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Del Re dalle uova d’oro rimane solo la gallina. Recensione di Re Chicchinella di Emma Dante

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Saremo superficiali se dicessimo che quest’ultimo spettacolo di Emma Dante sia poco riuscito o, peggio, che non funzioni. Saremmo falsi e faziosi. Da anni però abbiamo assistito alla santificazione della regista palermitana, sicuramente talentuosa tra teatro, opera e cinema, per la quale il pubblico, ad ogni latitudine, ha una vera e propria adorazione e venerazione urlando al capolavoro o al genio ancora prima che si apra il sipario. Possiamo dire che questo Re Chicchinella, ancora tratto dalle favole nere di Giambattista Basile (Dopo il buono La scortecata e il meno intenso Pupo di zucchero) ha un bellissimo impianto coreografico, estetico, formale fatto di grandi quadri incorniciati da costumi, luci e un paio di trovate (la croce blu elettrica e l’epifania della gallina finale) che remano all’unisono per confezionare un prodotto, d’altissima qualità s’intende (la Città del Teatro di Cascina diretta da Cira Santoro era stracolma e questo è assolutamente un bene per tutto il teatro), tecnicamente perfetto, accurato, preciso, dettagliato. La critica che abbiamo sollevato più volte riguardo ad alcuni lavori della Dante (altri invece ci sono rimasti tatuati sulla pelle come Vita mia, Carnezzeria, Mishelle di Sant’Oliva, Il festino o i recenti Le sorelle Macaluso e Misericordia) non è certamente una mancanza di profondità ma in qualche modo notiamo un innamorarsi di una immagine, di una visione artistica, di un affresco colorato perfetto nel suo colpo d’insieme, talmente compiuto da mancarci quella sporcatura che è inevitabilmente parte integrante della vita, di quelle esistenze laterali e periferiche che l’autrice ci ha insegnato ad apprezzare attraverso le sue drammaturgie crude e senza sconti. Scene dove la tecnica sopravanza il cuore, dove l’occhio vince sul contenuto.

 

 

Qual è la parabola, la metafora di Re Chicchinella? Un regnante dentro il quale, come un verme solitario, come una tenia o come un tumore, si installa un virus che ha le sembianze di una gallina che, una volta entratagli dentro l’orifizio meno nobile, con grandi dolori per l’evacuazione, gli regala uova d’oro, gemme pregiate per le quali non può gioire per i tormenti lancinanti che questo gli provoca e procura. Il sovrano, incastrato in questo incantesimo senza soluzione, forse punito perché avido e avaro, non potrà godersi la ricchezza derivante dalle sue defecazioni auree come era capitato a Re Mida che trasformava tutto quello che toccava in oro compreso però i cibi solidi e i liquidi e quindi impossibilitato ad alimentarsi. Chicchinella invece autonomamente non vorrebbe mangiare anoressicamente per non subire i travagli intestinali per le sofferenze della produzione ed espulsione del maledetto uovo di metallo prezioso. E’ la corte che lo vuole stimolare e invogliare con pranzi luculliani e pantagruelici ad ingerire qualcosa per poi avere il lauto lascito dell’uovo. La corte, che è composta da una dozzina di danzatori che hanno costumi con grandi cosce tornite da polli ingrassati da batteria, gli sta attorno quasi asfissiandolo con la loro costante presenza invasiva e invadente.

 

 

Interessante, misteriosa e ancora da decifrare, l’aver usato ad inizio rappresentazione la Passacaglia cantata in versione barocca per poi, dopo l’evoluzione scenica, farci ascoltare quella originale di Franco Battiato, intervallando le due canzoni da l’aria Lascia ch’io pianga sempre scenograficamente malinconica. In definitiva il lungo piano sequenza di Re Chicchinella (Carmine Maringola super in tutù di piume nere luttuose, sempre iconico attore di culto)  ci porta dal pranzo trionfante (il gioco con le tazzine ci ha ricordato Thanks for Vaselina di Carrozzeria Orfeo) alla morte (ci è venuto alla mente Pinocchio o la tragica fine di Natale in Casa Cupiello). Ricercando un senso intimo e ultimo del testo possiamo trovare un paio di parallelismi, con L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello, dove il fiore era un cancro o ancora con Prometeo che Zeus incatenò per aver dato il fuoco agli uomini con l’atroce punizione di farsi mangiare ogni giorno il fegato da un’aquila, organo che gli ricresceva ogni notte e che puntualmente il rapace tornava a cibarsi quotidianamente. Ma abbiamo visto un’analogia anche con la tesi che Vitaliano Trevisan descrisse nel suo Una notte in Tunisia (con un magistrale Alessandro Haber sul palco) dove lo stivale dell’Italia veniva paragonato al piede di Craxi, arto con una piaga a rischio amputazione. Il geniale scrittore veneto nella sua disamina ci spiegava come, in alcuni gravi casi, l’estirpazione del tumore non porti alla salvezza del paziente ma anzi alla sua dipartita, così come asportare la corruzione e la malavita endemica dal nostro Bel Paese significava la morte stessa della nazione. Del Re, con il quale durante l’ora della recita abbiamo instaurato un’empatia viscerale, alla fine rimarrà soltanto la gallina (vera, viva) come a dire che si è salvato sineddoticamente la parte per il tutto. Piacevole, fruibile, godibile senza che nessuno si sia scartavetrato l’anima. Borghese, senza dare a questo aggettivo alcuna connotazione nefasta.

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Muna Mussie/Massimo Carozzi CRUNA. Allo spazio RAUM, Bologna

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Lunedi 8 aprile 2024 alle 21.00 Xing presenta nella sua sede di Bologna, Raum, il record launch del nuovo LP Curva Cieca Oblio  ኩርቫ ዕውር  ምርሳዕ di Muna Mussie Massimo Carozzi, dodicesima uscita di XONG collection – dischi d’artista. Il disco esce su vinile bianco, in edizione limitata e numerata di 150 copie, assieme ad una tiratura di 15 collector’s edition, accompagnate ciascuna da un multiplo: una busta di tessuto nero che contiene le parole ricamate in filo dorato del testo del brano Cieca.

Gli autori hanno pensato per l’occasione uno spazio che dialoga con perimetri provenienti dalla pratica tessile/visiva e l’ascolto di una geometria sonora in penombra.

Curva Cieca Oblio  ኩርቫ ዕውር  ምርሳዕ nasce dalla collaborazione tra due artisti i cui percorsi si sono intrecciati molte volte nel corso di venti anni. Il lavoro di Muna Mussie, che indaga i linguaggi delle visual e performing arts, per questa creazione su disco si estende ed entra in dialogo fusionale con la visione sonora rigorosa e prismatica di Massimo Carozzi, anche lui esploratore delle relazioni tra diversi linguaggi.
Composto di tre parti – Curva, Cieca e Oblio – il lavoro parte da una ricerca sul concetto di oblio collettivo e personale. I riferimenti alla memoria tramite l’arte tessile e il ricamo come strumenti artistici, evidenziano il visibile, l’invisibile e il tattile. Il disco si apre con Cieca, come illusione sonora di qualunque progresso. Cieca si muove alla cieca all’interno della grammatica di un testo avverso e i continui inciampi ne demoliscono il significato richiamando all’orecchio una sorta di freestyle, una break dance della parola che introduce ad un piano ritmico con senso e forma proprie. Cieca è il filo elastico tra i due pezzi successivi, Curva e Oblio, una trazione tra i differenti codici e pratiche che hanno accompagnato la produzione di questo oggetto sonoro. Curva è costruita sulla fusione di un frammento prelevato da un brano di musica Tigrinya con il ritmo meccanico di una macchina da cucire. Questa omofonia ritmica si sviluppa fra asincronie e coincidenze, integrate da voci campionate all’interno di un baobab-chiesa durante una cerimonia Copta Eritrea. Il brano si risolve in maniera circolare, sostenuto da una linea di basso pulsante e articolato da un pattern di chitarra poliritmico. Curva cerca nella ripetizione di catturare e puntare a ciò che sfugge e contemporaneamente incalza, di tracciare delle cuciture nomadiche, dei segni distintivi o dei meticciati, manifestati solo nell’attimo sincopato e singhiozzante del tempo. “La stratificazioni di riti e oggetti lontani, si staglia nello spazio al presente, per ricordarci un ricordo, o per obliarci l’oblio”. La lunga apnea di Oblio nasce a partire da un’azione, un rituale collettivo, dove una parete in tessuto è il quadro sul quale a cucire sono le voci e le mani nude dei partecipanti. Si parte dalla parola OBLIO detta, scritta, vocalizzata, ricamata, lamentata tramite un passaparola che nel suo ripetersi costante, diventa il corpo di una composizione sonora. Per la versione di Oblio incisa su disco, i performer sono stati registrati in tempi differenti, fornendo i materiali successivamente organizzati in una composizione basata su una collezione di iterazioni sulle quali si incrociano varie parti selezionate dalle improvvisazioni vocali. Le scansioni così ottenute rivelano gli incastri armonici delle voci, e si reggono su delle soluzioni compositive che ristrutturano frammenti vocali scollegati, in un’idea di ricostruzione di un respiro collettivo. Curva, Curva Cieca, Oblio sono anche i titoli di diverse performance di Muna Mussie realizzate tra il 2019 e il 2023.

Muna Mussie, artista multidisciplinare basata a Bologna. Il suo lavoro si muove tra gesto, visione e parola, attraversato dalla pratica del ricamo, e indaga i linguaggi delle arti per dare forma alla tensione che scaturisce tra differenti poli espressivi, privato e pubblico, memoria e oblio, visibile e invisibile. Tra le performance e installazioni recenti: The Perfect Human from Sunrise to Sunshine (2023), Oblio/Pianto del Muro (2022), PERSONA (2022), FÒRO FÓRO (2022) Bientôt l’été (2021), PF DJ (2021), Oblio (2021), Curva Cieca (2021), Curva (2019), Oasi (2018), Milite Ignoto (2015). Tra le mostre si segnalano: ዳና ቦሎኛ | بولونیا شارع | Bologna St. 173 (2021-2023), Punteggiatura (2018). Il suo lavoro è stato presentato ad Art Fall/PAC Ferrara, Xing Raum e Live Arts Week Bologna, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Torino, Museo Marino Marini Firenze, Workspace Brussels, Kaaitheater Brussels, MAMbo Bologna, ArteFiera Bologna, HangarBicocca Milano, Museion Bolzano, Short Theatre Roma, SAVVY Contemporary Berlin, Mattatoio Roma, Black History Month Florence, Villa Romana Firenze, Mucem Marsiglia, MAXXI L’Aquila, OGR Torino. Ha pubblicato il disco Curva Cieca Oblio ኩርቫ ዕውር ምርሳዕ in collaborazione con Massimo Carozzi (Xong collection – dischi d’artista, Xing 2023). Muna Mussie è tra i vincitori del bando Italian Council (2022) del MiC.
www.munamussie.com

Massimo Carozzi, artista sonoro, musicista e sound designer basato a Bologna, esplora la relazione fra suono e immagine, suono e scena, suono e letteratura, suono e spazio. E’ autore di documentari e cartografie sonore, e si è occupato del sound design di numerosi film, documentari, spettacoli teatrali e di danza, collaborando con scrittori, registi, coreografi, artisti visivi. Nel 2000 con Anna Rispoli e Anna de Manincor fonda ZimmerFrei, con cui partecipa a mostre collettive e personali, festival cinematografici, musicali e teatrali, in Italia e all’estero. Ha partecipato a diversi progetti musicali e sonori fra cui: El Muniria, Weight And Treble, Auriga, Phonorama, Auna. Ha collaborato, in studio e dal vivo, con diversi musicisti e artisti fra cui Starfuckers/Sinistri, Massimo Volume, 3/4HadBeenEliminated, Andrea Belfi, Stefano Pilia, Valerio Tricoli, Dominique Vaccaro, Emidio Clementi, Margareth Kammerer, Susanna La Polla De Giovanni, Muna Mussie. Ha pubblicato dischi per Random Numbers, Second Sleep, Yerevan Tapes, Xing.
www.zimmerfrei.co.it   www.cameralibera.bandcamp.com

Xong è il nome della collana di dischi d’artista, prodotta da Xing, di personalità – italiane e non – legate al variegato mondo della performatività. La collana esplora e traccia una geografia di artisti che intendono il campo sonico come una delle piattaforme in cui espandere i loro mondi e la loro immaginazione. “Lo spazio del disco” è la scena su cui focalizzare e amplificare la propria poetica come fenomeno sonico e fisico, lo spazio da performare. Gli artisti che Xing ha coinvolto in questo progetto praticano di fatto e da sempre la transmedialità. Xong è un progetto unico nel suo genere che disegna nuovi contorni per produrre una diversa comprensione del performativo, delle live arts, e del loro potenziale. Ogni disco è in edizione numerata. Il vinile accoglie la solidificazione del gesto. Nell’insieme colleziona una serie di creazioni originali che costituiscono una rassegna a lungo termine. Onda su onda, Xong è una collana di “Musica-Non-Musica” per attualizzare l’immaginazione.

