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LA CHIOCCIOLINA

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LA-CHIOCCIOLINAQuando voglio darmi arie da esperto, io la chiamo at, ma in Italia è più nota come chiocciola o chiocciolina. Oggi i grafici ne abusano, è utilizzata come segno di tecnologia e modernità. Se in un logo scrivono c@ffè invece che caffè, significa che quello è un bar per nativi digitali, con il wi-fi gratis e tutto il resto…

Invece io mi ricordo che era l’unico segno incomprensibile sulla tastiera del mio primo personal computer, a metà degli anni Ottanta.

Fu un ingegnere americano di nome Ray Tomlinson, uno dei padri di Internet, a darle improvvisa e universale notorietà. Tomlinson infatti sviluppò un sistema di posta elettronica da utilizzare su Arpanet, la rete antenata del Web. Gli serviva un simbolo da inserire tra il nome del destinatario e il nome del server ospitante, e l’occhio gli cadde su quel segno lì.

Erano gli anni Settanta, ma il simbolo @ si trovava sulle tastiere delle macchine da scrivere anglosassoni già dalla fine dell’Ottocento. Si usava in ambito commerciale ed aveva il significato di at the price of, al prezzo di.

La sua storia però parte da lontano. Secondo alcuni, era una contrazione grafica del latino ad (verso) usata dai monaci medievali, molto adusi alle abbreviazioni per risparmiare inchiostro e pergamena…

Di altro parere è Giorgio Stabile, docente alla Sapienza di Roma, che nel corso di una ricerca svolta per la Treccani, ha documentato che il misterioso simbolo appare solo in testi che adottano la scrittura mercantesca, cioè la grafia commerciale usata dai mercanti italiani – in particolare fiorentini e veneziani – a partire dal tardo medioevo. Nel suo articolo L’icon@ dei mercanti sostiene che in origine il simbolo indicasse in realtà la parola anfora nel significato specifico di unità di misura, di capacità e di peso, usato già nell’antica Grecia e a Roma. Nei secoli successivi l’uso dell’@ si diffuse, nel linguaggio contabile anglosassone, come commercial at col significato di at a price of, seguito da un valore numerico indicante la quantità di moneta. E così finì sulle tastiere delle macchine da scrivere e dei computer.

Nel 2010 il dipartimento di Dipartimento di Design del MOMA di New York, diretto dalla leggendaria Paola Antonelli, ha inserito la chiocciolina nella propria collezione.

Per la Antonelli questa acquisizione apre una nuova era, che decreta la fine del possesso fisico dell’opera d’arte: la chiocciola del web appartiene a tutti, ed è un simbolo che merita di essere tutelato da uno dei più importanti musei d’arte moderna del mondo.

@ccidenti.

BILBOLBUL, FUMETTI AD ARTE

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BILBOLBUL-FUMETTI-AD-ARTEDa giovedì 21 a domenica 24 febbraio Bologna torna ad essere capitale della graphic novel e del fumetto d’autore. Si alza il sipario sulla 7ª edizione del BilBOlbul, coinvolgente festival internazionale di fumetto, punto d’incontro/confronto tra grandi artisti e giovani talenti di quest’arte. L’intera città ne è coinvolta (tante sono le location interessate), con incontri, proiezioni, performance, concorsi, laboratori e soprattutto mostre che metteranno in relazione il fumetto e gli altri linguaggi della cultura contemporanea. Le mostre sono la punta di diamante della rassegna. Si potranno ammirare le opere (e incontrarne gli autori) di Vittorio Giardino, Jason, Henning Wagenbreth, Aisha Franz, Lorenzo Mattotti, dei Tonto Comics, dei Mamut Comics, dei Peso Alle Immagini, di Berliac, Allegra Corbo, Luca Vanzella e Luca Genovese, Andrea Zoli, Michelangelo Setola, Silvia Rocchi, Tomi Um, Nicolò Pellizzon, Sam Alden, Sharmila Banerjee, Laura Scarpa, Lorena Canottiere, Alice Milani e Michela Osimo, Marta Iorio, Tracciamenti, Manuele Fior, Emiliano Ponzi, Liliana Salone, Yocci e Fabio Bonetti, di Amenità, dei Remake, dei Lök e di Eleonora Marton. Ma grande attenzione BilBOlbul dedica anche all’infanzia, per far emergere il grande potenziale pedagogico di questo linguaggio con iniziative di divulgazione del fumetto, formazione di nuovi lettori e attività laboratoriali nelle scuole e nelle biblioteche. La Cineteca di Bologna fungerà da polo delle attività per i più piccoli. Info: bilbolbul.net

Udine contemporanea

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UDINE-CONTEMPORANEADormire in centro: Hotel Vecchio Tram; Hotel Clocchiatti Next; zona fiera: Hotel Continental. Udine Città del Tiepolo (4ª edizione): nella seicentesca Villa Manin (Passariano, Codroipo), eccezionale mostra: Giambattista Tiepolo. Luce, forma, colore, emozione (fino al 7 aprile); I colori della seduzione. Giambattista Tiepolo e Paolo Veronese (fino all’1 aprile, Castello di Udine); Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo; Oratorio della Purità. Musei: Casa Cavazzin recente restauro su progetto di Gae Aulenti (Metamorfosi. Le collezioni Moroso fra design e arti visive). Gallerie: Galleria Tina Modotti (all’interno dello storico mercato del pesce, in stile liberty); Gallerie del Progetto (Palazzo Valvason Morpurgo) è una sezione della Galleria d’Arte Moderna dedicata al tema della progettualità in architettura e nel design in Friuli. Visite: Arco Bollani di Andrea Palladio; Monumento alla Resistenza (dell’architetto friulano Gino Valle); Banca Popolare di Gemona del Friuli e Casa Veritti (del veneziano Carlo Scarpa); Ville Venete in provincia di Udine: Villa Elodia (Trivignano Udinese); Villa Beria (Manzano); Castello di Villalta (Fagagna). In provincia di Pordenone: Villa Varda (Brugnera); Castello di Cordovado (Cordovado). In provincia di Gorizia: Villa Locatelli (Cormons); Villa della Torre Hohenlohe (Sagrado). Escursioni: Strada dei sapori e del Friuli collinare (turismofvg.it); Cividale per la visita al Tempietto longobardo. Librerie: Libreria Antiquaria; La Tarantola. Enograstromia: Wolf Sauris (prosciuttificio dal 1862). Locali d’autore: Caffè Contarena in stile Art Nouveau (opera dell’architetto friulano D’Aronco); per un taglio al banco: Osteria al Cappello; per cena a Udine: la Ghiacciaia; nei colli: Osteria Da Toso (Leonacco di Tricesimo) con griglia magica; Agli Amici (Godia), uno dei migliori ristoranti della regione (organizzano anche corsi di cucina). (Roberto Bosi)

*piccoli viaggi culturali consigliati da ProViaggiArchitettura

L’ex magazzino Sir di ravenna

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ex-magazzino-sirSono sicuramente pochi gli edifici abbandonati che possono vantare l’interesse sollevato dall’ex Sir di Ravenna, che da qualche anno a questa parte è salito alla ribalta dell’opinione pubblica. Una pagina facebook dedicata, convegni, conferenze, articoli comparsi periodicamente sulla stampa locale e sul web hanno reso noto ormai a tutti il sigarone, così scherzosamente soprannominato per la sua caratteristica forma allungata. Complice di questo successo potrebbe essere la posizione del complesso, che sorge nel quartiere portuale della dismessa Darsena di Città, coinvolta in un piano di riqualificazione, all’interno del quale è già stata realizzata la Torre del Canale, progettata dall’architetto Cino Zucchi.

