scavo, del risveglio, dello specchio.

Infatti, poco dopo essere nato, il basilisco si addormenta in una falda, sottoterra. Viene risvegliato molto tempo dopo quando gli uomini scavano un pozzo e costruiscono attorno ad esso una città, arroccata come un rosso presepio napoletano sulle pareti della grande gonna-scenografia. Sotto alla stoffa di questa gonna-città si vede brillare il mostro, simile alle creature luminescenti di Avatar. Una volta che questo si risveglia, la vita della città si interrompe. I negozi chiudono i battenti. La gente si barrica in casa. Nessuno può uscire. Una situazione che riecheggia vividamente la recente realtà del Covid.

È proprio in questa situazione che compare un nuovo personaggio, un bambino, Siro, che si annoia e immagina la battaglia tra l’esercito della città e il basilisco, mostrata con la tecnica del teatro d’ombra, come un sogno che si apre nel racconto teatrale.

Siro decide di uscire di casa e affrontare lui stesso il mostro. Ma scopre che il basilisco non è troppo dissimile da lui. Infatti i due intrecciano un gioco fatto di gesti imitati e ripetuti, come in uno specchio, per tornare al tema sopracitato.

Purtroppo “Power Siro” (auto-soprannominatosi così) finisce per essere pietrificato, per sbaglio, dal basilisco e, solo in questo momento, il mostro si rivela essere il vero protagonista della storia. È colui che vive il dramma di non poter avere relazioni, di non essere compatibile con il resto del mondo.

Appare evidente come ad Emanuela Dall’Aglio interessi soprattutto mettere al centro la figura del mostro, maledetto da un potere che lo rende una minaccia, costretto per natura a compiere il male, per indagarne il dramma.

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Nella sinossi dello spettacolo viene citata una frase di Natalie Haynes, attrice comica e saggista, in cui viene detto che i mostri sono coloro che non possono essere salvati, e si propone, per una volta, di provare ad immaginarli nel ruolo degli eroi.

Lo spettacolo invita proprio ad assumere questa prospettiva e a concentrarsi, nonostante la presenza di moltissimi personaggi, sul basilisco, che sovrasta tutti con la sua presenza ingombrante e, spesso, luminosa.

Il “Ti vedo” che compare nel titolo è l’invito dell’autrice a guardare negli occhi il mostro, a comprendere il male. Ma è anche la prospettiva che fa da cornice a tutta la storia narrata.

Ad introdurre il racconto, infatti, sono due “scienziati della fiaba” che, con tutto un campionario di cimeli reperiti da più di una storia, sono alla ricerca dell’antidoto al potere del basilisco, e per averlo assistono allo svolgersi della storia.

Sono gli unici due personaggi che si muovono fuori dalla grande gonna e, proprio per questo, appaiono come satelliti, la cui rotta è seguita solo per un certo tratto (non scopriamo mai come va a finire la loro ricerca).

Il linguaggio della narrazione abbonda di personaggi meta narrativi. I due scienziati sopra citati, che dialogano direttamente con il pubblico e assistono alla fiaba da spettatori. Ma anche una narratrice, che emerge dalla gonna, facendo da voce narrante ad alcune parti della storia. Quando il potere del basilisco comincia a manifestarsi, la si vede cercare di comunicare con gli abitanti della città, per avvertirli, finché riesce a rompere la parete tra lei e loro ed entrare in dialogo con uno di essi.

Ti vedo. La leggenda del basilisco è uno spettacolo che trabocca di elementi e temi, proprio come la gonna trabocca di oggetti, luoghi, personaggi.

Lo sguardo a volte si perde a seguire uno o l’altro, raffigurati ciascuno nel proprio mondo: la strega che fa nascere il basilisco nel suo antro; il ragazzino Siro nella quiete domestica della sua casa; i due scienziati col loro campionario portatile…

Tuttavia la meravigliosa apparizione del basilisco, voluminoso e spettacolare, riporta l’occhio e l’attenzione dello spettatore alla vicenda centrale, al tema dello sguardo e del confronto, al dramma del mostro. E l’immagine finale è proprio quella del basilisco, finalmente perdonato, libero dal male che ha fatto, in grado di tornare a volare.

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Carmelo Bene – Un film di Clemente Tafuri

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C’è una specie di ‘assordante’ silenzio che avvolge non tanto il ricordo di Carmelo Bene, quanto il suo lascito artistico ed estetico, quella che in termine inglese si definisce la legacy che non è solo una eredità quanto un compito affidato e da rinnovare costantemente, anche da chi come lui non ha allievi e discepoli.