I dischi sono distribuiti nei circuiti della musica di ricerca e dell’arte. Principali retailers per la vendita in Italia e all’estero: Soundohm (mail order) e Flash Art (esclusivamente collector’s editions).

Col supporto di: Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna. Media Partner: Edizioni Zero, ATPdiary, NEU Radio.

Lunedì 8 aprile ore 21

Bologna, Raum, Via Ca’ Selvatica 4/d. Info: info@xing.it

Sentimento illumina, Alessandro Pessoli e Piero Manai in mostra alla Galleria P420

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Alessandro Pessoli, Illumina la pittura (deposizione), 2024, matite colorate, olio, vernice spray su tela, cm.224x290 Courtesy l’artista e P420, Bologna Foto Carlo Favero

P420 presenta la nuova mostra Sentimento illumina, un dialogo tra Alessandro Pessoli (Cervia, 1963, vive e lavora a Los Angeles, US) e Piero Manai (Bologna, 1951-1988).

Accostando le opere dei due artisti ci si rende conto che esiste una tradizione bolognese che, come scrive Antonio Grulli nel testo critico che accompagna la mostra “nei secoli è come se la pittura a Bologna fosse evoluta in una particolare direzione, ovvero nel diventare un chirurgico strumento di analisi metafisica della realtà che, partendo empiricamente dalla pelle e dal corpo delle cose, riesce a raggiungere l’anima.”

Nel caso di Piero Manai e Alessandro Pessoli – Pessoli ha studiato all’Accademia di Bologna durante gli ultimi anni di vita di Manai ed espone, per la prima volta in una mostra personale, nello stesso anno in cui Manai muore – questo strumento di indagine è rivolto verso di sé, verso la propria individualità dotata di una storia specifica e peculiare, verso la propria condizione di esseri umani, verso il proprio corpo da vivisezionare, smembrare e ricomporre, per vedere come funziona e se ancora funziona una volta fatto a pezzi; per scoprire se l’anima si perde aprendo questo sacro vaso fatto di desiderio, piacere, paura e splendore; o forse semplicemente per capire in anticipo se qualcosa sopravvive anche dopo la morte”.

E’ lo stesso Alessandro Pessoli a chiarire il senso della mostra e il perché della scelta di questo titolo “ho sempre pensato che il significato di quel disegno di Piero non fosse davvero la capacità o la volontà del pittore di accendere un faro sulla pittura, sul suo linguaggio o sul suo statuto concettuale. E’ piuttosto il tentativo di illuminare la nostra interiorità, la nostra luce interiore, la nostra capacità di essere illuminati, da una passione in primis, quindi in ultima analisi dall’amore. Per questi pensieri ho scelto come titolo Sentimento Illumina”.

Piero Manai, Senza titolo, sd, olio su tela, cm.200×300. Courtesy Piero Manai Estate, Bologna e P420, Bologna. Foto Carlo Favero

Lo stile  di Pessoli è colorato e a prima vista allegro. L’artista impregna le sue tele di una grande ricchezza di immagini, tutte collegate da una forte intensità emotiva. Andando oltre l’allegria della tavolozza e dello stile in cui si mescolano tecniche e materiali in maniera vivace, i suoi lavori si mantengono in bilico tra divertimento, oniricità, grottesco. Rispetto alle tematiche trattate, si nota come sempre si ricada nelle grandi questioni esistenziali, potremmo dire bibliche: la vita, la morte, il desiderio, il sesso, la gioia, la tristezza, la speranza, la paura, e tutti i perché sottintesi.

Prive di un’espressione o di una psicologia, quasi in disfacimento, le figure e le teste di Piero Manai non sono rappresentazioni ne ritratti. Sono forse più precisamente autoritratti, e non sono visti da fuori, ma da dentro. “È un lavoro interno – scrive lo stesso Manai – È una costruzione anatomica e psichica, è dipingere una figura, scorticarla tre volte, metterla a dura prova per raggiungere una soglia”. Il suo linguaggio pittorico sembra non riducibile a nessuna delle diverse pratiche artistiche in vigore all’epoca, anzi, nella sua diversità, sembra riunirle tutte, a tal punto che è difficile trovare un modo, forse inutile, di classificarlo.

Alessandro Pessoli (Cervia, 1963, vive e lavora a Los Angeles, US). Ha esposto in numerose mostre personali e collettive tra cui Italian Painting Today, Triennale Milano, Milano, IT (2023); Full Burn: Video from the Hammer Contemporary Collection, Hammer Museum, Los Angeles, US (2023); NO, NEON, NO CRY, MAMbo, Bologna, IT (2022); L’esca, MACTE, Termoli, IT (2022); Vita Nova, Villa d’Este, Tivoli, IT (2021); Fuori, La Quadriennale, Roma, IT (2020); The Neighbors, MAN, Nuoro, IT (2016); Alessandro Pessoli – Project Room, Villa Paloma, NMNM, Monaco (2015); Alessandro Pessoli, San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco, US  (2012); Ennesima, Triennale Milano, Milano, IT (2015). Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei internazionali: MoMA, New York, US; Hammer Museum, Los Angeles, US; Museo MOCA, Los Angeles, US; MAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma, IT; MIC Museo della ceramica, Faenza, IT; Collezione Maramotti, Reggio Emilia, IT.

Piero Manai (Bologna, 1951-1988). Ha esposto in diverse gallerie e musei in Italia e all’estero tra cui PS1 di New York, US (1982). Ha partecipato alle mostre Nuova Immagine presso la Triennale di Milano, IT (1980), Linee della ricerca artistica italiana 1960–80 al Palazzo delle Esposizioni a Roma, IT (1981), Italian Art 1960–80 alla Hayward Gallery di Londra, UK (1982), alla Biennale des jeunes di Parigi, FR (1982) ed esposto al Kunstverein di Hannover, DE (1985) e di Francoforte, DE (1986). La GAM di Bologna gli ha dedicato una vasta retrospettiva nel 2004 a cura di Peter Weiermair. P420 e CAR drde gli hanno dedicato un’importante mostra personale nel 2019.

 

Dal 6 aprile al 8 giugno 2024

Bologna, P420, Via Azzo Gardino 9. Orari: Martedì-sabato ore 10-14 e 15-19. Info: www.p420.it

Sandri attraversa il Muraglione fra nostalgia e sogni

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Muraglione è il nuovo singolo di Sandri, progetto musicale di Michele Alessandri, musicista cesenate.

Nel 2022 esce il suo primo disco autoprodotto “Opet”. Il suo Ep è in uscita ad aprile per Pioggia Rossa Dischi.

Il passo del Muraglione collega la Romagna alla Toscana e l’autore ci racconta ciò che vede da uno specchietto retrovisore. È una traccia dall’inizio alla fine suonata in presa diretta chitarra e voce, alla quale sono state innestate delle parti di arrangiamento, con la preziosa collaborazione di Simone Bartoletti Stella alla batteria e pianoforte, Andrea Cola alle chitarre e Jacopo Casadei, alle seconde voci, al basso e l’harmonium.

Quante volte abbiamo percorso il Muraglione con le sue salite e curve, ascoltando questo pezzo ti viene voglia di prendere la macchina e partire, ancor meglio sulla sella di una moto, per ammirare le bellezze che la natura ci offre, per sognare di quella casa in sasso, un matrimonio con poche persone, per fuggire dalla città e dalle sue tecnologie, essendo liberi di essere quello che si vuole.

Un cantautorato che ricorda i grandi autori italiani, dal sapore vintage ma attuale allo stesso tempo, in bilico fra la nostalgia del tempo passato e la speranza di un futuro migliore.

Sandri è decisamente un sognatore e a noi piace questo mood e forse dovremmo spegnere tutti i cellulari e televisori e guardarci negli occhi e chiederci cosa ci renderebbe davvero felici.

“Io dal retrovisore mi specchio il cuore ..”

 

 

 

 

I Santamarea splendono come una corrente

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Santamarea (c) Manuela Di Pisa, look by Etro

“La storia di una separazione e il dolore che ne consegue, così forte da non far distinguere tra il proprio sangue e le proprie lacrime. Eppure, tra voci stregate e paure, appare possibile trovare una voce splendida che genera una metamorfosi, vere e proprie ali, per riuscire a volare sopra le cose e vederle dall’alto come mille luci.”

Splendere è il terzo singolo dei Santamarea, in uscita su tutte le piattaforme digitali il 4 aprile. La giovane band palermitana ci lancia un’altra perla direttamente dal mare.

Pezzo ispirato da un libro di poeti arabi di Sicilia dell’anno Mille, trovato per caso in una piccola libreria tra i vicoli del centro di Palermo. Una storia d’amore finita, dove il volto della persona amata ci appare intoccabile, un frutto proibito.

Parole intrise di lacrime, dove l’intimità rapisce l’ascoltatore in un viaggio fra dardi infuocati e cieli luminosi.

“Lampi stanotte guardate il mio cuore, dardi infuocati

trafitto di luce, trafitto di luce, strafatto di luce

Splendida”

 

 

 

Dmitry Markov: il singhiozzo del dolore

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I fotografi contemporanei spesso tralasciano la tecnica acquisita nel corso degli anni, per enfatizzare diversi aspetti a loro congeniali e facendosi ispirare dalle luci e dalle ombre della società moderna in continua evoluzione. Capita, a volte, di incrociare lo sguardo di un fotografo e fotoreporter che considera l’aspetto sociale della vita centrale nella sua ricerca, senza comunque tralasciare l’importanza della tecnica nella fotografia.

 

 

Dmitry Markov è nato nel 1982 in Russia e oltre a esercitare la professione di fotoreporter era anche un volontario in istituti per bambini con patologie psico – neurologiche, dove si occupava anche di adolescenti in difficoltà. Scattava le sue foto solamente con il suo iPhone, catturando con estrema lucidità ogni momento rilevante. Ne parlo al passato in quanto a poche ore dalla morte di Alexsej Nalvalny, notizia che ha avuto un grande eco in Europa, le agenzie internazionali hanno diramato l’indiscrezione della sua scomparsa. I due erano legali da un filo comune molto forte, poiché nel 2021 Markov aveva documentato le giornate di protesta per la liberazione di Navalny.

 

 

Le sue foto che raccolgono le sue proteste e i suoi racconti, sono documentate sul suo profilo Instagram dove prima della morte era particolarmente attivo.

Markov passa una giovinezza dissoluta, l’adolescenza lo vede frequentare luoghi ai margini della società e iniziare un graduale processo di dipendenza dalle droghe; per questo motivo l’incontro con la fotografia è un atto liberatorio. Le sue immagini ci portano ad uno scontro viscerale con i temi dell’abbandono, della malattia psichica e del disagio giovanile. Ed è proprio quando Markov si esprime con la sua arte, è proprio lì che il dolore inizia a lenirsi; non cessa, è onnipresente, ma si può guardare in faccia, accoglierlo, perché spesso come tutte le arti, la fotografia può essere violenza e smarrimento, ma anche rinascita e guarigione. Nel corso degli anni, grazie soprattutto alla particolarità della sua arte, Dmitry Markov vince numerosi premi e inizia ad avere il plauso e l’attenzione della critica internazionale.

 

 

Markov cattura prevalentemente gli ambiti rurali, ed è per questo motivo che la sua è una voce che gli invisibili amano. Le luci che utilizza sono fotografiche, non particolarmente vivide; le azioni che narra sono quelle di personaggi esclusi e dimenticati dallo stato russo. Per questo motivo la sua è un’indagine fotografica di carattere politico, perché vuole enfatizzare la disparità delle classi sociali russe. La sua è inoltre una fotografia dinamica, dove spesso i soggetti che frequentemente sono bambini, sono rappresentati in movimento.

 

 

Da molti critici Markov è stato definito come un fotografo triste e desolato che descrive solamente soggetti cupi e deprimenti. Ma è proprio quando riesce a descrivere questi aspetti più intimistici della vita comune che si apre una voragine in Markov, che gli permette di liberare la sua tristezza, di accoglierla, di accettarla.

 

 

Dmitrij Markov è stato trovato morto il 17 febbraio 2024 e la sua morte come spesso accade è avvolta dal mistero. Non sono state infatti rilasciate informazioni pubbliche e ufficiali sulla sua scomparsa. La sua arte così vulnerabile ma allo stesso tempo così potente, ci ha lasciato una grande eredità oltre ad essere fonte di ispirazione per numerosi artisti.

 

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Draw a map to get lost: su Mappe dei nostri corpi spettacolari di Maddie Mortimer

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Maddie Mortimer

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Vien da pensare a Yoko Ono, quella che per molti non è altro che la moglie antipatica di John Lennon, o peggio «la stronza che ha fatto sciogliere i Beatles».

E invece.

Vien da pensare al suo seminale Grapefruit del 1964, illuminante libretto di Istruzioni per l’arte e per la vita che, in pieno spirito Fluxus, metteva in movimento -materialmente o concettualmente- il fruitore dell’opera, intesa non come oggetto da ammirare ma come attivatrice di spesso scomode esperienze estetiche, dunque etimologicamente conoscitive.