L’ex magazzino Sir, adibito allo stoccaggio di concimi chimici per l’agricoltura, fu costruito tra il 1956 e il 1957, su progetto dell’ingegnere ferrarese Elio Segala. L’elemento che più contraddistingue l’edificio è la struttura portante interna, costituita di 34 archi parabolici in cemento armato che nella loro fuga prospettica conferiscono all’ambiente un forte impatto spaziale. La suggestione di questo luogo è stata immortalata dal fotografo Gabriele Basilico, in occasione della mostra intitolata La riqualificazione delle aree urbane in Emilia Romagna. Tale tipologia costruttiva deriva dai modelli sviluppati da Pier Luigi Nervi fin dagli anni Trenta e che hanno trovato ampia diffusione sul territorio nazionale, dove ancora oggi esistono numerosi esempi di questi magazzini, detti paraboloidi. All’esterno una lunga tettoia copre l’intero corpo di fabbrica, che su uno dei due lati è ritmato da quattro piccole torri destinate a stazioni di carico.

Dismesso a metà degli anni Ottanta e utilizzato fino a tempi recenti come deposito di materiale edile, a seguito anche di una sentita mobilitazione da parte della cittadinanza, l’ex magazzino è scampato alla demolizione, mentre ora la discussione sembra essersi spostata sulle modalità del suo recupero. Tutto ciò ha contribuito a far diventare il sigarone una vera e propria star dell’archeologia industriale nostrana.

BIBLIOGRAFIA

I. Zannier (a cura di), Viaggio nell’archeologia industriale della provincia di Ravenna, Longo editore, Ravenna, 1997; G. Basilico, L.R. 19/98. La riqualificazione delle aree urbane in Emilia Romagna, P. Orlandi (a cura di), catalogo della mostra, IBC, Editrice Compositori, Bologna, 2001; F. Santarella (a cura di), Il magazzino Ex-Sir, Ravenna, 2012, in beppegrillo.it.

La fotografia come letteratura

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Nino Migliori, Il tuffatore
Nino Migliori, Il tuffatore
Nino Migliori, Il tuffatore

Il perfetto tuffo, quasi improbabile e atleticamente ineccepibile, che accoglie il visitatore al secondo piano di Palazzo Fava, ci fa riflettere sulla straordinaria potenza del mezzo fotografico. Per Nino Migliori la fotografia è «l’interpretazione del reale», è parola ed è più vicina alla letteratura perché esprime concetti, suggestioni, impressioni, come in un grande racconto, intimo e personale.

Schivo e riservato, lontano dai riflettori, ormai 87enne, Migliori è più conosciuto all’estero che in Italia e, finalmente, questa grande antologica bolognese gli rende omaggio attraverso oltre 300 opere, suddivise in cicli distinti e poeticamente differenti, ma legati da un’unica grande poesia. Artista poliedrico e ricercatore, Migliori non ha mai amato la ripetizione in arte e nella vita, vocazione, questa, che condivide con un altro grande artista, da lui molto ammirato: Pablo Picasso. «Mi guardo attorno e cerco – e trovo – sempre qualcosa di nuovo», afferma, poiché nella vita bisogna sapere sorprendere.

E la sorpresa è davvero tanta alla fine di un lungo percorso che inizia idealmente con un omaggio all’Emilia, attraverso quegli scatti intensissimi che raccontano tutta l’epopea dell’Italia postbellica, in un realismo struggente ma mai retorico. E poi le sperimentazioni delle segnificazioni o il bellissimo omaggio alla Bottega del macellaio di Annibale Carracci, dove, in una sorta di camera oscura si avverte il passaggio di stato della materia che imputridisce e si sfalda, come in quadro informale.

Non poteva mancare un omaggio a Morandi, con cui condivide «la calma sospesa e indefinita» come avverte il critico Graziano Campanini, che ha brillantemente curato la mostra. Ma la sorpresa nella sorpresa è sicuramente l’installazione Orantes, una riflessione attualissima sul ruolo del potere oggi, del gesto dell’inchino e del prostrarsi (metaforico e non), del riverire qualcuno o qualcosa di importante. L’avvicinarsi a questi oggetti in bronzo, tra proiezioni video e un sonoro avvolgente, ci fa scoprire la nullità di quel gesto e la vera essenza di quella platea. Anche in questo caso, una vera e propria sorpresa.

Fino al 28 aprile, Nino Migliori a Palazzo Fava, a cura di Graziano Campanini. Bologna, Palazzo Fava, Palazzo Pepoli, Casa dei Saraceni. Info: genusbononiae.it

L’ultima fatica dei raveonettes

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Se sento una canzone dei Raveonettes penso immediatamente che la metafora abusata per descrivere il loro genere, cioè che sarebbe un sapiente mix tra le vocalità degli Everly Brothers e la musica dei Jesus & Mary Chain, è una bufala di qualche ufficio stampa che ha attecchito tra i pigri recensori. Come i Raveonettes suonano solo i Raveonettes, e l’originalità, loro ne sono una conferma, è la dote migliore per non ballare soltanto un’estate.

Attivi dal 2001, i danesi Sune Rose Wagner e Sharin Foo hanno pubblicato a fine 2012 il loro sesto album intitolato Observator e come sempre lo stanno suonando in giro per il mondo. La data che li porta a Rimini è l’occasione per scoprire qualche segreto della loro carriera parlandone con Sune Rose finalmente guarito dai malanni alla colonna vertebrale che lo hanno costretto ad un lungo periodo di immobilità. Non posso che esordire chiedendogli se le sue condizioni di salute abbiano inciso sul risultato finale delle canzoni.

«Sì, naturalmente. Così vanno le cose, l’ispirazione nasce non soltanto dalle situazioni positive ma anche da quelle negative. Il mio stato d’animo e di salute hanno interessato gran parte del songwriting: in questo album parlo di amore non corrisposto e di promesse non mantenute, è di gran lunga il lavoro più scuro che abbia mai scritto».

In effetti dai testi emerge come ti sia dovuto relegare al ruolo di osservatore della realtà piuttosto che viverla dinamicamente.

«Sai, a volte è necessario fermarsi e guardare il mondo in movimento: le vite intorno a te assumono un ruolo diverso, magari anche di motore della tua vita. Ci si lascia volutamente soli per contemplare il significato dell’esistenza».

Per quanto riguarda le registrazioni vi siete affidati nuovamente a Richard Gottehrer, tecnico del suono del primo album. È un ritorno al passato?

«Richard è un grande produttore, ha lavorato anche con Jerry Lee Lewis e per me è soprattutto un caro amico, anzi di più, considero lui e sua moglie i miei genitori americani. Comunque questo non ha niente a che vedere con il passato, noi guardiamo avanti. Sempre!».

E infatti sul disco c’è la grossa novità dell’utilizzo del pianoforte.

«È uno strumento meraviglioso, lo scopriamo solo ora e quasi per caso: c’era un riff del singolo Observations che non riuscivo a rendere bene con la chitarra, così ho utilizzato un pianoforte e tutto ha suonato perfettamente».

L’impronta musicale, vostro vero marchio di fabbrica, rimane però la stessa: un suono retrò, ma che in realtà scaturisce dall’utilizzo di tonnellate di tecnologia.