Bene ha fatto dunque Clemente Tafuri, e il suo Teatro Akropolis di Genova che da anni è dentro la ‘ricerca’ teatrale, non solo promuovendola ma anche creativamente praticandola come in una serra protetta dal furioso andare delle stagioni dell’oggi, a prendere a oggetto/soggetto del suo ultimo film questa figura singolare e solitaria (ma profondamente implicata in tutti quelli che sono il “Teatro”), simile in un certo qual modo allo scandaloso Antonin Artaud, che respingendo e ferendo  in fondo, e soprattutto, crudelmente ‘amava’.

Così custodendo al suo interno un aspetto necessariamente e felicemente (in senso latamente nicciano) storico e documentario, costruito in particolare sulle poche “Teche” RAI disponibili, il film cerca e struttura di Carmelo Bene una interpretazione complessiva, o meglio cerca di dare una ‘idea’ di Carmelo Bene, quella che è, appunto, in quel lascito.

Lo fa accostando i lacerti accessibili delle sue parole come le tessere di un mosaico da decifrare (o anche di un puzzle da comporre) per verificarne un filo che, tra le mille forme e anche i mille enigmi, talora ‘provocatori’, con cui Bene infarciva, per meglio custodirle e renderle quasi ‘insensibili’ al tempo, le sue ‘intuizioni’, i quali enigmi come in Artuad, apparivano a prima vista ‘dinieghi’ e respingimenti essendo in realtà volenterosamente accoglienti.

Utilizza, in questo e con efficacia, l’amalgama di immagini dell’attualità del suo (di Clemente Tafuri intendo) teatro, lampi di un presente che sembra non potere esistere senza quel passato, così recente ancora ma già così allontanato da un ‘sistema’ di pensiero e azione che sembra sempre, e subito, girarsi per guardare ‘altrove’.

Documentario o fiction, ovvero come si direbbe nei tempi corrente biopic, sono definizioni non necessarie e anche limitanti per questo racconto cinematografico in cui il protagonista è come il prodotto di una fusione da un calco costruito sui molti interlocutori che l’hanno circondato in vita, e a cui il suo sguardo tagliente si rivolge spesso quasi sfrontatamente supplice nel desiderio doloroso di essere capito.

Un bella narrazione, per concludere, ulteriore tassello del ciclo di film prodotto da Akropolis La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro, che, visto il titolo, non poteva che prima o poi ospitarlo, presentato in anteprima sabato 16 novembre al Teatro Akropolis di Genova Sestri Ponente, nell’ambito dell’annuale bel Festival della Compagnia Akropolis Testimonianze Ricerca Azioni, con molta partecipazione.

Ci auguriamo possa molto circolare, nelle sale, nei teatri o, perché no, nelle scuole, anche ad alimentare il sistema sanguigno di un teatro italiano molto propenso, anche per convenienza, a ‘dimenticare’ dopo aver ‘divorato’ come Saturno i suoi figli migliori.

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CARMELO BENE. Regia: Clemente Tafuri. Con: Valentina Beotti, Margherita Fabbri, Daniela Paola Rossi. Fotografia e montaggio: Clemente Tafuri, Luca Donatiello, Alessandro Romi. Riprese e audio: Luca Donatiello, Alessandro Romi. Produzione: Teatro Akropolis, AkropolisLibri

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Visto da noi: Les misérables – The Arena Musical Spectacular

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Andato in scena per la prima volta a Londra nel 1985, approda finalmente anche in Italia sotto forma di concerto, un’opera che ha ormai del leggendario, vista la longevità e il successo riscontrato a livello planetario. Basato sull’omonimo romanzo di Victor Hugo, il musical vide la luce in Francia, nel 1980, con musiche di Claude-Michel Schonberg e testi di Alain Boublil e Jean-Marc Natel. Il produttore Cameron Mackintosh ne fece una versione inglese, nell’adattamento di Trevor Nunn e John Caird, rivedendo completamento testi e orchestrazione. Ne nacque un musical colossale (è stato rappresentato in 53 paesi e tradotto in 22 lingue), che avrebbe conquistato i palchi di tutto il mondo, raccogliendo numerosi premi e riconoscimenti.