Vien da pensare, in quel seminale libro d’artista, al paradossale invito a disegnare una mappa per perdersi.

 

 

Vien da pensarci, immergendosi nelle oltre 450 pagine (ma all’inizio erano più di 1000, si apprende nei ringraziamenti finali) di questa «esperienza visiva» (come la definisce l’autrice stessa poche righe sotto) di Mappe dei nostri corpi spettacolari, primo romanzo della ventottenne londinese Maddie Mortimer da poche settimane pubblicato in Italia da il Saggiatore, in corso di pubblicazione in ben sedici Paesi.

Ci si pensa non solo per l’omonimia «mappe-mappa».

Piuttosto per una comune idea: «bisogna lasciarsi perdere», per dirla con il baudelairiano Walter Benjamin, tra i significati così come tra i significanti.

Sono implacabili, le Mappe di Mortimer, nel loro pervicace disorientare chi legge, a proporre un’esperienza che, sideralmente distante da qualsivoglia intrattenimento, con feroce esattezza articola e intreccia i diversi piani del racconto: la vicenda di Lia, malata terminale di cancro, sposata con Harry e madre dell’adolescente Iris, dei di lei genitori Anne e Peter, dell’amore di gioventù Matthew, che si scoprirà poi essere il padre biologico di Iris.

Detta così è una trama da romanzetto rosa, con l’aggiunta sentimental-melodrammatica della malattia letale.

E invece.

Qui ci si trova in una complessa e raffinata architettura in cui la varietà visuale delle pagine (font di dimensioni diverse, parole a formare linee curve, disegni, contenitori, ambienti), sideralmente distante da qualsivoglia decorazione appare come necessità del significato di debordare, ed essere incarnato, nel significante.

È attraverso la molteplicità dei segni che la fabula prende corpo.

Il corpo (malato e desiderante, accogliente e feroce) è motore e destinazione di ogni pagina, di ogni riga, di ogni parola di questo romanzo profondamente spirituale: «E se il corpo non è l’anima, l’anima cos’è?», direbbe Walt Whitman.

 

 

Dolente nella sua esattezza, il romanzo di Mortimer si interroga ripetutamente sui due elementi cardine che lo costituiscono: il linguaggio (un esempio fra molti, gli indimenticabili dialoghi madre-figlia a partire dal suono di alcune parole inventate) e l’arte (reiterati espliciti riferimenti ai mondi delle arti visive contemporanee moltiplicano i piani della narrazione, senza mai divenire didattici o, peggio, pedanti in quanto sempre funzionali al procedere del racconto).

Mortimer, come una guida esperta e un po’ crudele, porta con sé chi legge nei cunicoli del sentire e del vivere della protagonista Lia e di chi le è attorno, poi l’abbandona a un fluire apparentemente caotico di pensieri, associazioni d’idee, immagini, scarti temporali improvvisi, in un procedere rizomatico il cui senso intelligibile affiora per poi divenire carsico e dopo poco ritornare alla luce.

Questo programmatico, magistrale disorientamento produce l’effetto che l’arte dovrebbe sempre avere, forse: approssimarci a qualcosa che non si conosce e che a tratti, come nella poesia, si rivela.

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Elogio della scomodità. Intervista a Ivonne Capece, nuova direttrice del Teatro Fontana di Milano

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Era il 2013 quando Ivonne Capece, regista e performer teatrale, fondava a Bologna insieme alla visual artist e costumista Micol Vighi, Sblocco5, una compagnia e un centro di formazione e di ricerca. Il lavoro creativo delle due artiste si è fin da subito posizionato al confine fra le discipline artistiche, in un percorso sperimentale d’intreccio e incontro fra differenti linguaggi, maturando un’estetica e una poetica iconica, di stampo pittorico e fortemente riconoscibile. La ricerca le ha poi condotte a far incontrare la scena con le nuove tecnologie, dalle più semplici come l’audio e il video (come per gli spettacoli Thinking Blind o Frankenstein), alle più complesse e innovative come la robotica o l’intelligenza artificiale, fra le linee di approfondimento e di studio del loro LUCY Festival

Lungo il cammino, è arrivato anche il felice incontro con Elsinor – Centro di produzione teatrale che, dopo alcune progettualità condivise, ha indicato Ivonne Capece come la nuova direttrice del Teatro Fontanadi Milano, finora guidato da Rossella Lepore.
Una nomina interessante per il panorama teatrale e culturale italiano di oggi, sia sotto il profilo anagrafico (Capece è classe ‘82) sia sul piano dell’innovazione dell’arte scenica.

Ivonne, come descriveresti la tua idea di teatro se dovessi tradurla in un’immagine? 

«Più che a un’immagine, penso a una sensazione fisica che scaturisce dalla visione di un’opera. Di recente sono tornata al Mausoleo di Galla Placidia (ndr Ravenna) e mi sono soffermata a osservare la meravigliosa cupola: è così ricca di dettagli da richiedere molto tempo per essere colta a pieno. A stare però in quella posizione, con la testa e lo sguardo rivolti verso l’alto, è davvero faticoso fisicamente, tanto che a un certo punto è diventato quasi insopportabile. In quel momento mi sono resa conto che il modo in cui i medievali dipingevano le cupole non si basava solo sul desiderio di restituire l’idea di cielo e di spiritualità, ma anche sulla posizione che la persona doveva assumere per guardare. Non si tratta infatti di una postura naturale, presuppone una tensione verso l’alto, essa è scelta, volontaria e di fatica. In altre parole, per accedere alla bellezza e alle meraviglie del cosmo non si può stare seduti nella comodità, come avviene per esempio con la televisione, fatta per essere guardata orizzontalmente e nel comfort del divano di casa. 
Mi piacerebbe quindi che la visione teatrale facesse suo il principio della scomodità, perché la bellezza non è una fatica solo per chi la crea, ma richiede impegno, intelligenza e tensione spirituale anche da parte di chi guarda». 

A quali azioni stai immaginando per rendere concreta questa “scomodità”?

«Il processo di costruzione dell’identità di uno spazio teatrale è un procedimento molto lungo, perciò non ho la pretesa o l’illusione di poterlo costruire nella sua forma migliore nell’arco di una sola stagione. Quella che ho descritto prima è un ideale a cui vorrei tendere. Per farlo, immagino di proporre delle esperienze spiazzanti, ovvero capaci di rompere il concetto di comodità e di quotidianità di visione e di partecipazione. Da una parte vorrei riuscire a far crollare il preconcetto secondo cui a un dato contenitore debbano corrispondere solo certi contenuti: a teatro quindi si può andare non soltanto per assistere tradizionalmente a uno spettacolo, ma anche per partecipare a una performance, per trovarsi di fronte a una pièce solo da ascoltare, o a un’opera in video… L’idea è quindi di mettere in crisi l’abitudine e rompere le zone di comodità, che spesso provocano pigrizia e una perdita dello stimolo alla curiosità per qualcosa di diverso dal consueto». 

Quindi si potrebbe dire che fra gli obiettivi c’è quello di far crollare le aspettative dello spettatore…

«Si esatto, creare dei momenti di sorpresa. In questo senso, sto pensando anche a progetti capaci di dilatare i tempi e gli spazi dell’evento teatrale, ovvero delle esperienze di tipo performativo, creativo o emotivo attorno, prima o dopo lo spettacolo. Ovviamente si cercherà di lavorare su diversi livelli di complessità, perché l’intento non è di rendere il teatro un luogo irriconoscibile o deludente, bensì un ambiente capace di sorprendere perché mostra una natura molto più diversificata di quanto si pensasse».

Entrando nel contesto del Teatro Fontana, che cosa ti ritrovi fra le mani, che identità ha oggi questo spazio e in quale tessuto culturale della città di Milano è inserito?

«Il Teatro Fontana ha una storia di continui mutamenti. Nasce originariamente nell’area di Forlì in un contesto cattolico, con una programmazione dedicata all’infanzia e alla gioventù. Nel tempo si è trasformato dal teatro ragazzi a un calendario pensato per tutti, con particolare attenzione ai classici, fino ad arrivare a quest’ultima fase che vede un’apertura al contemporaneo. Le basi sono state messe dalla direttrice uscente Rossella Lepore attraverso azioni quali il talent scouting, lo sguardo sulla nuova drammaturgia, il coinvolgimento di nuove generazioni di artisti…
Questa continua metamorfosi da una parte può rappresentare un limite, tanto che negli ultimi dieci anni si è cercato di creare le premesse affinché, a questo punto del percorso, il Fontana potesse costruirsi un’identità più definita: la scelta di Elsinor verso di me credo vada proprio in questa direzione. Dall’altra, questa indefinitezza è affascinante perché permette una maggiore libertà creativa

Per quanto riguarda Milano, è una città che sto ancora studiando: è più complessa e ricca di Bologna, i poli culturali sono davvero tanti. Noto però due poli: luoghi off fortemente sperimentali e realtà più centrali e con programmazioni per tutti. Credo quindi che uno spazio in cui inserirsi possa essere quell’area che si colloca al confine fra i due». 

Da quello che racconti, non stai immaginando soltanto una stagione, ma anche una serie di attività collaterali alla visione rivolte al pubblico e percorsi dedicati agli artisti. È così? Di cosa si tratta? 

«Si, immagino un sistema di attività ed esperienze al confine tra le arti, che si configurino quasi come una stagione parallela. Inoltre, intendo dare molto spazio alla formazione e alla ricerca, costruendo un dialogo con l’Alta formazione CROSS che da anni con Sblocco5 porto avanti in collaborazione con Elsinor. Da qui, quindi, vorrei aprire le residenze studio per gli artisti del corso, affinché possano fare della loro ricerca un vero e proprio spettacolo, che poi potrà essere ospitato in stagione. Sto inoltre creando delle partnership con accademie e scuole fuori dall’ambito teatrale: sono stata per esempio in una scuola di fotografia e insieme stiamo costruendo una progettualità per l’anno prossimo, per ospitare installazioni fotografiche permanenti al Fontana. Mi piacerebbe che il teatro fosse quindi anche uno spazio espositivo e di co-creazione con altre realtà».

Questa ibridazione di linguaggi e arti ha molto a che fare con la poetica e la ricerca di Sblocco5, la tua compagnia. Tu, come molte altre figure del teatro italiano, prima di essere una direttrice sei innanzitutto un’artista. Come concili i due ruoli e quali sono i rischi che vuoi evitare?

«Personalmente vedo la direzione artistica come un’esperienza creativa dilatata: è come realizzare un’opera attraverso una composizione di diverse identità e performance. Mi piacerebbe infatti che la stagione nel suo complesso venisse percepita come un lunghissimo spettacolo, in cui ogni evento è una scena. Un’esperienza, insomma, che per comprenderla a pieno va attraversata tutto l’anno seguendo le varie tappe. Questo modo di intendere la direzione artistica nella mia mente avvicina i due ruoli.

Il rischio che vorrei evitare, ma questo vale anche se non si è artisti, è che la mia visione estetica e poetica possa influenzare troppo le scelte di programmazione. Inoltre il direttore artistico di un teatro ha spesso un accesso facilitato a delle risorse ed è importante fare in modo che queste non vadano a coprire esclusivamente una propria linea o progetto, ma essere sempre aperti e pronti a investirle su spettacoli, opere e progetti lontani da sé».

E viceversa, invece? Quali rischi incorre la propria poetica a stare in questo doppio ruolo di artista-direttrice? 

«In questo momento il mio timore più grande è che l’energia emotiva e temporale della direzione non mi permetta più la ricerca personale. È chiaro che ora questo percorso dovrà essere più limitato e circoscritto, ma non intendo abbandonarlo. Cercherò infatti di ritagliarmi ogni anno almeno un progetto di studio a cui tengo molto e in cui credo, senza concentrare l’attenzione sulla produzione di uno spettacolo in senso stretto, ma impegnandomi in altre attività creative e di ricerca. Per esempio, sto attualmente collaborando a un progetto di Carlotta Viscovo, su un testo di Angela Dematté, per cui mi hanno chiesto di curare la componente video. Attraverso questo progetto non mio, quindi, continuo a studiare e a stare in prima persona all’interno della creazione di un lavoro». 

La tua formazione passa dallo studio della filologia medievale alla storia della regia, fino a entrare nel vivo della pratica artistica. Chi era l’Ivonne che giovanissima si affacciava al mondo universitario iscrivendosi a filologia e chi è l’Ivonne di adesso? Quale filo le lega ancora?

«Ero una ragazza molto rigorosa, ho sempre studiato tanto, questo me lo ricordo bene. L’accanimento verso la ricerca, lo studio e il desiderio di avere una conoscenza profonda delle cose è qualcosa che è rimasto invariato in me. Un altro filo che resta è la modalità con cui mi approccio alle arti e alla cultura: filologia medievale può apparire lontana dalla regia teatrale, ma si tratta di una laurea in lettere e quella sfumatura sulla linguistica è di fondo un metodo di analisi e studio, puntuale e preciso. Il mio approccio alle discipline umanistiche per essere davvero efficace ha bisogno di questa componente scientifica: è come riuscire a raggiungere e centrare un punto dentro una materia, l’arte, che è inconsistente, almeno all’apparenza. C’è sempre un rigore matematico dietro qualcosa di irrazionale, che anche se tale non è mai arbitrario». 