«Amo la tecnologia. Sono un nerd che impazzisce a collegare centinaia di spinotti e che gode degli stimoli che vengono dal suono del computer. È sempre stato così. Abbiamo sempre registrato con i computer, senza amplificatori».

Hai dichiarato che Observator potrebbe essere il vostro ultimo album. .

«Probabile. L’idea di fare album non mi interessa più di tanto per i Raveonettes, sento che abbiamo di meglio da offrire, nel senso che preferisco concentrarmi sullo scrivere singole canzoni. Comunque non sono ancora sicuro di ciò che sarà in futuro, ma difficilmente faremo nuovi album».

Tu e Sharin state entrambi per compiere quarant’ anni, come vivi questo traguardo?

«Ne siamo molto felici, personalmente ho sempre desiderato invecchiare!».

Avete già suonato in Romagna cinque anni fa. Hai ricordi legati a quella data?

«Fu fantastico, in generale amiamo moltissimo suonare in Italia e non te lo dico per piaggeria».

 

GIANMARCO PARI

Ps. Suonano al Velvet Club di Rimini il 19 febbraio

Centinaia di chilometri disseminati di crossroads

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Sarà Enrico Rava, assieme a Giovanni Guidi, ad inaugurare l’edizione Crossroads 2013, il 28 febbraio al Teatro De André di Casalgrande (Re). Da febbraio a fine maggio il jazz sarà di nuovo itinerante lungo tutta la regione con nomi internazionali ed emergenti nella 14ª edizione di questa stimolante rassegna, organizzata come sempre da Jazz Network in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia Romagna e numerose altre istituzioni.

Dopo l’inaugurazione con Rava, che tornerà il 14 aprile a Imola (Teatro dell’Osservanza), il mese di marzo sarà dedicato alle voci femminili come fosse una lunga festa della donna nel jazz: un cast di interpreti ad esplorare gli stili più vari. Chi propone la musica brasiliana e il repertorio di Gilberto Gil come Barbara Casini col suo trio Barato Total, (Cesenatico, 2 marzo, Teatro Comunale), chi come Tiziana Ghiglioni rende omaggio a Duke Ellington (Massa Lombarda, 8 marzo, Sala del Carmine). L’intensità della vocalità afroamericana sarà invece nel repertorio di Cheryl Porter, col suo quartetto (Argenta, Teatro dei Fluttuanti, il 15) mentre altre voci femminili saranno quelle di Ada Montellanico, artista che ha definito lo standard vocale del jazz italiano dagli anni Ottanta ad oggi e che sarà presente in duo col chitarrista Francesco Diodati (Solarolo, il 21, Oratorio dell’Annunziata) e quella di Chiara Pancaldi, rappresentante invece delle novità che stanno affiorando sulla scena nazionale, con il suo quintetto (Massa Lombarda, il 22).

Sempre in marzo ci sarà spazio anche per il jazz strumentale come nel caso dell’effervescente duo tromba-pianoforte formato da Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello (Longiano, Teatro Petrella, il 14) e dei tre concerti a Castel San Pietro Terme (Cassero Teatro Comunale) con il travolgente trio BassDrumBone del trombonista Ray Anderson più la performance in duo della danzatrice Teri Jeanette Weikel con il percussionista Michele Rabbia (il 16) o l’incontro tra gli Improplayers e Michele Rabbia (il 17). E siamo solo a metà programma, perché ad aprile e maggio il festival offre ancora tanti appuntamenti fino ad ospitare all’interno del suo cartellone il Ravenna Jazz. Un festival lungo tre mesi che ha per palco l’intera regione Emilia Romagna, passando dal Conservatorio di Piacenza al JazzClub di Ferrara, dal Teatro Asioli di Correggio fino al Teatro degli Atti di Rimini per 40 concerti e oltre 270 chilometri di musica. Un’occasione per gli appassionati di jazz per diventare anche metanisti convinti.

Machweo e Go Dugong al Diagonal

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Per gli amanti della musica electro, questa potrebbe essere un’occasione da non perdere. Al Diagonal, che sempre più spesso dedica i suoi mercoledì alla scoperta delle nuove correnti musicali digitalizzate, sarà previsto un doppio appuntamento con due nomi che meritano. Machweo (foto), uscito a novembre scorso con l’EP No way out descrive la sua musica come dance fredda, lenta e morente. Fredda come il nord, lenta come muoversi in un sogno e morente come un riff che si ripete all’infinito. Go Dugong, che dedica al nome all’animale che ispirò la leggenda delle sirene, ha un suono dance nel senso più convenzionale del termine, che sostiene l’atmosfera del club. Come Machweo, Go Dugong ha prodotto diversi mix ed è uscito a luglio 2012 con l’EP White Sun, un disco che ci sveglia piano come un’alba d’estate. (caterina cardinali)

 

27 febbraio, Diagonal, Forlì,viale Salinatore 101. Info: diagonalloftclub.it

I raggi di sole degli Skarra Mucci

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Direttamente da Kingston gli Skarra Mucci portano al Rock Planet la tradizione della musica jamaicana in tutte le sfumature possibili partendo dal gospel per arrivare alla dancehall più godereccia, passando per il classico R&B e con i più tradizionali passaggi reggae, per soddisfare la voglia di scaldarci da quest’inverno e ritrovare il nostro sole in un giorno di pioggia perché come dicono loro I got my sunshine on a rainy day. Basi sintetizzate con liriche rap e ritmiche dancehall viaggiano nel tempo attraverso le mode e le sottoculture degli Ottanta: this is the Return of the Raggamuffin! (caterina cardinali)

 

22 febbraio, Rock Planet, Pinarella di Cervia (Ra), viale Tritone 77, ore 23. Info: 336 694414, rockplanet.it

Rudresh Mahanthappa, Gamak

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Il nuovo anno si apre con una pubblicazione importante per il jazz moderno: Gamak, il lavoro più recente di Rudresh Mahanthappa, sassofonista americano dalle chiare origini indiane. Gamak è il secondo disco pubblicato da Mahanthappa per l’etichetta tedesca ACT e vede la luce un anno e mezzo dopo Samdhi. Solamente i titoli meriterebbero un discorso a parte: ma le nostre 1.200 battute, mi costringono a rimandarvi alla ricerca in rete dei video di presentazione dei lavori, prodotti dal sassofonista, e a costringervi ad entrare nel suo mondo musicale.

Se questo lavoro diventerà un caposaldo nelle future storie del jazz, lo potrà dire solo il tempo, va da sé. Di sicuro Mahanthappa è un musicista da seguire per la sua capacità di sintetizzare in maniera moderna linguaggi estremamente diversi tra loro: la musica classica indiana e l’improvvisazione radicale, la tradizione del jazz e la frenesia metropolitana di una città come New York.

La presenza della chitarra senza tasti suonata da David Fiuczynski offre una sponda quanto mai essenziale al sassofono di Mahanthappa: l’interazione tra queste due linee, fluide e sinuose, dà vita agli abbellimenti – gamak, appunto, in sanscrito – tanto vicini alla radice indiana quanto alle derive più attuali. La ritmica formata da François Moutin al basso e Dan Weiss alla batteria risponde con un’applicazione costante e serrata alle evoluzioni dei solisti e ne amplia il discorso. L’intenzione di non ripetere quanto già prodotto per proseguire una ricerca del tutto personale da vita ad un disco intrigante, sicuramente non facile ma tanto ricco e denso da attrarre sin dalle prime note l’ascoltatore.

