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20 aprile 2013

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pozzi 19 aprile

Antonioni e le città

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Monica Vitti, Eclissi, di M. Antonioni

“UN QUADRO DI MORANDI/Non le linee scandite/ Non le rose sgranate/  Ma dove cresce l’ombra /E l’angelo dimora”.

Monica Vitti, Eclissi, di M. Antonioni
Monica Vitti, Eclissi, di M. Antonioni

Il critico e poeta ferrarese Filippo Secchieri, scomparso l’inverno scorso, trasporta nei suddetti versi inediti la meditazione che Morandi metteva nella pittura, l’aspirazione a un oltre dove l’angelo dimora.

La figlia del regista Michelangelo Antonioni, Enrica, in un’intervista sul rapporto tra le sue opere d’arte e la maniera cinematografica del padre, si rifà alla concezione di solitudine interiore del pittore bolognese: «Giorgio Morandi diceva che l’artista è colui che sa stare da solo in una stanza», e per il quale la stasi non era altro che apparenza, ma il moto senza meta, un fine, che sarebbe potuto terminare nel caos, governava la sostanza, così la concezione intellettuale più diffusa e condivisa da arte ad arte dopo la Seconda Grande Guerra.

Superando la medesima stasi catturata dal De Chirico, che il regista amava, delle piazze ferraresi di un rosso cocente, ma sconfitto dal panorama febbricitante del reale, da cui il pittore fuggiva per giungere ad un iperuranio della memoria finalmente fermo, forse per questo ritraibile e rintracciabile dentro i confini di una cornice. «Vedere per noi registi è una necessità. Anche per un pittore il problema è vedere. Ma mentre per un pittore si tratta di scoprire una realtà statica, o anche un ritmo, ma un ritmo che si è fermato nel segno, per il regista il problema è cogliere la realtà che si matura e si consuma, è proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, come una nuova percezione», affermava Antonioni nel 1963.

Enrica di seguito aggiunge: «Io ero terrorizzata dal cinema. L’ho sempre rifiutato perché il cinema è un’arte molto violenta. Devi usare una tale energia e una tale carattere per dirigere un film, e Michelangelo ne aveva uno molto forte». Probabilmente il sintomo della dicotomia che distingue ogni vivente, la tensione tra due estremi definibili, lo stesso segmento heideggerriano del nichilismo. La luce e la notte di quel Morandi che assimila e fa proprio il disegno cubista, che non presta attenzione al soggetto della tela in quanto tale, ma alla sua proiezione sul rimanente. La pratica del chiaroscuro, sino a smarrire i confini tra un “prima”, il terreno delle radici, e un “dopo”, il cielo in cui si stagliano le silhouettes dei suppellettili abitudinari, e nei colli di bottiglia, negli spigoli, nei «cocci aguzzi» traspaiono i tetti della sua cara Bologna all’alba o al tramonto, non c’è differenza. Morandi che attraversa necessariamente il post-modernismo di Cezanne nella fotografia dei paesaggi, anche se il fine tra i due era ben distante. Fotografia ancora in primo piano in particolare nello studio degli interni, nella collaborazione tra il regista ferrarese e il fotografo Gianni Di Venanzo, con cui lavorò alle pellicole tra il 1953 e il 1962 (Tentato suicidio nell’episodio di Amore in città 1953, Le amiche 1955, Il grido 1957, La notte 1961, L’eclisse 1962). Difatti la luce elettrica, che definisce e ricalca cose e persone sul set, è artificiale e dunque strana e straniante, facendo del singolo un individuo a sé stante. Eppure riesce come non mai a dare corpo ai “nuovi” sentimenti, a manifestare quelle geometrie dell’anima che riflettono una società in tumulto. Rinnova di colpo il look del cinema italiano.