Il contesto teatrale e culturale in cui ci troviamo, specie a fronte delle nomine nei Teatri Nazionali, mostra una situazione torbida e confusa, mentre i movimenti che tentano una reazione appaiono ancora deboli. Chiaramente l’ambiente in cui ti trovi è molto diverso, ma come vedi queste vicende? Cosa pensi sia necessario cambiare, anche con le micro-azioni, e quali sono i punti chiave che andrebbero sbrigliati?

«In parte credo che il gesto di Elsinor possa essere interpretato come un piccolo segno di cambiamento. Come dici, siamo in un contesto diverso e privato, quindi c’è una libertà maggiore rispetto alle istituzioni pubbliche; tuttavia affidare la direzione artistica di un teatro a un’artista proveniente da una realtà indipendente, lontana da ogni rapporto politico e ideologico, credo sia comunque un segno interessante e in contrasto alle logiche dominanti.

Un altro aspetto in ottica di cambiamento è l’aver passato il testimone a una figura anagraficamente rappresentante una generazione “più giovane” rispetto a chi guida oggi le istituzioni culturali. E si sente: l’altro giorno parlavo con un artista della mia stessa età e mi diceva di essere molto felice di potersi confrontare con una direttrice artistica con la quale sente di condividere uno stesso alfabeto, avendo così la sensazione di poter costruire progettualità e ipotesi di futuro insieme. Detto questo, è evidente che ci troviamo di fronte a un contesto culturale profondamente stanco di certe dinamiche e mi auguro che alcuni meccanismi si stiano cominciando a scardinare. Sebbene quello del Fontana sia piccolo e poco vistoso, è comunque un segno positivo da osservare». 

Tra queste dinamiche da scardinare, mi viene da dire ci sia anche la questione di genere: essere donna a ricoprire un ruolo di potere, specie nella cultura e nel teatro italiani, purtroppo non è scontato. Come ti rapporti con questo fatto?  

«Nelle necessità di cambiamento ho evitato di segnalare questo aspetto perché credo sia una questione così delicata che nel momento in cui si scoperchia si rischia di cadere in banalità. Io, inoltre, in generale non amo porci l’accento. Quello che mi auspico è che questa smettesse di essere una questione: avere donne alla guida di istituzioni culturali dovrebbe diventare l’ordinario, così non ci sarebbe più bisogno di interrogarci sulla particolarità o sui significati di una certa scelta. La mia nomina al Fontana è stata fatta a prescindere dell’essere uomo o donna e questo dovrebbe diventare la consuetudine. 

Lo stesso sul piano della programmazione: di fatto ho incontrato molte proposte legate all’universo femminile e realizzate da autrici, pensatrici. In stagione quindi la presenza di donne sarà percepibile, ci saranno artiste coinvolte a vario titolo, ma non perchè voglio porre l’accento sul femminile: la creatività è semplicemente composta anche di donne e di certi temi a loro cari, ad oggi in aumento, e quindi credo sia semplicemente il segno di qualcosa in mutazione»

 

Sbum! Yes We Cake, a ognuno la sua fetta

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Premio Eolo 2023, giovedì 11 aprile, va in scena al Teatro Testori di Forlì Sbum! Yes We Cake. la produzione de La Piccionaia dedicata alle nuove generazioni di Marta e Diego Dalla Via.

Gli autori e interpreti presentano uno spettacolo surreale dalla scrittura vivida, ironica e intelligente sulle criticità ambientali del nostro presente e sui possibili scenari futuri.

Sbum presenta una storia dove dati reali e un futuro fantasioso si sovrappongono per immaginare un mondo alternativo al presente.

“Se c’è una torta ognuno deve avere la sua fetta. Se siamo troppi e la torta non basta? Basta fare una torta più grande. Ma come fare una torta più grande, se la torta è già grande come tutta la terra? Potremmo fare fette sottili. Ma come fare fette più piccole se son già fette sottili come sottilette? Ci vorrebbe almeno qualcuno che sapesse tagliare una torta così!”

Il presidente di uno stato immaginario, sempre più disoccupato, inquinato e affollato, si pone domande su come distribuire una torta destinata a tutti in occasione del Centenario dello Stato: “nella sua mente si affollano voci, richieste e consigli. Non è semplice trovare soluzioni. Sempre che esistano semplici soluzioni.”

Come fare dunque a festeggiare tutti insieme? “Servono esperti di Stato. Esperti di torte con esperienza di futuro. Se non esistono dove trovarli? Se non esistono bisogna inventarli. Se non esistono bisogna educarli.”

Inizio spettacolo ore 20.30.

Info e prenotazionI: 0543722456, progetti.teatrotestori@elsinor.net, www.teatrotestori.it

 

PASQUA: APERTURE STRAORDINARIE MUSEI FERRARESI

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Per le festività pasquali (il 31 marzo S.Pasqua, il 1 aprile lunedì dell’Angelo e martedì 2 aprile) eccezionalmente saranno aperti il Museo della Cattedrale, Museo Schifanoia e Civico Lapidario, Casa di Ludovico Ariosto, e il Castello Estense che ospita le due mostre Una ricerca senza fine con le opere del fotografo Nino Migliori (visitabile fino al 3 giugno) e Sommersi salvati di Silvia Camporesi (prorogata fino al 15 aprile). Info e prenotazioni: https://www.comune.fe.it/prenotazionemusei

Sempre per le feste di Pasqua sarà possibile visitare anche la nuova mostra a Palazzo dei Diamanti, dedicata ad Escher, che apre al pubblico da oggi 23 marzo e che rimarrà visitabile fino al 21 luglio. Per la prima volta le opere dell’artista geniale e visionario, da sempre amato dai matematici e riscoperto dal grande pubblico in tempi relativamente recenti, saranno ospitate nelle sale di Palazzo dei Diamanti. Con lo stesso biglietto, nell’ala Tisi si potrà ammirare anche la mostra dossier “Mirabilia Estensi”, da un’idea di Vittorio Sgarbi, un viaggio attraverso opere d’arte uniche come i cofanetti istoriati “in pastiglia”, in una scenografica ambientazione arricchita dalle fotografie di Wunderkammer di Massimo Listri. Info su www.palazzodiamanti.it.

La primavera porta aria di novità al Museo Schifanoia, con una nuova visita guidata interattiva dedicata alle famiglie e replicata in più date, promossa da InFerrara, che cura la promo-commercializzazione turistica del Comune.

Il primo appuntamento è programmato per il giorno di Pasqua (31 marzo) alle ore 15:30, per un vero e proprio tuffo nel Rinascimento, alla scoperta della corte del Duca Borso d’Este. Dame, cavalieri, buffoni, astrologi, pittori e scultori saranno i protagonisti dei racconti con cui la guida affascinerà i giovani visitatori e i loro accompagnatori. Mondi paralleli popolati di strani personaggi e preziosi oggetti d’arte faranno da sfondo alle storie dei signori di Ferrara, in un percorso che culminerà nel sorprendente salone dei Mesi, per terminare poi nel verde ed incantevole Giardino dell’Amore. L’esperienza sarà proposta anche nelle giornate di giovedì 25 aprile, sabato 18 maggio e sabato 1° giugno sempre alle 15:30.

Continuano anche gli appuntamenti family al Castello Estense. Sabato 30 marzo e lunedì 1° aprile, alle ore15:00, “Storie di cuochi e ricette alla corte Estense”, una curiosa visita guidata ottima per scoprire insieme cosa mangiavano duchi e duchesse del casato Este, ricostruendo con la fantasia e semplici giochi le ricette del famoso scalco (cuoco) di corte, Cristoforo da Messisbugo, che fu al servizio della bella Lucrezia Borgia.

Tutte le visite, della durata di circa un’ora e 15 minuti, sono acquistabili sul sito www.inferrara.it, sezione booking-esperienze, o presso l’Ufficio Informazioni Turistiche del Castello Estense.

Il costo è di 8 euro per i bambini dai 5 ai 12 anni, 4 euro per adulti e ragazzi dai 13 e gratis fino ai 4 anni. Le tariffe non includono il biglietto d’ingresso al Museo Schifanoia e al Castello Estense, acquistabili in biglietteria il giorno stesso. Per ulteriori informazioni è possibile contattare telefonicamente l’ufficio informazioni turistiche, chiamando lo 0532-419190.

“Proseguono le iniziative rivolte ai turisti in città e alle famiglie per il periodo delle festività pasquali, grazie alla programmazione messa in campo da Inferrara. La volontà è quella di far conoscere le nostre bellezze e coinvolgere anche i più piccoli, con iniziative a loro rivolte alla scoperta della nostra storia”, spiega l’assessore al turismo e al commercio Matteo Fornasini.

“Ferrara anche per i giorni di Pasqua arricchisce il programma di eventi con l’apertura dei suoi musei e con diverse esposizioni, Nino Migliori e Silvia Camporesi al Castello, e la nuova mostra a Palazzo dei Diamanti dedicata alla geniale opera di Escher, con oltre 130 sui disegni e lavori”, aggiunge l’assessore alla Cultura Marco Gulinelli.

GORAN BREGOVIC, BANDABARDO’ E CISCO E DANIELE SILVESTRI IN CONCERTO QUEST’ESTATE A BERTINORO

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ph Nebojsa Babic

A Bertinoro si comincia a respirare aria d’estate con l’apertura della biglietteria per tre dei grandi appuntamenti annunciati nel cartellone estivo 2024. Da sabato 30 marzo, infatti, si potranno già acquistare sulla piattaforma Vivaticket i biglietti per i concerti di Goran Bregovic, Bandabardo e Cisco e Daniele Silvestri.

Bregovic arriverà sul colle il 16 luglio insieme alla sua Wedding and Funeral Band – trombe, tromboni, grancassa, clarinetto, sassofono e voci bulgare – per un concerto che proporrà i suoi storici successi, brani tratti dai suoi album più recenti e anticipazioni del suo nuovo progetto.

Il 2 agosto sarà la volta di Bandabardo, una delle live band più vitali in Italia, e Cisco (voce storica della band Modena City Ramblers dal 1992 fino al 2005) che proseguono così il percorso comune avviato nel 2022 con il disco e tour “Io non ho paura”.

Infine, il 31 agosto farà tappa Bertinoro Daniele Silvestri con “Il cantastorie recidivo – Estate 2024”, progetto che celebra il 30 anni di carriera del cantautore romano.

Queste sono solo alcune anticipazioni dell’estate di Bertinoro che sarà presentata ufficialmente nelle prossime settimane e che, come avviene già da alcuni anni, proporrà un ampio ventaglio di eventi, fra cui spicca la lunga notte di Fricò Royal in programma per il 12 luglio con importanti novità in ambito culturale, laboratori e attività per i più piccoli e tanti altri appuntamenti.

 

Visioni 2024 – Sguardi dall’estero

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A Bologna la settimana scorsa si è tenuto un Festival di teatro per i piccolissimi, i bambini da 0 a 6 anni, ricco di proposte di sguardo provenienti da centri teatrali nazionali e non.

Il festival si chiama Visioni, organizzato da La Baracca – Testoni Ragazzi.

Ne ho già parlato QUI e vorrei proseguire in questo articolo l’analisi di alcuni degli spettacoli a cui ho assistito, focalizzandomi questa volta su alcune prospettive di sguardo che vengono da altri Paesi.

La caratteristica di molti spettacoli per la prima infanzia, tendenza più diffusa all’estero che in Italia, è di non seguire una storia, un racconto con il suo ordine di eventi, ma piuttosto di far vedere e far sentire movimenti, situazioni, immagini, forme, suoni.

Questo determina una posizione più attiva nel pubblico, che non è relegato ad una posizione di ascolto ma che deve costruire, assieme al performer, dei significati partendo da quello che sperimenta.

D’altronde, come ha ribadito in uno degli incontri del festival Gerd Taube, direttore del Kinder und Jugend Theater Zentrum di Francoforte, la drammaturgia deve considerarsi come una coproduzione tra drammaturgo, performer e pubblico.
A maggior ragione questo è vero quando il pubblico è una platea di bambini, per i quali è impossibile tenere chiusa la bocca.

Negli spettacoli che ho visto e di cui parlerò non c’è una vera e propria narrazione da seguire, ma questa modalità non-narrativa è declinata in diverse forme, che rendono la rappresentazione più o meno astratta. Ad esempio i personaggi possono essere ben definiti, oppure non rappresentare nessuno in particolare, analogamente la scenografia può costruire un mondo conosciuto, inventarne uno o rimanere indeterminata, stessa cosa per le musiche, uno spettacolo può usare canzoni, suoni prodotti in scena, musica classica, silenzi, musiche originali, e così via.