The Ramones – «Do you rember rock’n’roll radio?»

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la-canzone-di-honserSe prendiamo per buona come data di nascita del rock’n’roll il 4 luglio 1954, inizio delle session di Elvis Presley alla Sun Records, ci rendiamo conto che è una data convenzionale esattamente come quel 12 ottobre 1492, scoperta dell’America. E come ogni data convenzionale non è del tutto attendibile.

In realtà il rock’n’roll esisteva molto prima di quel giorno, ed è figlio di un dj, tale Alan Freed. Freed girava da diversi anni tra le piccole stazioni radio dell’Ohio ed era diventato famoso per un programma in seconda serata in cui suonava molti dischi di autori afroamericani che univano blues, country e jazz in un genere molto ritmato e molto contaminato, ancora senza nome né forma. Freed, che in radio si presentava con il soprannome di King of the Moondoggers (Re dei cani che ululano alla luna), si riferiva a quella musica come al rock’n’roll, un eufemismo dei testi della musica blues per il sesso (originariamente un’espressione che indicava un movimento come il rollìo di una nave), e durante le canzoni faceva un po’ di tutto: suonava un campanaccio da mucche, beveva birra e urlava mentre batteva il pugno per tenere il ritmo su una guida del telefono.

I testi delle canzoni erano spesso ambigui e ricchi di doppi sensi sessuali, e versi come she just loved my 10-inch record of the blues (lei ha appena amato il mio disco blues da 25cm) gli costarono svariate denunce. Il suo programma aveva moltissimi fan, soprattutto tra i ragazzi afroamericani della zona, ma anche i bianchi dimostravano di apprezzarlo: la stessa clientela mista che, in una società ancora profondamente segregata e divisa come gli Stati Uniti degli anni ’50, girava in cerca di quel nuovo sound tra gli scaffali della grande collezione di dischi del negozio di Leo Mintz, Rendezvous Record. Mintz e Freed si erano incontrati pochi anni prima: grazie a Mintz e ai suoi contatti, Freed ottenne un nuovo programma all’emittente di Cleveland WJW, nell’estate del 1951. Il grande successo della trasmissione fece venire l’idea di organizzare un concerto dal vivo, che dal soprannome di Freed si chiamò Moondog Celebration Ball.

La sera di venerdì 21 marzo 1952, alla Cleveland Arena di Cleveland, Ohio, si tenne quello che è considerato il primo concerto rock della storia (foto in alto). Il gruppo principale era quello di Paul Williams and his Hucklebuckers, insieme a Tiny Grimes and his Rockin’ Highlanders e i Dominoes and Varetta Dillard. Il biglietto costava un dollaro e mezzo, e la serata era sponsorizzata come il ballo più terribile di tutti (most terrible ball of all).

Ma quando Freed arrivò sul palco e prese il microfono, la folla dei presenti reagì con grande stupore: non potendo credere che il suo presentatore preferito, che mandava in onda gruppi afroamericani per un pubblico in maggioranza di colore, fosse… bianco! E quanto alla risposta del pubblico, la realtà superò ogni aspettativa: quella sera, a Cleveland, una folla strabocchevole prese d’assalto l’Arena e si dispose a vivere le più eccitate e festanti ore che la città avesse mai conosciuto; c’erano circa ventimila persone per una struttura che ne poteva ospitare meno di diecimila, c’era gioia, c’era energia, sul bordo di qualcosa di misterioso, eccitante e pericoloso, e dopo tre ore finì come mille altre volte era destinato a finire nella storia del rock.

A un certo punto cominciarono a premere sugli ingressi dell’Arena per chiedere di entrare, anche se il posto era già strapieno e le porte erano state chiuse. Dopo pochi minuti dall’inizio del concerto, la vetrata della porta principale venne rotta e molti cominciarono ad entrare. La situazione si fece pesante e bande armate presero possesso della sala entrando in motocicletta e compiendo atti vandalici. Dovettero intervenire i vigili del fuoco e la polizia, che arrivò con decine di agenti. Ai musicisti venne ordinato di interrompere il concerto dopo pochi minuti, e per disperdere la folla vennero usati anche gli idranti. Nella calca, un uomo venne accoltellato. Fu il pandemonio. A dimostrazione che, fin da subito, non c’è nessuna terra promessa felice nel rock’n’roll, fin da subito tutto è intrecciato e gioia e dannazione, felicità e disordine, esaltazione e caos, amore e morte sono due facce della stessa medaglia. Il nostro dj Alan Freed riuscì a salvarsi riparandosi nella cabina di trasmissione e regalando ai vandali che lo cercavano per linciarlo i dischi dello show. Lo recuperarono qualche ora dopo, tremante e scioccato, ma con uno strano lampo di follia che gli attraversava gli occhi. Il Big Bang del rock’n’roll era stato appena innescato e iniziava ad espandersi nello spazio, irreversibilmente. Hang the dj, hang the dj, hang the dj.

La primavera dello Zingarò

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Dopo una prima stagione andata più che bene, lo Zingarò Jazz Club di Faenza propone una serie di concerti interessanti. «Il bilancio della prima metà della stagione è senza dubbio positivo – afferma Michele Francesconi, direttore artistico del jazz club – Lo Zingarò è riuscito a mantenere alto il livello dei concerti anche in un momento non facilissimo per l’economia». Le prossime date attraversano il jazz attraverso altri stili, il boogie del trio di Davide Falconi passando per le diverse espressioni della voce di Virginia Viola e Federica Baccaglini, la tradizione del jazz con Andrea Ferrario. Il concerto finale sarà dedicato a due giovani pianisti Silvia Valtieri e Enrico Pelliconi, impegnati in un concerto in trio con la medesima ritmica. Segnaliamo una serata doppia, il 13 febbraio, con la presentazione del libro Oltre il mito, nuovo volume del critico e musicologo Maurizio Franco e il concerto di Maurizio Brunod con un solo vario e coinvolgente, arricchito dalle molteplici influenze presenti nel suo stile.

Faenza, Zingarò Jazz Club, via Campidori 11, info 0546 21560, ristorantezingaro.it

 

Scuoti menti

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il direttore artistico di Transmissions VI, Daniel O’Sullivan
il direttore artistico di Transmissions VI, Daniel O’Sullivan
il direttore artistico
di Transmissions VI, Daniel O’Sullivan

Come la primavera, a marzo ritorna il festival Transmissions a risvegliarci dal torpore invernale e a scuotere le menti con le onde sonore che provengono dal mondo. Questo l’intento della tre giorni organizzata da Bronson Produzioni, che per la sesta volta dalla sua nascita, quest’anno si «avventura nella musica contemporanea» con l’aiuto di Daniel O’Sullivan alla direzione artistica, interpretando il ruolo di traghettatore in una realtà dove il suolo ed il cielo sono fatti di suoni, dove le note si uniscono al significato delle parole e ai colori delle immagini.

Come ci spiega Chris Angiolini, ciò che differenzia il festival dagli eventi precedentemente prodotti dall’associazione culturale Bronson è il forte carattere internazionale di questo viaggio, che dalla scorsa edizione curata da Stephen O’Malley di Sunn O))), presente anche quest’anno in veste di performer, ha spinto coraggiosamente questa produzione in prima fila davanti al panorama contemporaneo mondiale.