Due atti, tre ore di concerto (incluso l’intervallo) per condensare nel linguaggio universale della musica, il racconto di vicende ambientate da Hugo nella Francia dell’Ottocento (su un arco temporale che va dal 1815 all’insurrezione repubblicana di Parigi del 1832). L’imponenza del musical rende omaggio a uno dei capolavori immortali della letteratura universale e testimonia, ancora una volta, la forza dirompente e inscalfibile dei classici. Seguiamo le vicende del protagonista, Jean Valjean in una epica lotta contro i soprusi storici subìti da sempre da quelli come lui, umiliati e offesi, poveri, cenciosi e senza un avvenire, schiacciati dalle prevaricazioni ma dall’animo infinitamente gentile, capace di grandi slanci e sacrifici. Miserabili pronti a diventare eroi sulle barricate combattendo a petto nudo contro l’oppressione. Valjean, condannato a 19 anni di carcere per aver rubato un tozzo di pane, è il personaggio simbolo di questi miserabili, uomo in fondo buono, onesto e generoso che la legge (personificata dall’implacabile Javert) schiaccia sotto l’immane e ottuso peso di una condanna del tutto sproporzionata rispetto al reato commesso. E come non pensare alle ingiustizie inflitte ancora oggi a tante persone inermi che la legge, invece di difendere, continua a umiliare. Una condanna e una critica sociale quelle che scaturiscono dalla penna di Hugo e dalle musiche che oggi ascoltiamo nelle nostre comode poltrone a teatro ma che devono continuare a far riflettere.

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ph Michael Le Poer Trench

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Le due parole d’ordine di questo allestimento sono musica e spettacolarità. La musica dal vivo dell’orchestra diretta da Brian Eads arriva da un piano sopraelevato che domina tutto il palcoscenico (e nello stesso tempo rimane quasi nascosta alla vista) e non dalla buca come nell’opera lirica ma ironicamente, dal cantato ci giunge l’ammiccante rassicurazione che “è meglio che all’opera”. In effetti, la particolarità che rende unico questo genere di spettacolo è la condensazione di tanti linguaggi diversi in un unico grande show: musical, opera, teatro, concerto. Se è vero che le interazioni tra i personaggi sono ridotte all’osso perché il format proposto è quello concertistico, semi-scenico, i costumi originali, le luci, il design video integrato, la musica e le voci dirompenti generano un’alchimia di grande impatto. I cantanti e il coro sono quasi sempre sul palco, seduti dietro ai protagonisti che si avvicendano ai microfoni con asta fissati in proscenio. Una passerella che si incunea nella platea assicura momenti di grande partecipazione emotiva del pubblico. Non ci sono dialoghi in prosa (i dialoghi sono eseguiti in stile recitativo); tutto è concepito per esaltare le capacità canore dei cantanti, davvero strepitosi, e la maestosità del coro, senza tralasciare numeri da cabaret e momenti comici come quelli dei perfidi e irriverenti locandieri Thénardier interpretati dall’irresistibile duo Linzi Hateley/Gavin Lee. Di indiscussa bravura tutto il cast, anche se spiccano su tutti Killian Donnelly (Jean Vealjan), Bradley Jaden (Javert), Channah Hewitt (Fantine), Nathania Ong (Éponine). Perfettamente calati nella parte anche i bambini che interpretano la piccola Cosette e soprattutto l’indimenticabile Gavroche. Le vocalità sono eccezionali con accenti inglesi diversificati e la sovratitolazione in italiano è assicurata da due pannelli posti alle estremità del palco. Non ci sono cambi di scena ma un’unica poderosa struttura a simboleggiare le barricate di Parigi o altre ambientazioni. Una selva di americane e di potentissimi proiettori crea un’immersione visiva totale e la scena della battaglia alle barricate è resa – è proprio il caso di dirlo – in maniera spettacolare con effetti sonori e visivi altamente cinematografici.

Un successo incontenibile di una produzione “monstre” che al TAM si conclude con un meritatissimo standing ovation.

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ph Danny Kaan

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Visto al Teatro Arcimboldi di Milano il 21/11/2024 

Les Misérables – The Arena Musical Spectacular
basato sul romanzo di Victor Hugo
Musiche Claude-Michel Schonberg
Testi Herbert Kretzmer

Libretto originale Alain Boublil & Jean-Marc Natel
Orchestra diretta da Brian Eads
Regia James Powell, Jean Pierre Van Der Spuy
Prodotto da Cameron Mackintosh & Nick Grace Management

con
Killian Donnelly – Jean Valjean
Bradley Jaden – Javert
Jeremy Secomb – il Vescovo di Digne
Channah Hewitt – Fantine
Gavin Lee – Thénardier
Linzi Hateley – Madame Thénardier
Nathania Ong – Éponine
Beatrice Penny-Touré – Cosette
James D. Gish – Enjolras
Jac Yarrow – Marius

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