 

 

Nello spettacolo Blikvangers (Acchiappasguardi) della prolifica compagnia olandese DeStilte, in scena ci sono due danzatori e una musicista, che interpretano personaggi curiosi, giocosi, un po’ timorosi, che toccano tutto e sperimentano tutto con mente aperta e sguardo puro, senza dire una parola (a parte qualche “ehi”).

Sono come tre bambini piccolissimi, che esplorano il mondo che hanno intorno, fatto di oggetti strani: tubi, teli da proiezione, aste, corde, ciotole, grossi tasselli di legno. Nel corso dello spettacolo ognuno di questi oggetti si rivela in grado di produrre un suono (le ciotole sono percussioni, le aste strumenti a corda, i tasselli sono frammenti di xilofono).

I tre personaggi vengono lasciati liberi di esplorare, costruendo una relazione tra di loro (cercandosi, nascondendosi, annodandosi in complicati giochi di abbracci) e tra loro e l’ambiente.

L’intento dello spettacolo sembra proprio quello di ricostruire un mondo primigenio, che rappresenti il mondo del bambino, in cui, con mente aperta e superando il timore, si scopre la bellezza nascosta in ogni passo, in ogni contatto e in ogni suono.

Anche ai bambini stessi è data la possibilità di entrare in quel mondo. Infatti al termine dello spettacolo (cioè quando si accendono le luci di sala), i bambini sono invitati sul palco a interagire con gli oggetti, una sorta di rito finale di chiusura della rappresentazione.

 

 

Di Acchiappasguardi ce n’è stato più di uno. Augenschein & Blickfang (Punti luce e acchiappasguardi) è il titolo dello spettacolo della compagnia austriaca Breloque Theatre Group, che vede in scena un attore, una pittrice e un musicista.

In questo caso i tre non interpretano particolari personaggi, ma portano sulla scena la propria professione. La pittrice dipinge, il musicista suona e l’attore inscena gag e pantomime mute. Lo spettacolo intreccia sapientemente le tre performance, legando i movimenti e le azioni di ognuno con quelle degli altri.

Muovendosi davanti, dietro, sopra e attorno ad una grande tela bianca, l’attore Andreas Simma interpreta, con l’arte del mimo, diversi personaggi, tutti spassosi e caricaturali (un pescatore, un bellimbusto in spiaggia, un insegnante, un politico…).

I personaggi e i gesti di Simma però sono legati alle azioni della musica e della pittura.

Il musicista crea melodie (con vari strumenti e loop station) che danno il ritmo al movimento e creano un’atmosfera. Ma non solo: aggiunge suoni che interagiscono direttamente con l’attore (ad esempio ricrea il verso di un gabbiano, con il quale Simma entra in conflitto).

La pittrice dipinge la tela bianca con tecniche diverse: scrostando gesso per rivelare un disegno già fatto, spruzzando vernice, dipingendo linee, lasciando impronte. Nel farlo, spesso, dipinge anche l’attore, pennellando la sua camicia, sporcandogli i piedi quando lui cammina sulla vernice fresca. Oppure interagisce con lui facendogli tenere il colore (con cui lui si mette a giocare), calcandogli in testa un cappello e così via.

Ne risulta un intricata coreografia a tre, piena di gag, in cui il pubblico non riesce a tirare fiato dalle tante risate, e che porta alla realizzazione di una grande pittura astratta.

Sembra uno spettacolo semplice, ma è molto denso, pieno di contenuti. Ne ricordo uno in particolare, quando Simma intepreta uno studente intento in un dettato, ripetendo le parole, poco alla volta le carica di ritmo e ferocia, finchè il tono non diventa simile ad un violento comizio.

In pochi secondi la dettatura è diventata dittatura. Un gioco di parole fatto quasi senza parlare, col movimento, la musica, il contesto.

 

 

Il terzo sguardo dall’estero di cui voglio parlare viene da molto più lontano, dal Giappone.
Si tratta dello spettacolo Can (Barattolo) della Stick Company con Kiyofumi Yamamoto.

Questo spettacolo è veramente semplicissimo.

Un personaggio (forse un netturbino, per via della scopa) è alle prese con una fila di barattoli diversi. Inizia ad assemblarli e costruisce piccole cose e personaggi, senza che ci sia un nesso tra uno e l’altro. La prima cosa che realizza è una macchina fotografica. Poi una radio, un grande robot, un elefante (assembla solo la proboscide), infine un piccolo re.

Nel caso dell’elefante è come se l’animale fosse già presente da qualche parte, prima ancora di essere costruito. Si sente un barrito e sta a Kiyofumi capire da quale barattolo proviene: è lì che si nasconde l’elefante.

Come a dire che c’è una una sorpresa celata in ogni cosa, anche in alcuni semplici barattoli. Ma si può cogliere solo con un atteggiamento aperto all’ascolto e pronto al gioco, che rende questa scoperta possibile (richiamando il “can” del titolo nel significato di “poter fare”).

Un atteggiamento che mi ricorda molto quello della poesia Haiku, i componimenti brevissimi della tradizione letteraria giapponese, che descrivono elementi del quotidiano, perlopiù del mondo naturale, cercando di svelarne la bellezza nascosta.

Effettivamente il minimalismo di Can è simile a quello degli Haiku. E come questi, anche lo spettacolo è un momento descrittivo che non sembra avere un inizio né una fine. Semplicemente mostra una prospettiva di sguardo e propone una visione.

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Per concludere ritorno a considerare il discorso sulla drammaturgia fatto da Gerd Taube e accennato prima. La drammaturgia deve essere in grado di costruire la struttura dello spettacolo coinvolgendo insieme performer e pubblico.

Ci sono modi diversi per farlo, che sia in una particolare disposizione dello spazio scenico che porti lo spettatore a scegliere attivamente cosa e come guardare  (come ne Il labirinto di Daniel Gol), in un rito finale che porti il pubblico sul palco tra i performer (è il caso di Blikvangers), oppure anche trascinando la platea in una grassa risata, democratica e partecipata (come in Augenschein & Blickfang).

Ma qual è l’importanza del rendere il pubblico partecipe? Di non considerarlo semplice ascoltatore ma protagonista stesso di ciò che osserva?

Forse si può rispondere con le parole di un poeta giapponese, Mitsuo Aida, maestro di Shodō (l’arte della calligrafia):

“Credo che solo ciò che si sperimenta
diventa davvero nostro.”

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MICHELE BUDA “da uno a sette” in mostra presso Pallavicini22

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Sabato 6 aprile 2024 alle ore 18:30 presso lo spazio espositivo Pallavicini22 Art Gallery in Viale Giorgio Pallavicini 22 a Ravenna, si inaugura la personale di Michele Buda “da uno a sette”, a cura di Luca Piovaccari e con testo critico di quest’ultimo a catalogo.

La mostra rimarrà allestita fino a domenica 28 aprile e sarà aperta al pubblico dal martedì al sabato feriali dalle 16 alle 19. Finissage domenica 28 aprile dalle 17 alle 19. Ingresso libero.

La mostra si inserisce nel progetto di CARP Associazione di Promozione Sociale “Con altri occhi – Appunti di fotografia contemporanea”, una serie di esposizioni legate al medium fotografico a cura di Luca Piovaccari e Roberto Pagnani.
Questa ricognizione (anche se parziale) prende il via da vari incontri personali e, attraverso alcune discussioni, vuole riflettere sulla fotografia in genere quale ostinato spunto di ricerca. Questo linguaggio, a seconda degli autori, diventa medium assoluto o di supporto al proprio lavoro.
Autori che come testimoni del proprio tempo si sono confrontati in un modo o nell’altro
consapevolmente con l’influenza del lavoro di Guido Guidi, anche per le frequentazioni personali, ma che allo stesso tempo hanno sviluppato un proprio particolare linguaggio.
Gli sguardi di questi fotografi sono diretti anche alla normalità del quotidiano e all’attenzione del particolare, vogliono indagare la vita in ogni sua apparenza inaspettata e osservare di nascosto per frammentare con la loro visione il mondo.

L’evento, promosso e organizzato da CARP Associazione di Promozione Sociale in
collaborazione con lo Spazio Espositivo PALLAVICINI 22 Art Gallery, con l’Archivio Collezione Ghigi-Pagnani e con Felsina Factory, si avvale del patrocinio dell’ Assemblea legislativa Regione Emilia-Romagna del Comune di Ravenna Assessorato alla Cultura, dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna, dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico centro-settentrionale oltre al sostegno di SAGEM srl.

La Mostra
La fotografia che Michele Buda mette in campo per questo progetto comprende sette sequenze in progressione. Come in un crescendo di immagini adotta una sorta di montaggio visivo, con la rigorosa scelta del bianco e nero per portare l’attenzione sulle cose del mondo e su particolari che appartengono alla visione sensibile dello sguardo. Il lavoro di Michele Buda sa coinvolgere, al di là della lucida e fredda inquadratura. Le sue immagini non vivono solo di tecnica, ma portano con sé l’oggettiva malinconia contemporanea. Come sostiene Agamben, ogni autore è al tempo stesso nel suo tempo ma si dovrebbe porre anche a lato di questo, per osservare in maniera nitida e
obbiettiva la realtà, rappresentazioni che servono anche per farci comprendere meglio la vita. In mostra ci sono fotografie di chi conosce bene l’importanza della luce e delle ombre, in architettura e nella storia della pittura.

L’Artista
Michele Buda è nato nel 1967 a Ravenna, vive e lavora a Cesena.
E’ docente di Fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna.
Ha studiato Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo all’Università di Bologna.
Ha iniziato ad occuparsi di fotografia all’inizio degli anni novanta partecipando a diverse
campagne fotografiche. Nel 2005 ha esposto al Fotomuseum di Winterthur e l’anno successivo al SK Stiftung Kultur di Koln. Tra le mostre si ricordano le personali alla Galleria Spazio Senzatitolo, Fotografie (2009) e One Day in Berlin (2013); alla Galleria Metronom, 9909 (2010) e Tricks and Falls (2012); alla Galleria dell’Immagine di Rimini, Tricks and Falls (2013).
Nel 2016 ha esposto nella mostra 4×4 architetture, presso Areafotografia a Monselice. Nel 2017 la mostra personale accademia, tratta dall’omonimo libro, è stata ospitata negli spazi della Galleria del Ridotto di Cesena. Nel 2018 la mostra personale Archivio Quasimodo per Cristallino è stata allestita nella galleria Corte Zavattini 31 a Cesena. Nel 2021 col progetto Sul confine è vincitore del bando Strategia Fotografia 2020 promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nello stesso anno si tiene la mostra negli spazi dell’Ex ospedale Testi a Cotignola e si stampa il libro Sul confine edito da Quodlibet.
Sue fotografie fanno parte delle collezioni di Linea di Confine per la fotografia contemporanea di Reggio Emilia, dell’IBC della Regione Emilia-Romagna, del Canadian Centre for Architecture di Montréal, del Fotomuseum Winterthur in Svizzera e del Institut für Kunstdokumentation und Szenografie di Düsseldorf.

Spazio espositivo 

PALLAVICINI 22 Art Gallery 

Viale Giorgio Pallavicini 22
I – 48121 Ravenna (RA)
Facebook: Pallavicini22
Instagram: Pallavicini 22 (@pallavicini_22)

Silvia Listorti con “Clinamen” alla Galleria Studio G7

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Ph.F.Romano

Studio G7 presenta Clinamen, prima mostra personale dell’artista Silvia Listorti.
Il progetto, accompagnato da un testo di Federico Ferrari, si compone di una selezione di opere inedite che innescano un dialogo aperto con lo spazio. L’inaugurazione si terrà sabato 6 aprile 2024 dalle 18:00 alle 20:30

Nove elementi in terracotta compongono l’installazione Se le orecchie vedono e gli occhi ascoltano segnando un ritmo compositivo al contempo puntuale e rigoroso; Alle spalle, la notte – opera in vetro – si presenta come una forma sinuosa e fortemente ambigua.
Nelle singole accezioni, le opere dichiarano la predilezione dell’artista per il corpo e il suo
incessante mutare così come l’attenzione alla precarietà e fragilità delle forme; è così che la pelle si mostra e si rivela, negli elementi scultorei, come traccia opaca da seguire e ricercare.
La rarefazione del segno, l’attenta disposizione del colore nello spazio e della materia sulla
superfcie si rifettono nella serie Sovrapposizione, una successione di carte di riso su cui grafte e pigmenti puri si stratifcano e coincidono in una materia che non riesce più a scindersi nei suoi elementi costitutivi.
In una corrispondenza processuale, le opere Senza titolo e Illocazione si inseriscono nella rifessione di Listorti raccontando il tempo dell’opera, le sue sospensioni e attese, zone scabre di punti e tracce depositate, in un clinamen che genera e incessantemente altera lo spazio.