Con Daniel O’Sullivan (Ulver, Mothlite, Miracle, Æthenor, Miasma & the Carousel of Headless Horses, Grumbling Fur), Transmissions si presenta più maturo e consapevole delle possibilità che ha di innovare, perciò quest’anno propone nuove attività propedeutiche all’ascolto ma soprattutto al completamento di un percorso artistico a tutto tondo che conferiscono ufficialmente al festival il carattere di multidisciplinarità, il compenetrarsi delle discipline dell’arte; ne è un esempio il workshop sull’uso della voce Feral choir, ideato da Phil Minton, un coro che si fa ferino, bestiale, per riportare la comunicazione vocale dell’uomo ad uno stadio selvaggio e una mostra d’arte accompagnata da installazioni musicali di nomi come Ian Johnston (Coil), Mark Titchner, Simon Fowler, Kathy Ward, Serena Korda e molti altri.

Un altro elemento d’innovazione consiste nel voler avvicinare l’arte al pubblico attraverso degli incontri con gli artisti, curati per l’occasione dalla rivista Wire, famosa per la sua ricerca attraverso gli orizzonti avant della musica e presente fisicamente al festival con il suo stand. Anche la letteratura, nel senso meno popolare del termine, troverà spazio per rappresentare le forme del linguaggio del presente con due letture dello scrittore ed editore Mark Pilkington, della casa editrice londinese Strange Attractor, che celebra la cultura post-contemporanea dell’esoterico attraverso pubblicazioni inaspettatamente affascinanti: per l’occasione alle parole si uniranno le immagini dei dipinti di Raymond Salvatore Harmon, artista contemporaneo che realizzerà un murale in tempo reale.

Come spiega Chris, ogni singola idea posta nel festival non è casuale ma è legata a doppio filo alle altre dal concept della trascendenza, che è contenuto in ogni parte del progetto come un elemento chimico invisibile agli occhi ma percepibile attraverso i sensi. L’obiettivo finale dell’architettura del festival è quello di superare i confini dell’esperienza sensoriale per fondersi in un tutt’uno con la materia di cui è fatto l’oggi, che attraversa ogni cosa come un neutrino, e infine per far sì che ognuno possa uscire «fuori dal proprio corpo attraverso la musica», come riporta lo stesso O’Sullivan. Di questa polimateria è fatta la contemporaneità, ed è così che Trasmissions VI ce la presenta.

CATERINA CARDINALI

Dalla Russia con amore

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Era la fine di maggio 2009 quando con mia moglie decidemmo di intraprendere la grande avventura di adottare un bambino. Lo ricordo molto bene anche per un altro importante momento, purtroppo doloroso, della mia vita. Nello stesso periodo mio babbo, già segnato da un’età avanzata, si ammalò gravemente fino alla fine che avvenne in neanche due mesi. Riuscii però ad accennargli di questa cosa che volevamo fare. Lui non parlava già più, ma capiva ancora bene: come fosse ora ricordo che alzò un dito e disse l’ultima parola che io sentii da lui…

dalla-russia-con-amore

Una volta negli uffici dei Servizi Sociali del nostro Comune per iniziare l’iter dell’adozione capiamo fin da subito che avremmo dovuto armarci di pazienza: la questione sarebbe stata lunga. Partiamo quindi col piede giusto, quello di sapere che ci vorranno almeno tre anni per arrivare al traguardo di diventare genitori. I passaggi per ottenere il via libera dai servizi sociali (il corso ed i vari incontri personali, la fatidica relazione positiva) e poi l’ok del Tribunale dei Minori non comportano particolari problemi, anzi, se non quello di portarsi via un anno e mezzo.

Nel frattempo cerchiamo un Ente a cui rivolgerci per poter fare un’adozione internazionale. Avevamo deciso in questa maniera: avremmo potuto fare la scelta delle adozioni nazionali, ma un po’ per come l’abbiamo vista fin dall’inizio, un po’ perché pare essere ancor più lunga della internazionale, un po’ non sappiamo neanche noi… Siamo andati in questa direzione. Dopo ore su internet gli Enti da noi scelti sono tre. Partecipiamo ai loro incontri conoscitivi e una volta scelto quello a cui appoggiarci diamo il mandato dopo aver fatto il primo corso utile nella nostra Regione (altri 4 mesi se ne sono andati).

Se in principio impari cose interessanti e a cui magari non avevi pensato, con lo psicologo dei servizi sociali che ti affetta un po’ come il burro, sei comunque ancora lontano dalla meta e quasi tutto questo ricade nella categoria «in un certo senso ce lo aspettavamo». Ora invece si inizia a fare sul serio: il livello emotivo viene sollecitato in maniera importante. Le prime simulazioni fatte con l’Ente, i filmati molto crudi che ti vengono messi sotto gli occhi ti fanno uscire dalla cosa bella che stai facendo e ti proiettano nelle difficoltà che dovrai affrontare. Tuttavia anche questo si può superare se il convincimento di partenza è onesto così come il decidere sempre assieme.

A questo punto non resta che attendere l’abbinamento con il bambino. Sappiamo che può volerci un anno ma… colpo di fortuna: dopo circa sei mesi ci chiamano per un abbinamento. Andiamo a Firenze per visionare la scheda ed accettare il percorso del nostro futuro figlio.

Qui comincia il macello emotivo.

In cinque minuti seduti su una sedia guardiamo una foto, leggiamo una scheda e siamo chiamati a dare una risposta che cambierà la nostra vita. Mia moglie si commuove, io sono dietro di lei un po’ al buio e così riesco a nascondere le mie emozioni. Pudore che andrà poi a farsi benedire. Dubbi? Certamente, ma siamo determinati ad accettare ed accettiamo. Il viaggio di ritorno a Faenza con mia moglie è velato da un sentimento così profondo di condivisione e amore che neanche il giorno del nostro matrimonio abbiamo provato. Abbiamo una bambina siberiana.

Dopo un altro paio di mesi arriva la notizia del nostro primo viaggio per fine marzo vicino a Novosibirsk, Siberia. Ah, vicino da quelle parti è un’unità di misura della distanza che equivale a circa 500 chilometri (sette ore in taxi o dodici di treno). Conoscere la bambina è un’emozione di un’intensità che non potevo attendermi. Ciò nonostante ci avvertono: non bisogna commuoversi perché la bimba potrebbe fraintendere. Men che mai un uomo. Un russo che piange non si è mai visto. Così le cataratte si sono rotte solo a sera nella nostra camera, quando io e mia moglie, finalmente soli, ci siamo potuti sfogare. Ho dormito un paio d’ore, lei nemmeno quelle.

Dopo alcuni giorni ripartiamo per l’Italia, lasciando una terra in cui ci hanno accolto molto bene e una bimba stupenda. Non voglio descrivere l’internat (orfanotrofio) perché da fuori fa venire il magone, mentre una volta dentro vedi le dade che si impegnano e comunque ha la sua dignità.

Secondo l’iter dovremmo tornare in Siberia dopo tre-quattro mesi. Cominciamo a scalpitare. Nel frattempo ci teniamo in contatto con la bambina attraverso telefonate appoggiandoci ad un’amica russa. Tutto intervallato da decine di visite specialistiche con medici che chiedono le ragioni di tanti controlli quando la nostra salute è ottima (vagli a spiegare che è obbligatorio per l’adozione).