Silvia Listorti (Milano, 1987) si diploma in Arti Visive presso NABA e in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera. Partecipa a mostre in Italia e all’estero tra cui si ricordano Come Pioggia, 2023, Castel Belasi, Campodenno, Trento; Visibilia, 2023, Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova; C’è modo e modo di sparire, 2023, RISS(E), Varese; who killed bambi?, 2022, Nuovo Spazio di Casso al Vajont, Casso; Vetro e Opera Lirica, 2022, Castello Sforzesco, Milano, Museo della Pace, Napoli, MAMT, Madrid, Alcorcón,
Segovia; We are the food #2 – Noi siamo il diluvio, 2022, S.A.S.S. Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas, in collaborazione con MuSe, Trento; Gocce, 2022, Il crepaccio; LUCREZIA, 202, Palazzo Fontanelli Sacrati, Reggio Emilia; Muselmann, 2021, Casa della
Memoria, Milano; Symbolum. Terra-Mater-Materia, 2019, Stara Rzeznia, Stettino; Nero su Bianco, 2019, Centro Contemporaneo delle Arti (CECART), Milano; Vetro e opera lirica. Soff d’arte, Castello Sforzesco, Milano. Nel 2019 viene selezionata nella terza edizione di
ContemporaneaMENTI; nello stesso anno riceve la menzione speciale al Concorso Internazionale MilanoVetro-35 e nel 2023 vince il Premio Massimiliano Galliani per il disegno under 35. Sue opere appartengono a collezioni pubbliche e private.
Attualmente vive e lavora a Milano.

Silvia Listorti
Clinamen con un testo di Federico Ferrari

Galleria Studio G7, Via Val D’Aposa 4A, 40123, Bologna, IT
Contatti: +39 051 2960371 | info@galleriastudiog7.it | www.galleriastudiog7.it
Orari: dal martedì al sabato ore 15:30-19:30. Mattina, lunedì e festivi per appuntamento

IL TALENTO DI GIULIO CASALE ALLA RIMBOMBA DI BERTINORO

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Evento speciale sabato 4 maggio 2024 al Circolo culturale La Rimbomba Bertinoro.
Giulio Casale, un eccellente e poliedrico artista, a ruotalibera, senzarete, con voce & chitarra, canta storie, proprie e altrui, nella più nobile tradizione cantautorale: con forza e convinzione trafigge il pubblico.
Sola è la forza di parole e note.
Liberamente è uno spettacolo concepito e interpretato da Giulio Casale, compositore e cantante degli Estra da lui fondati. È un concerto che prevede brani per voce e chitarra, ma vale la pena di andare oltre questa prima apparenza. La storia millenaria della cultura occidentale è da sempre attraversata da figure che invariabilmente cantano, accompagnandosi con strumenti a corde: aedi, rapsodi, menestrelli, bardi, cantautori – dai tempi dell’antica Grecia fino ai giorni nostri. Con uno scopo comune: raccontare idee, eventi e storie a un popolo distratto e talvolta neppure in grado d’informarsi.
Obbligatoria la prenotazione:
Cena + spettacolo. Oppure solo spettacolo di Giulio Casale.
Telefono e Whatsapp 333.1296915 [Davide Fabbri]

Aperture pasquali mostra Gio Ponti e MIC Faenza

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una veduta della mostra

Le collezioni del MIC Faenza e la mostra di Gio Ponti sono aperte sia a Pasqua (ore 10-18) che a Pasquetta (ore 10-19).

La mostra “Gio Ponti. Ceramiche 1922-1967) a cura di Stefania Cretella, espone in quindici sezioni oltre duecento opere – tra ceramiche, vetri, arredi e disegni – attraverso le quali viene analizzato, dal 1922 al 1978, il lavoro di Gio Ponti in relazione alla sua visione dell’abitare e di un nuovo vivere moderno.

Dal 1° aprile entra in vigore l’orario estivo del Museo Internazionale delle ceramiche con apertura fino al 31 ottobre dal martedì alla domenica ore 10 – 19, chiuso tutti i lunedì non festivi, 1 maggio e 15 agosto.

Info: 0546697311, info@micfaenza.org, www.micfaenza.org

ALLA GALLERIA STUDIO CENACCHI LA MOSTRA LEGAMI FRAGILI

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Giovedì 4 aprile alle ore 18 inaugura a Bologna presso gli spazi di Galleria Studio
Cenacchi in Via Santo Stefano 63 la mostra Legami fragili a cura di Raffaele Quattrone che ha coinvolto Rosalia Banet, Enrica Borghi, Zeno Bertozzi, Davide Bramante,
Roberta Cavallari, Pierpaolo Curti, Alberto Di Fabio, Armida Gandini, Kepa Garraza,
Alberto Gianfreda, Alessandro Moreschini, Sabrina Muzi, Antonio Riello.

Una delle condizioni fondamentali della società sono le relazioni tra gli individui che la
compongono. La società nasce proprio perché gli uomini si mettono insieme,
rinunciando a un po’ della loro libertà, perché insieme sono più forti, dove non arriva
uno arriva l’altro, dove non può uno può l’altro. Queste relazioni sono sempre state
considerate “solide”, cioè, fondanti, se non sono forti la società si sgretola e torniamo
alla situazione di partenza. Zygmunt Bauman è stato il teorizzatore di questo
sgretolamento da lui definito “scioglimento”. Ai legami solidi di un tempo si
contrappongono oggi dei legami liquidi che il sociologo definisce “zattere di carta
assorbente” per far capire subito la loro precarietà. Se fossimo un naufrago ci
esporremmo alle intemperie con una zattera fatta di carta assorbente? Di conseguenza
l’uomo contemporaneo non crede più nella costruzione di legami che nascono già
instabili e fugaci ecco perché si lascia guidare da un individualismo sfrenato che lo fa
lottare per la difesa di se stesso, del proprio sé.

Queste sono le considerazioni che stanno alla base di questo progetto che non nasce da
un interesse del curatore o di una galleria, quanto piuttosto dalla relazione tra il
curatore, gli artisti e gli spazi che di volta in volta ospiteranno il progetto che così
cambierà forma adattandosi ad ogni specifico contesto senza però modificarne la
sostanza, cioè la forza delle relazioni umane, la forza di creare comunità e spazi di
condivisione.

È stata inoltre creata una partnership con CONNEXXION, Festival Diffuso di Arte
Contemporanea curato da Livia Savorelli già direttrice di ESPOARTE.
A seguito di questa partnership sono stati selezionati due artisti provenienti proprio
dalla seconda edizione di questo Festival: Armina Gandini (dalla mostra Dialoghi
intorno alla libertà curata da Livia Savorelli al Museo Sandro Pertini e Renata Cuneo di
Savona) e Alberto Gianfreda (dalla mostra Frammenti. Atti di conservazione per un
futuro di libertà curata da Livia Savorelli e Matteo Galbiati al Civico Museo Archeologico
di Savona).
Il progetto inaugura quindi la sua prima tappa a Bologna presso Galleria Studio
Cenacchi per poi inaugurare in forme ogni volta diverse a Roma il 20 aprile presso
Studio DFB, il 12 maggio a Lodi presso Spazio 21, e poi Ala (Studio Roberta Cavallari –
Palazzo Gresti Filippi), Palazzolo Acreide, Siracusa (Casa Bramante – San Sebastiano
Contemporary) in date in corso di definizione.

Info

DOVE: Galleria Studio Cenacchi, Via Santo Stefano 63, Bologna
INAUGURAZIONE: giovedì 4 aprile 2024 ore 18
DATE: 4 aprile – 4 maggio 2024
giovedì 25 aprile e mercoledì 1° maggio: chiuso
ORARI: da martedì a sabato ore 16.30 – 19.30 o su appuntamento
CONTATTI: 051 265517 (whatsapp)

galleria@studiocenacchi.com | studiocenacchi.com

Visioni 2024 – I piedi

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ph Lorenzo Monti

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Sono stato a Bologna, a Visioni, festival internazionale di arti performative e cultura per la prima infanzia, organizzato da La Baracca – Testoni Ragazzi all’interno del loro teatro, fresco di ristrutturazione. Il festival è supportato da Babel – The Art of Listening in Theatre for Young Audiences, un progetto del programma Creative Europe, ed è stato davvero una babele di linguaggi, con ospiti internazionali e spettacoli in tutte le lingue, comprese quelle universali della pittura, della musica, delle immagini, del corpo.

Cercherò in questo e nei prossimi articoli di riassumere e raccontare qualcosa di ciò che ho visto, per aprire lo sguardo e diffondere le visioni di Visioni.

Partiamo dal basso: il piede.
È un elemento che accomuna molti degli spettacoli presentati, in particolare l’ho ritrovato in questi: Il labirinto di Teatrodistinto, Un tout petit peu plus loin di H2Oz, e Storie quasi impossibili di La Baracca – Teatro Testoni Ragazzi.

Questi tre spettacoli presentano allo spettatore uno, due o più piedi.

 

 

Il primo: Il labirinto, uno spettacolo di Daniel Gol per Teatrodistinto.

La platea è raccolta a 360 gradi attorno a uno spazio quadrato, nel quale è tracciato per terra con la ghiaia un piccolo percorso a labirinto.

Una paratia di carta, tenuta sollevata a mezzo metro da terra, corre su tutti i lati e forma una specie di muro.
Dunque, ad altezza terra, sotto il muro di carta, si può vedere tutto. Sopra il mezzo metro di altezza non si può vedere niente.

Questo impedimento visivo genera da subito una forte curiosità, sia nei bambini che negli adulti che devono sporgersi e abbassarsi per sbirciare.

Mi viene in mente la siepe di Leopardi, grimaldello, anzi piede di porco, che forza le porte dell’immaginazione.

Nel campo visivo così limitato una cosa la si vede molto bene: il labirinto e due paia di piedi.

I loro movimenti sono precisi, misurati, regolati dallo spazio, che li obbliga a fare manovra ogni volta che devono fare una curva o tornare indietro.

Basta che i piedi si muovano, con rumori simili a quelli di un videogioco (trovo molte somiglianze con il labirinto di Pac-Man), perché il pubblico rida. Sono buffi perché stanno stretti stretti nel labirinto, e poi muovendosi seminano oggetti.

Un paio di piedi lascia delle arance. L’altro lascia peperoni rossi e gialli. Oggetti semplici, colorati, lucidi, illuminati da faretti dedicati. Il labirinto si colora.

Non c’è nessun dialogo e nessuna narrazione: è uno spettacolo astratto, di forme, di movimenti e situazioni. Ad un tratto una coppia di piedi abbandona le scarpe e i calzini e prova a camminare sulla ghiaia, anzi corre, punta dai sassi. Gli altri piedi, allora, portano in soccorso un secchio d’acqua per lenire il dolore.

Devo dire che questi piedi sono molto espressivi.

Posso leggere facilmente le loro emozioni: curiosità, dolore, imbarazzo, timore, sollievo, gratitudine, letizia.

Alla fine la parete di carta si strappa, un lato alla volta. Fanno la loro comparsa i corpi e le facce dei due performer, i proprietari dei piedi. Invitano due bambini a percorrere con loro il labirinto, lasciando cadere nelle casette dei semi di baccello e lo spettacolo termina, senza esplicitare nessun significato.

 

ph Lorenzo Monti

 

Il secondo spettacolo è Un tout petit peu plus loin (“un po’ più lontano”) del collettivo belga H2Oz.
Questo inizia con un cubo. Dal cubo emerge un piede (vi ricorda qualcosa? A me QUESTO). Poi i piedi diventano due, poi quattro, poi sei, e dopo qualche passo incerto e qualche passo di danza, tre corpi escono dal cubo.

Sono tre personaggi un po’ straniti, spaesati, timorosi. Indossano costumi dal taglio diverso e con pattern diversi, ma simili nei colori. L’impressione è che appartengano allo stesso mondo.

Nella prima parte dello spettacolo questi tre individui cercano di non allontanarsi mai dal cubo da cui provengono, che si appiattisce quasi subito e diventa una superficie, come una zattera, che i tre riassemblano per estenderne i confini e non scendere mai.

È esattamente come quel famoso gioco in cui i bambini non devono toccare mai per terra e allora si inventano nuovi punti di appoggio.

Nel momento in cui i tre vogliono andare “un po’ più lontano” devono frammentare la zattera-cubo e usare i pezzetti ottenuti come punti di appoggio, sempre più piccoli, su cui mettere piede per fare ogni volta un passo più in là.

Ma quando i pezzetti finiscono sono costretti a scendere. Si cambia gioco.

Il cubo, che era diventato zattera, ora viene messo in verticale, come un separé a zig zag, e diventa un piccolo labirinto in cui inseguirsi, cercarsi, giocare a nascondino.

Se lo spettacolo è una metafora della vita, dalla nascita ai primi passi fuori, ora è il momento in cui si scopre la complessità del reale, in cui si rischia di smarrirsi.

Infine è il pavimento stesso che si trasforma. Viene arrotolato e diventa linea su cui farsi funamboli, confine da attraversare, e poi strada da intraprendere per scomparire dietro le quinte. Lo spettacolo termina dunque con un partire, un simbolico inizio.

 

ph Matteo Chiura

 

Il terzo spettacolo è Storie quasi impossibili de La Baracca – Testoni Ragazzi.

Anche questo inizia con un cubo. Più grande e di colore nero.