I quattro mesi di attesa passano ma niente. Richieste di ulteriori documenti (ne abbiamo fatti oltre cento con vidimazioni in Comune, apostille in Prefettura – scritte in blu, non in nero… -, passaggi dal notaio). Via un altro mese, io e mia moglie siamo a pezzi: la bimba è in colonia e non la sentiamo da 6 settimane. Finalmente ci riusciamo ed è quasi peggio: la sua voce non è più quella di prima, è chiaro che non crede più che andremo a prenderla.

Il tempo passa, io sono a terra mentre mia moglie allevia il calvario con pezze di pragmatismo. Con tre mesi di ritardo, arriva la comunicazione del tanto agognato secondo viaggio. A fine novembre si riparte. Lo scoglio ora è rifare in loco tutte le visite mediche ma soprattutto l’udienza col giudice russo che dovrà dare l’ok all’adozione. Ritroviamo la bambina e l’incontro è molto più snello: lei è già più grandina e l’impatto emotivo è meno squassante. Riusciamo anche a non tracollare presenziando alla recita domenicale nell’internat (tale e quale alle nostre, solo senza genitori) con un ottantina di bambini che ci guardano tutti.

Davanti al giudice mia moglie è bravissima, infila anche un discorso in russo di tre minuti (non ne capisco niente). Io invece, appoggiandomi all’interprete, la butto sull’emotivo e racconto la storia di mio babbo nella Guerra di Russia (nel ’42), che durante la ritirata crollando esausto, come molti altri, a terra nella neve, fu soccorso da contadini russi che lo misero in salvo nella loro stalla.

La sentenza è ok, tutti a brindare, ma non c’è più tempo: noi dobbiamo ritornare in Italia e lei purtroppo all’internat. Dobbiamo solo attendere che la sentenza vada in giudicato e tornare in Siberia in pieno inverno, a gennaio, per portarla finalmente a casa con noi. Passiamo le feste di Natale in un turbinio di preparativi, dalla cameretta al necessario da mettere nella sua valigia (chissà come sarà per lei, al telefono ci pare tranquilla).

Ripartiamo dopo la Befana con bollettini meteo che parlano di -40°C. Invece il tempo ci viene incontro e troviamo solo -27°C. Dormiamo una notte in aereo, poi in treno per andare nel paesino a prenderla, poi di nuovo in treno attraverso la Siberia per tornare a Novisibirsk lasciandoci alle spalle il suo mondo. Cosa penserà?

Ora siamo tutti e tre in albergo, distrutti ma carichi. Non c’è tempo, ripartiamo per Mosca con il suo passaporto e lei ha già il mio cognome. Servono i visti consolari e l’accettazione adottiva dall’Italia. Passano tre giorni che paiono anni, giriamo per Mosca come zombie, perché non è il turismo che ci interessa: i nostri rapporti con la bimba sono finalmente di giornate intere e cominciamo ad interagire (nonostante lei parli solo russo).

Finalmente l’aereo per l’Italia, arriviamo a casa emozionatissimi. Impatto buono: la casa le piace e soprattutto la sua nuova camera. Alle 21 va a letto, è cotta. Io e mia moglie ci guardiamo e sappiamo che è partita una nuova vita. Quasi quattro anni dopo averlo deciso, dopo spese che non ci aspettavamo così alte, e dopo 50mila km tra aereo, treno e taxi. Sarebbe necessario snellire il percorso adottivo e contenerne i costi: diversamente il trend continuerà a diminuire. Il 2012 ha visto ridursi del 20% dall’anno prima le domande di adozione complessive in Italia.

Tornando a noi è la spesa emotiva che ci ha piegato le ginocchia in questi anni. L’arrivo della bimba però ci ha raddrizzati in pieno. Non saranno tutte rose e fiori, arriveranno problemi come quelli di tutti i genitori con i loro figli, naturali o meno. Dobbiamo ringraziare parenti, amici e non solo che ci hanno sempre sostenuto durante questo percorso, oltre all’accompagnatrice che ci ha seguito in Russia.

L’ultima parola che mio padre mi disse dopo che gli parlai dell’adozione, che per lui valeva una storia, fu russo. E io avevo già capito tutto.

Ragionamento parenetico

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PREAMBOLO
Il titolo di questo nostro «ragionamento» fa ironicamente il verso al Ragionamento parenetico indirizzato dal sig. abbate G. C. ai popoli delle varie città di Romagna afflitte dal tremuoto, del lughese Giuseppe Compagnoni (Bologna,
Stamperia Lelio Dalla Volpe 1781), scritto all’indomani del terribile terremoto che colpì con due fortissime scosse una vasta area dell’Appennino al confine tra Marche settentrionali, Umbria e Toscana, che comprese comunque buona parte della Toscana (da Firenze a Monte Oliveto Maggiore) e della Romagna (fino a Ravenna). A differenza di quella orazione, decisamente reazionaria nei contenuti in quanto redatta dal Compagnoni ben prima di abbracciare le idee illuministiche, la nostra nota intende stimolare uno sguardo critico e pungolante nei confronti di un uso superficiale e soporifero di certi luoghi comuni legati alle piccole patrie.
La ripetuta lettura di libri e articoli sulla Romagna, che una certa editoria, attenta esclusivamente all’aspetto commerciale, pubblica senza freno, nonché la fruizione di spettacoli, trasmissioni, eventi di varia natura imperniati – ovviamente – sulla Romagna, ci ha indotti a interrogarci, ancora una volta, sul nostro essere per destino romagnoli. E, senza menarne becero vanto alcuno, tali siamo convinti di essere per le seguenti ragioni: le nostre ricerche anagrafiche fanno risalire ad

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oltre due secoli fa la presenza di nostri antenati paterni e materni in terra di Romagna (Bagnacavallo, Cotignola, Faenza, Russi, Terra del Sole). Le nostre origini contadine, bracciantili e operaie rientrano nel tradizionale contesto sociale della Romagna. Siamo anche forniti del regolamentare soprannome di famiglia: J Indgiân (Nadiani), I Balarèn (Savini). Inoltre, e questo è il dato fondamentale, la nostra lingua madre è il dialetto romagnolo, che parliamo e scriviamo in poesia e prosa. Per entrambi la conquista della lingua italiana è stata dura e, osiamo dirlo, abbastanza sicura.
Per queste ragioni ogni volta che ci siamo imbattuti in libri di narrativa o in raccolte poetiche di ambientazione romagnola o in articoli e saggi di carattere storico-antropo-sociologico miranti ad analizzare e descrivere la cosiddetta «etnia» romagnola nei suoi connotati tipici o che ci siamo trovati a essere testimoni di certi desolanti spettacoli romagnoli, ci siamo sempre chiesti se ci riconoscevamo in essi. Troppe volte la risposta è stata: no. E per le stesse ragioni, ora ci sentiamo autorizzati a esternare le riflessioni che seguono, nella speranza che chi ci leggerà vorrà dibattere il problema, allo scopo di super 