Dal cubo esce prima di tutto un quaderno rosso (i colori sono pochi ma importanti). La protagonista, interpretata da Sara Lanzi, cerca di capire da dove sia sbucato e inizia a interagire con il cubo. Comincia così una prima esplorazione di questo “monolite nero”, nella quale ci si ripresenta l’immagine di un piede.

Il cubo infatti ha le pareti di tessuto, con aperture nelle quali infilare braccia, gambe, testa.

L’attrice entra ed esce, scompare e riappare e spesso restano fuori un braccio, una mano, un piede. Si capisce presto che non è da sola, quando i piedi che sbucano dal cubo diventano sei.

Poco dopo infatti compaiono anche altri due personaggi, due maghi, indossando giacche colorate. Sono lì per mostrare e insegnare alla protagonista alcuni numeri di magia, o almeno così capisco seguendo le azioni dei personaggi, che si esprimono senza parole.

Lo spettacolo prosegue con una serie di trucchi molto classici e già noti (ma nuovi per il pubblico di treenni), con i quali la protagonista deve scontrarsi, provando ad imparare la magia. Infine anche lei diventa prestigiatrice e si guadagna una bella giacca colorata.

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Sono tre spettacoli diversi, come dicevo, accomunati dall’elemento piede.

In Storie quasi impossibili è un escamotage per presentare in modo simpatico il cubo come porta da attraversare e per introdurre poco a poco i personaggi, un pezzo alla volta.

In Un tout petit peu plus loin il piede è la prima cosa che sbuca fuori. Rappresenta il mettere piede per la prima volta sul mondo e il muovere i primi passi, focalizzando l’attenzione letteralmente proprio sui passi.

Ne Il labirinto invece il piede è sineddoche, parte che sta a rappresentare il tutto. Vediamo due piedi ma pensiamo ad un individuo e leggiamo nel movimento delle sue appendici il carattere, le intenzioni, gli stati d’animo.

Sono piedi presentati con intenti diversi, ma di tutti e tre si può dire che siano buffi: il pubblico apprezza, i bambini ridono di gusto.

Ma perché i piedi ci fanno ridere?

Forse perché di solito stanno in basso, nascosti, e non siamo abituati a vederli. Così quando si apre il sipario e loro sono lì sulla scena, che sembrano guardarci con i loro alluci allucinati, la sorpresa è tale che ci strappa una risata.

La sorpresa è uno dei meccanismi fondamentali che guidano l’apprendimento nei bambini ed è anche uno dei cliché ricorrenti nel teatro per la prima infanzia. Non sorprende che ricorra spesso e che funzioni ancora, sempre.

D’altronde, come dice un grande teorico della sorpresa, Gilbert Keith Chesterton, è la nostra capacità di sorprenderci di tutto a dare valore alle cose, generando un’infinita gratitudine per la loro presenza.

E, per fare un esempio, lo scrittore parla proprio dei piedi. In un suo scritto si diverte a immaginare un altro famoso autore, George Bernard Shaw, che si perde a guardare le sue estremità inferiori e con linguaggio altisonante esprime la sua meraviglia:

“Ne sarei molto più convinto se lo trovassi mentre si contempla, religiosamente attonito, i piedi. Me lo immagino mentre mormora tra sé: “Che sono questi due magnifici ed operosi esseri, che mi accompagnano ovunque, sempre al mio servizio, senza che io ne sappia il perché? Qual misteriosa madrina comandò loro di raggiungermi, trottando, dal regno dei folletti quando nacqui? Quale dio della penombra, quale barbarico dio delle gambe devo propiziarmi con fuoco e vino, affinché essi corrano sempre con me?”

(G.K. Chesterton, G. B. Shaw)

I piedi non sono tutto. Sono solo una parte del corpo come degli spettacoli descritti.

Mi sono focalizzato su questo aspetto proprio perché attratto dalla parzialità, cioè dalla capacità di spettacoli diversi di focalizzare lo sguardo su un solo dettaglio, in una prospettiva bambinesca di scomposizione, e attorno a questo sguardo costruire storie o significati.

Penso che questo concetto semplicissimo riassuma in sé il significato che può avere un festival come Visioni, in cui si entra in dialogo per mostrare e scambiare prospettive, focalizzandosi su diversi aspetti, all’insegna della ricerca teatrale e pedagogica.

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MORGAN, TONY LEVIN, PIVIO, BANDABARDO’ E ALTRI in “PAROLE LIBERATE

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“Parole Liberate” è un progetto musicale, culturale e sociale nato nel 2014 e giunto alla 6a edizione. L’iniziativa parte da un bando biennale creato dall’omonima associazione di promozione sociale ed emanato dal Ministero della Giustizia, che propone a detenute e detenuti delle carceri italiane di scrivere un testo, destinato a diventare canzone, grazie al contributo di importanti artisti della scena musicale italiana.  In questa edizione sono stati selezionati testi arrivati dai carceri di Sollicciano (Firenze), Arezzo, Pisa, Perugia, Teramo, Reggio Emilia, Parma e Bari.

Si tratta di un album collettivo che include musicisti della etichetta Baracca & Burattini e si è allargato con la partecipazione di artisti nazionali e internazionali. L’album dell’edizione precedente ha vinto il Premio Lunezia 2022 ed è arrivato secondo alle Targhe Tenco dello stesso anno.

L’iniziativa non è limitata all’ambito discografico ma vede la partecipazione di molti tra artisti coinvolti, sia del volume 1 che del volume 2, alle presentazioni e ai concerti che si svolgeranno dentro e fuori le carceri. Anche se non è disponibile una versione in vinile, abbiamo voluto caratterizzare l’album con un lato A e un lato B che identificano due diverse “facciate” di questa proposta musicale.

Il lato A inizia con la band femminile VIADELLIRONIA con un brano prodotto da Cesareo, chitarrista di Elio e le Storie Tese. Si prosegue con un inedito duo composto da Andrea Chimenti e Giorgio Baldi in “Cantami” – testo vincitore dell’ultima edizione del bando – e la Bandabardò, i NuovoNormale, la street band “Magicaboola Brass Band” (insieme a Fabrizio Pocci) e Max Bianchi. Chiude il lato A “Sbagliato”, canzone dei NuovoNormale già pubblicata nel volume 1, riadattata da The Mastelottos. Si tratta di una band composta da Pat Mastelotto (batterista dei King Crimson) e dalla moglie Deborah Carter, con un brano curiosamente eseguito in italiano come era in uso decenni fa nelle partecipazioni sanremesi di artisti internazionali.

Il lato B si apre con Morgan seguito dai Synaesthesia, gruppo livornese formato da musicisti poco più che maggiorenni. Chi invece è maggiorenne da molti anni è Flavio Giurato, un artista di culto che ha musicato e interpretato insieme a Nicola Distaso un testo proveniente dal carcere minorile di Bari. Si prosegue con Pivio, autore di oltre 200 colonne sonore, e con Marco Machera e Tony Levin (Peter Gabriel, Pink Floyd, John Lennon e molti altri). Infine i PASE e Alessandra Donati concludono l’album con lo stesso testo con cui era iniziato il lato A ma con una diversa parte musicale.

A questi artisti si affiancano diversi musicisti che hanno collaborato alle registrazioni registrazioni quali Xabier Iriondo (Afterhours) con i Synaesthesia, Eugene con The Mastelottos e Marco Machera oltre ad Annie Whitehead (Penguin Cafe Orchestra e Robert Wyatt) nel brano di Machera. Ci sono anche alcuni intrecci e collaborazioni; Pat Mastelotto suona nella canzone di Marco Machera e Tony Levin mentre lo stesso Machera e Andrea Imberciadori (NuovoNormale) partecipano al brano di The Mastelottos.

www.baraccaeburattini.eu

Supernova: la seconda edizione dal 17 al 21 aprile a Rimini

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Torna a Rimini dal 17 al 21 aprile Supernova, rassegna di arti performative con la direzione artistica di Motus affiancati in quest’edizione da Paola Granato. Questo secondo movimento – realizzato anche quest’anno in collaborazione con il Comune di Rimini e l’Associazione Santarcangelo dei Teatri e con il sostegno della Regione Emilia-Romagna – si connota come spazio di intersezione fra linguaggi eterogenei portando nella città alcune delle voci più interessanti del panorama artistico della scena performativa nazionale e internazionale.

A muovere il lavoro curatoriale di Motus un doppio filo: da una parte, l’estensione capillare nella città moltiplicando i luoghi che sarà possibile attraversare durante la Rassegna, toccando anche spazi non tradizionali per le arti performative. Se il Teatro Galli resterà il cuore pulsante e centrale per Supernova, si andranno ad abitare altri luoghi chiave della città, dal Museo della Città al quartiere di Borgo Marina; da Casa Madiba alla zona del Porto.

È infatti il mare altro fil rouge delle tematiche di Supernova. Una suggestione che è diventata motivo di riflessione su un presente sempre più oscuro che ci porta a temere fortemente per il futuro. Venti di guerra e tanti esseri umani uccisi dalle cieche politiche europee che lasciano annegare persone indifese nel Mediterraneo. Uno spazio di riflessione e di denuncia che vuole aprire alla questione mediterranea come lente cruciale per capire molti dei processi socio-politici del presente. Il Mediterraneo, come archivio, secondo la visione di Ian Chambers e Marta Cariello, che ne parlano come luogo di un presente che non si può nascondere perché restituisce sempre tutto. Restituisce i morti, restituisce gli oggetti estranei che per incuria o per offesa vi si lasciano cadere. Li restituisce, però, quasi sempre altrove, su un’altra riva, a volte molto lontano.

“Il mare, quindi, come luogo delle memorie e dello scorrere del tempo, matrice acquatica che tutto lava, trasforma, scava, eradica e trapianta. Lo sguardo è rivolto a coloro che non ci sono più e, anche, al connubio tra vita e morte, tra il qui e ora e l’altrove. Senza paura di prendere parola e tenere viva la memoria: da questa tensione a non tacere, emerge la bocca/cuore spalancata del manifesto di questa edizione. Desideriamo che alcune cose non succedano mai più, ma la Storia o, meglio, la violenza e l’intolleranza continuano a ripetersi in modo pianificato e sostenuto da nuove tecnologie belliche”, affermano Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande (Motus), nel raccontare la genesi del progetto 2024. E ancora: “È da poco trascorsa la commemorazione della strage di Cutro e le 94 vittime aspettano ancora giustizia. La nostra “democrazia” è naufragata con loro e il governo continua a criminalizzare i migranti e a inasprire la persecuzione delle ONG (e non solo). Vogliamo che Supernova sia una festa, ma anche spazio di pensiero, confronto e denuncia su temi che non possono continuare a essere ignorati da noi artist3.”

Un andamento liquido e morbido, quello di questa seconda edizione di Supernova, ancor più spostato su formati performativi e site-specific, rispetto a lavori più canonici, per mettere al centro la condivisione, la relazione con i luoghi, il dialogo con l3 artist3 ospiti; in una modalità dolce che permette la costruzione di spazi rilassati di incontro.

A ispirare le scelte artistiche di Supernova è stato l’incontro con The Last Lamentation di Valentina Medda, un progetto site specific realizzato in collaborazione con Santarcangelo Festival e che vedrà una tappa a Supernova, nella spiaggia libera della zona del porto, e un’altra a luglio a Santarcangelo.

Il mare, crocevia di diaspore attuali, si fa qui corpo attraverso un’azione corale ispirata all’antica tradizione delle prefiche, che mette in relazione il lamento della Sardegna – luogo di nascita dell’artista – con quello dei paesi limitrofi. Concepito come un rituale a cui partecipare, The Last Lamentation – che vede il coinvolgimento di 12 performer non professioniste coinvolte in un workshop preparatorio – è un pianto condiviso che racconta la tragedia del mare e si estende come un’eco all’intero bacino del Mediterraneo. Un rituale funebre per il Mediterraneo, concepito dall’artista come luogo di attesa, sospensione e trapasso.

Il tema della perdita è affrontato anche in Stuporosa di Francesco Marilungo che, attraverso un’attenta ricerca, attraversa il tema del lutto come dimensione esistenziale privata oggi della sua dimensione comunitaria. L’aspetto culturale e relazionale è ciò che le cinque figure in scena evocano, alla ricerca di una ritualità fatta di forme di mutuo soccorso, antiche formule magiche, danze tradizionali. La musica, composta ed eseguita dal vivo da Vera Di Lecce, indaga i meccanismi ossessivi della ripetizione per entrare in connessione con le figure in scena, guidandole e facendosi guidare.

Memoria e perdita tornano anche in Haunted di Gaia Ginevra Giorgi che sceglie Supernova per il debutto di questo suo lavoro. A partire dal ritrovamento di un archivio radiofonico danneggiato da un’alluvione nel 1994, la poeta, artista performativa e sonora lavora su questi materiali per creare le condizioni di una riapparizione, desiderante e spettrale di questo archivio. Una drammaturgia del ricordo, che riversa nei circuiti sottili dell’analogico una polifonia di field-recordings, registrazioni di lettere, incisioni di sogni, voci, frammenti sonori e suoni live, tra archeologia e immaginazione.