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RAGIONAMENTO PARENETICO

[dropcap1]Q[/dropcap1]uesto testo è una domanda e un appello a un tempo.
Se proprio se ne sente l’insopprimibile bisogno, è possibile riconoscersi in un’appartenenza a un lembo di terra dai labili confini e alle sue genti, alla sua storia che, nel bene e nel male, ne ha forgiato lingua (e ora ne sta forgiando di nuove), variegati modi di vita, fedi di ogni tipo, lotte, dolori, passioni, speranze e disperazioni?
È possibile riconoscersi in un’appartenenza a una simile entità senza scomodare il concetto limitato e limitante e, in ogni caso, usato al singolare assolutamente insufficiente, di identità? Un concetto che, per altro, se non è escludente in partenza, tuttavia può precludere un’indispensabile accogliente comprensione dell’altro-da-sé, richiamando esso troppi nefasti momenti della storia dell’Uomo nelle più disparate epoche e latitudini.
È possibile una normale, pacata e non ostentata appartenenza a questo qualcosa che non faccia sfoggio altezzoso della sua esistenza, ma che semplicemente si confronti dialetticamente senza superbia ma neppure complessi d’inferiorità con altre appartenenze, nel tentativo di realizzare la convivenza mediante il reciproco, pacifico e libero riconoscimento per il progresso umano e civile di tutti?RAGIONAMENTO-PARENETICO
Se tale appartenenza è possibile, è altrettanto possibile per gli e le appartenenti poter esprimere liberamente e serenamente il proprio disagio, la propria critica verso quel pervertimento culturale che ha deturpato e continua a deturpare in modo irreversibile la faccia ambientale, paesaggistica, architettonica, economica, di convivenza civile eccetera di quel lembo di terra senza per questo venire immediatamente tacciati di essere dei rinnegati?
È possibile per gli e le appartenenti chiedere a coloro che sentono di poter condividere la stessa appartenenza per nascita, per vita, per scelta o per qualsiasi altra santa ragione, di ribellarsi allo squallido mercimonio delle tradizioni inventate e dei più vieti e farraginosi stereotipi caratteriali, enogastronimici, letterari, spettacolari, turistici, pseudo-folklorici, pseudo-musicali eccetera (che, s’intende, hanno tutto il diritto di esistere e di essere spacciati liberamente da chiunque per il proprio tornaconto e di essere consumati da chiunque, ma prima rimuovendo da essi l’illusoria e fuorviante etichetta dell’unicità/autenticità)?
È possibile chiedere agli e alle appartenenti che si gustano un meritato cappelletto o una sudata piadina con salsiccia, o un’agognata fetta di castrato dopo aver fatto 500 metri di fila e un’ora di attesa alla Sagra della Pera Volpina con l’orchestrina zum-pa-pa che suona in sottofondo in playback, di limitarsi a considerare quel momento di svago e di piacere come un mero momento di svago e di piacere e basta, senza complicarsi la vita a pensare di star facendo un gesto di appartenenza?

È possibile agli e alle appartenenti – mentre continuano a sognare un’agile rete di metropolitane di superficie, simile a quelle esistenti in altre regioni europee avanzate, che unisca senza sosta i suoi diversi nodi – esigere da chi di dovere che il cosiddetto materiale rotabile (leggi: treni), sferragliante rugginosamente su quel lembo di terra, da alcuni definito la California d’Europa, li porti una buona volta rapidamente e sicuramente alle loro pendolari mete di lavoro e di studi senza dover perdere il resto della vita in vane attese e proteste?
È possibile sperare che gli e le appartenenti dotati di spirito d’iniziativa, di capacità e di mezzi diano nuova forma, in modo adeguato ai tempi, a quel lembo di terra dal punto di vista economico (dal turismo, anche sportivo, all’agricoltura;
dall’artigianato alla piccola e media industria; dalla tecnologia all’architettura; dalle attività portuali alla silvicoltura; dai servizi alla cultura ecc.) facendone un lembo d’eccellenza senza comprometterne irrimediabilmente i connotati, bensì prefigurando modi di vita, produzione e gestione alternativi, durevoli e sostenibili?
È possibile per gli e le appartenenti richiedere a chiunque li amministri o li amministrerà di smettere di riempirsi la bocca di termini e sintagmi quali romagnolità, fruttuosa sinergia tra i poli romagnoli; forti legami con la gente di Romagna, aree vaste eccetera, pensando piuttosto a dare il massimo nel loro piccolo metro quadro locale, dove sono chiamati a servire i loro amministrati alle prese con la loro faticosa quotidianità, cessando, dunque, di operare a favore per esempio di anonimi apparati multiutility dell’acqua, della sanità, del rusco?
È possibile richiedere agli stessi e alle stesse di cui sopra di continuare a servire gli e le appartenenti operando fattivamente – e cioè investendo capitali e risorse umane – perché quanto creato nella sua poliedricità e stratificazione dalle fatiche, dalle passioni, dalle lotte, dalle fedi delle precedenti generazioni, che hanno calcato quello stesso lembo di terra, non venga ignominiosamente dissipato e cancellato, bensì sia preservato nelle strutture materiali (ad esempio mettendo in sicurezza i soffitti di biblioteche, scuole e musei prima che crollino) e immateriali (ad esempio lingua, musica ecc. prima che si dissolvano), e sia valorizzato creativamente e – laddove possibile – rinnovato e rimesso in gioco per la crescita culturale, umana, civile e pure economica dei nuovi appartenenti e dei loro ospiti senza per questo venir tacciati di essere degli incorreggibili e passatisti bacchettoni? Se tutto questo (e ben altro) è o sarà possibile, è e sarà possibile definire quell’appartenenza come Romagna.

 

Dici daverio?

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dicidaverio

Straordinario affabulatore, Re Mida della critica d’arte sul piccolo schermo e non solo, attraverso libri, convegni e slanci salvifici politico-culturali, Philippe Daverio sembra avere trovato un passepartout (nome del programma che conduce su Rai Tre, perdonatemi il gioco al quale è impossibile sottrarsi) che gli ha conferito lo scettro di nuovo oratore dell’arte, surclassando il prototipo di urlatore sgarbiano con una piacevolezza tutta francesismi, papillon e grandeur, dove l’intellettuale si fa giullare senza dimenticare di dover essere anche un pizzico engagé. Che la forma ricopra la sostanza, allora.
Lo abbiamo intervistato di passaggio a Faenza, dove la sua Lectio Magistralis ha inaugurato l’anno accademico della scuola di design Isia, omaggiando in un urbi et orbi i tanti studenti entusiasti della presenza di Daverio, che per un’ora e mezza ha ipnotizzato la sala con la solita eloquenza ben esibita dietro i caratteristici occhiali tondi e un sorriso compiaciuto sempre pronto a sgorgare sulla platea.
Ci siamo confrontati con lui in una rocambolesca chiacchierata telefonica, nel quale l’intervistatore stava in auto a motore acceso per poter caricare il telefono jobsiano, avendo rotto il caricabatterie giapponese prestatogli dal
fido Focault e costretto così, quasi fantozzianamente a reggere una stoica conversazione col critico d’arte al ritmo dei tergicristalli in movimento.
Partirei dal rapporto tra testo e immagine, dialettica fondamentale, prendendo spunto dalla tesi di Vilém Flusser, studioso del linguaggio e della cultura, che definisce il testo un metacodice dell’immagine, chiedendole se l’opera d’arte abbia bisogno di testi per essere compresa.
«È una balla. Le immagini che hanno bisogno di un testo non sono immagini. Solo la povertà dell’arte contemporanea richiede l’aggiunta di un testo. La Cappella Sistina non ha bisogno di un testo che ne spieghi la bellezza».
In Perché non starnutire, Rose Sélavy?, opera di Marchel Duchamp del 1964, sembra a mio avviso intravedersi un nuovo modo di percezione dell’oggetto artistico, dove in un qualche modo le avanguardie di inizi Novecento hanno spianato la strada all’arte contemporanea di Damien Hirst e al suo concetto di morte in formaldeide…
«Duchamp è un artista duplice. Ha una sua realtà concreta, oggettiva e goliardica con la quale rompe gli equilibri del XIX secolo e li conclude in una battuta iconoclasta, così come Jarry conclude il culto teatrale e le Gymnopédies di Erik Satie concludono l’estetica musicale. Duchamp invece, per l’ambiguità viene interpretato dagli altri in modo fuorviante. Ambiguità che lui ha sempre alimentato. Damien Hirst è arte pubblicitaria fabbricata a Londra da Charles Saatchi. Questo non toglie talento a Hirst, che è in grado di usare oggetti brillanti e intelligenti».
Sappiamo che ha in progetto di restaurare Palazzo San Giacomo a Russi, già Sgarbi se ne era fatto paladino. A che punto sono i lavori?
«Non ho mai parlato di restaurare, non ho una ditta d’imprese e neppure soldi. Dobbiamo capire che destino gli si può dare, in questo senso andranno valutate le risorse a disposizione».
Lei è promotore del progetto Save Italy per difendere il patrimonio e il paesaggio storico dell’Italia. In una delle puntate del Capitale (programma condotto da Daverio), ha affermato: «C’era una volta l’Italia, era molto bella, ma molto povera. Oggi è molto meno povera ed è molto meno bella». Possiamo immaginare un futuro dove il nostro Paese torni ad essere più bello e rimanga agiato?
«È una scommessa, bisogna applicarsi tentando di sensibilizzare l’opinione pubblica e dare suggerimenti. La mia presenza oggi a Faenza va in questa direzione. Salvaguardia del restauro del paesaggio, perché qui bisogna rifare il Paese e occorre un programma ben definito, ma per farlo dovrei avere il potere che non ho. Togliamo le porcherie dove possiamo e costruiamo con più ordine in luoghi adatti alla costruzione, con delle estetiche che permettano una durevolezza maggiore. Un esempio formidabile sarebbe affrontare il paesaggio emiliano dopo il sisma, e ridisegnare la nostra Italia».
Vive a Milano, ma spesso si è trovato a frequentare l’Emilia Romagna. Vittoria Cappelli a Bologna ha prodotto Passepartout, ora il suo nuovo programma Capitale: è un caso o un incontro d’amorosi sensi?
«Sono vent’anni che frequento questa città, dove ho lavorato molto con Vittoria e la Cassa di Risparmio di Bologna. Bologna mi è molto simpatica; mi piace la via Emilia, da Piacenza a Rimini e la sua capacità di far incontrare popoli  diversi nella stessa cantilena, unendo la passione del castrato a quella del maiale, poi l’emilianità di costruire cose  inattese con dei mattoni in un territorio senza rocce».
Se dovesse stilare una classifica delle meraviglie storico artistiche della nostra regione, cosa metterebbe ai primi tre
posti?
«Non ha una domanda di riserva…?».
Volendo sì, ma si fidi perderemmo tutto il pomeriggio…
«Tutto, dai porticati di Bologna alla Rocca di San Leo».

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Philippe Daverio al Treptower park di Berlino
e, qui a destra, durante la Lectio Magistralis all’Isia di Faenza

 

Ringrazio Philippe Daverio e premo il tasto rosso. Avrei potuto tenerlo al telefono qualche ora, poi avrei dovuto tagliare tutta l’intervista come al solito, perché le battute a disposizione non bastano mai quando si ha a che fare con persone come lui. Penso di aver consumato un deca di benzina, come si diceva negli anni Novanta. Intanto qualcosa che assomiglia a neve inizia a posarsi delicatamente sul parabrezza dell’auto. Un anziano signore bussa al mio finestrino e chiede: «Tutto bene lì dentro?», «Perché mi sta facendo questa domanda?» e lui con occhi ambigui, «È un po’
che osservo la sua auto accesa, non vorrà mica uccidersi, vero?».
Lo guardo indeciso se mettermi a ridere o ringraziarlo, poi dico «Sa che in Messico usano un proverbio che recita così: Il troppo caldo trasforma i cani in lupi».
Mi guarda, e dice: «Ma sta nevicando qui!».
«Appunto, perché non starnutire allora?».

febbraio 2013

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cose-da-pozzi

I vini di Babbo Natale

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I-VINI-DI-BABBO-NATALESono appena terminate le festività, e mi viene voglia di tracciare un bilancio, che non è solo quello della bilancia e del computo dei chili acquisiti, ma vuole esaminare il consumo del vino durante questi momenti conviviali.

Vorrei suddividere i gruppi dei consumatori di vino delle feste in tre categorie: i consumatori abituali; i consumatori delle sole feste; i consumatori compulsivi. Questi tre tipi di consumatori fanno parte di gruppi aperti, che spesso possono compenetrarsi, in circostanze in cui si trovano a doversi frequentare, loro malgrado, come nelle feste natalizie. Ma andiamo ad analizzare i gruppi e le loro caratteristiche partendo dal primo: gli abituali pensano a lungo in maniera maniacale cosa selezionare per i banchetti delle feste, tenendo conto dei piatti e degli abbinamenti, oltre che della possibilità di ben figurare con quegli ospiti che condividono la stessa passione. Risultato? Gli appartenenti a questo gruppo, al quale mi sento purtroppo molto affine, non si rendono conto che questi momenti di festa non sono né una degustazione di tecnici, ne un palcoscenico in cui ostentare i propri saperi, per cui le delusioni sono assicurate.

I consumatori delle feste, cercano invece di recuperare tutti i regali ricevuti, anche di anni precedenti (e quindi spesso morti e pronti ad una sepoltura in lavandino), oltre ad acquistare prodotti di prezzo basso e nome riconoscibile, ai discount. Risultato: ci raccontano, con voli pindarici, una conoscenza e ricerca dei prodotti assai difficile da riscontrare. Ultimi i compulsivi. Questo gruppo ha acquistato solitamente un numero di bottiglie, che sarebbe sufficiente a far brindare una caserma intera per 10 festività natalizie. L’importante è che si percepisca sempre l’abbondanza, a volte indipendentemente dalla qualità, altre anche con prodotti veramente straordinari. Risultato: è il trionfo dello spreco e della decadenza della civiltà dei consumi, anche se messi in rete con il gruppo precedente, potrebbero rifornirli per un virtuoso utilizzo del riciclo per gli anni a venire.

Ma come mai le delusioni sono cocenti per tutti i gruppi?

A vanificare gli sforzi sono una serie di fattori, primo dei quali è il disinteresse di molti commensali sul tema vino che consumano nella totale disperazione di chi si è impegnato nella selezione. Inoltre spesso l’abbondanza dei prodotti e i tempi lunghi di permanenza a tavola, fanno crollare l’attenzione anche ai più appassionati wine lover.

Consigli per l’anno prossimo? Non ne ho, ma vi dico come mi orienterò d’ora in poi: sceglierò sempre una bottiglia che abbia una storia da raccontare perché ha dietro una bella persona, per affascinare gli ospiti. Poi una bottiglia che mi è sempre piaciuta e che non assaggio da un po’, e per concludere, un vino che da sempre desidero assaggiare, ma che per qualche motivo mi era sfuggito. Poi se queste finiranno in pasto alla suocera chiacchierona che aggiunge l’acqua, al nipote con grande interesse per il vino (in quantità) o a chiunque a parte te, che ci tenevi ad assaggiarlo, mi ricorderò che è Natale e sorriderò.