A inaugurare Supernova un’intera serata che avrà come protagonist3 artist3 di diverse generazioni e provenienze che abiteranno in maniera inedita il Teatro Galli. Ad aprire la serata i riminesi Vladimir Bertozzi e Demetrio Cecchitelli con Rovina, un’installazione video e sonora che racconta di crisi, cambiamento e di violenza ecologica. Attraverso l’uso dell’immagine televisiva, d’archivio e il video virale come punto di osservazione dei fatti della vita e della società nel tempo. Le immagini si fondono con forme astratte alterandosi per diventare inafferrabili e dare forma a un’estetica del disastro.

Il Foyer del Teatro Galli accoglierà l’installazione sonora His Dream a cura di Smagliature Urbane dedicata a Lou Pesaresi, performer che ha contribuito a comporre una parte di quella storia underground di Rimini di cui difficilmente si trova traccia scritta ma che è stato, e sempre sarà, parte fondante della più genuina e trasgressiva cultura riminese.

In sala Ressi, Agnese Banti e Andrea Trona, invitano il pubblico a (o), immersione nel suono di Speaking cables, una sound performance in prima italiana, site specific per Supernova. All’interno di un cerchio di piccoli altoparlanti installati nelle geometrie e nel buio introspettivo di una sala vuota, il pubblico è accolto nella condivisione di un ascolto intimo e immersivo, che riarrangia ed espande alcune idee vocali e musicali del dispositivo Speaking cables e ne ribalta la modalità di fruizione. L’ascolto apre finestre su un mondo invisibile, plurale e sognante, in quell’idea ancestrale di suono come “arte della penombra” e di voce come materia originaria che è in grado di condurre ritualità collettive.

La sala musica sarà, abitata dall’azione performativa FABRICA [ AAMOD ] della danzatrice e coreografa Paola Bianchi. Un focus sui corpi operai, corpi misurati, schiacciati dal rullo compressore della produttività.  Corpi operai in rivolta, in sollevazione. Corpi traditi, negati, cancellati dalla Storia. Sarà possibile poi visitare nel foyer del Teatro Galli, l’installazione ANARCHIVIO FABRICA, un ambiente in cui sostare, guardare, leggere, parlare, ascoltare. Sia l’azione performativa che l’installazione sono parte del progetto FABRICA – un’indagine sui corpi del lavoro, un archivio di gesti e memorie restituito allo sguardo.

A chiudere la serata MADRE / Collettivo Acid Tank con UNTITLED#1 un audio racconto tra i confini del djing, radio art, field recordings e raving che abiterà la platea del Teatro Galli.

Il tema del mare apre diverse derive come quella del rapporto con l’acqua e la materia liquida che ritroviamo in alcuni lavori in programma a Supernova.

Pensare l’embodiment come acquatico smentisce la comprensione dei corpi che abbiamo ereditato dalla tradizione occidentale metafisica dominante. In quanto corpi d’acqua ci pensiamo meno come identità isolate, e più come vortici oceanici, scrive Astrida Neimanis nel suo Hydrofeminism: Or, On Becoming a Body of Water. Al tema dell’Idrofemminismo sarà dedicato l’incontro dal titolo Corpi d’acqua, che coinvolgerà diverse artiste presenti a Supernova e sarà condotto da Ilenia Caleo. La performer, ricercatrice e attivista presenterà inoltre, insieme all’attrice e performer Silvia Calderoni, thefutureisNOW? una performance – ospitata al Museo della Città – che parte dall’azione Zen for Head di Nam June Paik del 1962 e che, nell’interfacciarsi con la materia e la sua temporalità, le sostanze liquide, le tracce che esse lasciano e con il qui e ora del corpo, indaga la materia liquida e le sostanze tossiche come forme di scrittura.

Simona Bertozzi con ONDE porta in scena un lavoro che prende forma attraverso una pratica performativa, coreografica e musicale che si apre al presente di corpi protesi e fluttuanti tra estasi, guizzi animali e curvature verso l’evanescenza. Di The Waves, il celebre play-poem di Virginia Woolf, ONDE incorpora la corrente continua delle immagini e la necessità di rigenerarsi nel ritmo, tra momenti di universalità dei moti percettivi.

Madalena Reversa, progetto artistico creato da Maria Alterno e Richard Pareschi, che fonde performing e visual arts, con Manfred condurrà il pubblico in un’immagine audio-visiva proiettandolo in un mal du siècle post-romantico, circondato da un’aura pesantemente oscura fatta di tenebre, frequenze angoscianti e scontri metallici, trafitti da melodie malinconiche che evocano antiche memorie di bellezza.

Proprio al mare si svolgerà parte di una giornata di Supernova. Sabato 20 Aprile si partirà dal centro città con la passeggiata sonora Ciàlte Ciàlte… – realizzata in collaborazione con le associazioni Arcobaleno ed Eucrante di Rimini – e le/gli studenti della Laba di Rimini, del musicista performer Enrico Malatesta che, con la complicità dell3 abitanti del quartiere Borgo Marina, guiderà il pubblico in un inedito viaggio nell’universo sonoro della città. Una performance urbana, un cammino collettivo che volgendosi all’Adriatico produce screziature di suono, transienti per la città di Rimini realizzati con dispositivi portatili di riproduzione del suono e found-sounds. Malatesta conferisce una dinamica performativa all’attraversamento, nell’intento di rendere pubblico ogni corpo che si staglia di volta in volta sul rumore di Rimini. Durante la performance / soundwalk di Enrico Malatesta, realizzata in esclusiva per Supernova,si innesterà l’azione installativa Sempre qua siamo dell’artista indipendente Sara Leghissa. Il progetto apre conversazioni con diverse microcomunità di persone che faticano a prendere parola in determinati contesti, e pone domande su socialità, legalità, marginalità, lotta, costruzione di comunità dal basso e narrazione autobiografica. Le loro parole diventano manifesti da affiggere nello spazio pubblico. Per Supernova ha incontrato alcuni ospiti temporanei di Casa Don Gallo. La camminata conduce al porto di Rimini  per la presentazione di The Last Lamentation di Valentina Medda, dove vedremo le 12 interpreti abitare  la spiaggia al tramonto.

Le sale del Teatro Galli ospiteranno poi i lavori programmati per la serata. In prima nazionale a Supernova, in collaborazione con Lavanderia a Vapore di Torino, Davi Pontes e Wallace Ferreira, duo di performer e danzatori dal Brasile, con Repertòrio N.2. Seconda parte della trilogia coreografica Repertório, volta a concettualizzare la danza come forma di autodifesa. Utilizzando tecniche devianti e informali, abbracciano una genealogia alternativa e sotterranea di pratiche. Attraverso queste coreografie, si impegnano a riflettere criticamente sul mondo che abitano, impegnandosi in un’operazione coreografica che naviga tra immaginazione e intuizione, confrontandosi con la matrice coloniale, razziale e ciseteropatriarcale insita nel pensiero illuminista e occidentale moderno.

A seguire Alos, progetto performativo della musicista e performer Stefania Pedretti che con Ritual II Embrace the Darkness propone un’esperienza collettiva, un viaggio sonoro ed emozionale che integra musica dal vivo, sperimentazione sonora vocale ed elettronica, performance, improvvisazione, arte figurativa e video/art. Nella performance live è rievocata la presenza del vulcano, intesa come creatura polisemantica che incorpora le energie del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra – grazie ad un tessuto sonoro composto da registrazioni realizzate a Stromboli.

Un altro attraversamento geografico attraverso i suoni del Mediterraneo quello proposto da Invernomuto, duo composto da Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi, con Black Med, progetto di indagine e documentazione diviso in diversi capitoli che, tra contesti e geografie differenti, unendo vari frammenti di un mosaico, delinea una possibile narrazione dell’identità europea, articolata e multiforme, in contrapposizione a semplificazioni xenofobe. A Supernova presentano Black Med, – Chapter VIII, un viaggio sonoro attraverso diverse zone di frontiera, complicando le narrazioni basate sulla fissità dei confini europei: linee di terra, oceani e confini armati dagli stati dell’Unione Europea vengono solcati per mostrare l’incoerenza di un’idea di Europa che rifugga le proprie radici transnazionali e migratorie.

Questa seconda edizione di Supernova vede la partecipazione di divers3 artist3 della scena performativa internazionale. Oltre ai già citati Davi Pontes e Wallace Ferreira, il duo statunitense/norvegese, per la prima volta in Italia, composto da Iver Findlay e Marit SandSmark presenterà Donkey (iteration for Supernova) uno spazio meditativo per re-immaginare il “vuoto” lasciato dal passato e forse un futuro più speranzoso. Con un approccio giocoso e immediato, l’opera celebra i compiti più faticosi con un apprezzamento per la resistenza e la dedizione, incorniciati all’interno di un cerchio. Altra presenza internazionale, fortemente desiderata dalla direzione artistica, proprio in relazione ai tragici fatti in corso in Palestina, è quella di Samaa Wakim e di Samar Haddad King, artiste palestinesi, con la performance Losing it. In questo lavoro Wakim si chiede come l’esperienza di crescere in una zona di guerra abbia avuto un impatto sulla sua identità, in un solo che esplora come il trauma delle precedenti generazioni si manifesta sul suo corpo attraverso il movimento e il suono. Un’immersione nei ricordi della coreografa e performer cresciuta sotto l’occupazione. Ideato in conversazione con Samar Haddad King e con una sua partitura live, il paesaggio sonoro è caratterizzato da field recordings registrati in Palestina dal 2010.

Le artiste terranno anche l’incontro pubblico Can you still hear the bombs? I can hear them…  titolo preso dalle prime parole della presentazione del loro lavoro.

All’interno del programma anche l’artista filippino Liryc Dela Cruz, che a Supernova condividerà, in una lecture performance dal titolo Il Mio Filippino: What The Wind Remembers parte di una ricerca che ruota attorno al progetto pluriennale Il Mio Filippino (primo lavoro performativo dell’artista) che sta portando avanti in una residenza a Santarcangelo Festival nell’ambito del progetto In Ex(ile) Lab. La performance ha come punto di partenza uno dei film dell’artista dal titolo Ang Paghahanap sa Alaala ng Simula (The Search for The Memories of The Beginning, 2016), che approfondisce i temi della memoria e della storia perduta dei filippini pre-coloniali. Il film esplora come i colonialisti spagnoli, considerando gli oggetti e le reliquie indigene come simboli del male, li abbiano sistematicamente distrutti nel tentativo di imporre il cattolicesimo nelle Filippine. Un’indagine su come si è plasmata l’identità “filippina” in secoli di dominazione coloniale e schavitù.

Anche quest’anno confermando l’interesse per i progetti partecipativi e per il coinvolgimento della cittadinanza non mancheranno i workshop a Supernova.

La danzatrice, performer e ricercatrice indipendente Anna Basti, in apertura di questa seconda edizione, condurrà Le classique c’est chic! in piazza Cavour. Una classe di danza classica gratuita e aperta a tutte le persone che hanno voglia di mettersi in gioco in un gesto collettivo di cura del proprio corpo e di riappropriazione dello spazio pubblico.

Valerie Tameu terrà un workshop dal titolo Vibrant Bodies. Somatic Seas and Visionary Currents, ideato a partire dalla relazione che intercorre tra l’universo acquatico, la spiritualità e alcune forme di resistenza socio-politica legate al femminismo nero, per arrivare alla pratica somatica, che si rivolge al corpo per la sua possibilità di creare nuovi spazi.

Torna anche il workshop di scrittura NOVA LABORATORIA quest’anno a cura di Laura Gemini e Paola Granato con Eduard Popescu, che ne curerà la parte grafica, in collaborazione con Smagliature Urbane. Le/i partecipanti a NOVA LABORATORIA attraverseranno Supernova sperimentando la scrittura in tutti i suoi formati e facendo un affondo sulle traiettorie tematiche della rassegna e gli aspetti performativi che i lavori presentati mettono in campo. Le scritture generate da queste giornate saranno visibili in una pagina dedicata online e andranno a nutrire Ultranova #2 La fanzine (cartacea) di Supernova a cura di Smagliature Urbane con il supporto dellə attivistə di Pride Off. Una restituzione poco analitica e molto punk di quello che succede dentro e fuori il Teatro Galli.

Supernova sarà anche quest’anno il palcoscenico riminese del progetto regionale E’ BAL – palcoscenici per la danza contemporanea, prima rete a livello nazionale coordinata da ATER Fondazione di cui il Comune di Rimini è partner fondatore che condivide sul territorio emiliano-romagnolo un cartellone per la valorizzazione e la diffusione della danza contemporanea.

Nell’ambito di E’ BAL si inseriscono lo spettacolo di Simona Bertozzi ONDE, Stuporosa di Francesco Marilungo, Repertório N.2 di Davi Pontes e Wallace Ferreira, Losing it di Samaa Wakim e Samar Haddad King e Anarchivio Fabrica di Paola Bianchi.

 

Informazioni e Biglietteria

Biglietteria online attiva da lunedì 18 marzo 2024 su Webtic.

Programma sui canali  www.motusonline.comwww.santarcangelofestival.comwww.teatrogalli.it