Giorgio Morandi applica il colore come luce stessa, propriamente tono, e in quelli dimessi, subumani, sta il suo silenzio, il ritiro interiorizzato; perciò Antonioni “poeta del silenzio”, nell’amare quella Ferrara grigia e incerta della sua stagione “a colori”, dopo aver lasciato “il bianco e nero” dell’inizio carriera, la primavera. Silenzio sotto alle parole dei personaggi, che non mancano di espressività, bensì d’incisione, di volgere la realtà a loro favore; c’è un sottile nichilismo che serpeggia, il fatalismo umano che fa loro temere l’errore nell’immaginario, e li conduce poi all’errore concreto, fallimentare, all’incapacità di sostenersi separati l’uno dall’altro. Morandi traccia un paradigma della debolezza esistenziale, per cui gli oggetti di casa, le abitazioni sperse, gli alberi solitari, tendono ad un altrove che non si concretizza mai se non nella vibrazione del sé, vibrazione che potrebbe esaurirsi nell’azzardo di una fede, o più generalmente di una speranza, ma è il dubbio, benefico e terrificante al contempo siccome spaesante, che chiude il sipario e impone all’osservatore la parola “fine”. Antonioni che varia da una Ferrara malinconica e taciturna, dove «non si arriva di passaggio» (cit. Edoardo Penoncini, storico e poeta), per caso, invischiati in una perenne nebbia autunnale, metafora di una condizione sociale incontrovertibile, alla luminosità a tutto campo della Roma capitale, ai suoi viali spaziosi e verdeggianti, alla liberazione dalle barriere architettoniche: sede di desideri tangibili. Qui le inquadrature sul collo candido di Monica Vitti, o sul suo sguardo bruno e profondo, riportano alla mente i vetri ovali al posto degli occhi nei ritratti di Modigliani, o i colli femminei allungati. Jacopo Ricciardi, poeta e artista romano, curatore sul “Messaggero” della rubrica Passeggiate romane, nella sua ultima prosa carnale scrive de «l’ombra chiarissima degli occhi, pallida, che nuota intorno al mondo dell’iride persa come fumo…» (Mi preparo il tè come una tazza di sangue, Edizioni L’Arca Felice, 2012), che parrebbe descrivere i solchi intorno a quelli della Vitti (foto) in controsole.

Fino al 9 giugno, Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti, Ferrara, Palazzo Diamanti, corso d’Este, info: www.palazzodiamanti.it

17 aprile 2013, “Un tram che si chiama desiderio”, di Tennessee Williams, diretto da Antonio Latella.

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untram chiamato desiderio«Che cosa resta di noi, di ciò che siamo stati e di quello che siamo oggi?» Sembra chiederci Tennessee Williams con Un tram che si chiama desiderio, uno dei testi teatrali più celebri del Novecento. L’opera allestita innumerevoli volte nel corso degli anni e portata sul grande schermo dalla coppia Kazan – Brando riesce ancora, a distanza di oltre mezzo secolo, a risultare attuale. Stanley Kowalski, polacco rude dai modi burberi, è giunto a New Orleans da qualche anno e ha sposato Stella DuBois; donna per la quale prova un’irrefrenabile passione carnale. Blanche, sorella di Stella, nasconde un passato ingombrante ricco di sfaccettature, lati oscuri, segreti e bugie. Il suo irrompere nella vita della coppia mette a dura prova la stabilità dei rapporti. A furia di raccontare e riaprire vecchi capitoli ormai per lei chiusi, Blanche, giunge alla pazzia e viene ricoverata in manicomio. Nel frattempo Stanley e Stella concepiscono un figlio e con l’arrivo di esso sembra tornare la pace all’interno del nucleo familiare; è uno stato apparente. La moglie del polacco non può e non vuole accettare il destino della sorella il cui crollo è dovuto largamente alle forti pressioni esercitate su di lei da Stanley. Antonio Latella propone una regia diversa dal solito: innovativa, destrutturata e moderna. I faretti puntati sugli sguardi degli spettatori in platea, generano da subito un clima di straniamento, mettendo a disagio il pubblico più vicino al palco, cosicché si cali nella condizione psichica della protagonista. L’uso della luce non si limita a quei faretti, ma illumina e introduce i personaggi di volta in volta in modo differente. È una luce sia rivelatrice, «la lampadina nuda», sia mistificatrice, «il paralume di carta». È una luce, quella del proiettore centrale, che varia dal bianco sanguigno, al blu gelido. Ossia i toni degli stati d’animo di Blanche.

Il concetto di destrutturazione è fondamentale, messo in pratica dal regista tanto nella decostruzione scenografica, frammentata, che rispecchia lo scenario mnemonico di Blanche, la sua capacità di trattenere e collocare i particolari visivi, quanto nello sviluppo a ritroso; difatti l’intero spettacolo può essere inteso come un flashback – espediente narrativo di origine letteraria –, in cui il narratore – Blanche, appunto – dipana la vicenda dal suo punto di vista. La parte del dottore, interpretata da Rosario Tedesco, che dapprima parrebbe una proiezione mentale della stessa Blanche, un alter ego che la difende dai momenti più crudi e di difficile sopportazione, alla fine si scopre sia in realtà lo psicologo con cui lei ripercorre l’intero vissuto, specialmente le sofferenze. E i rumori assordanti, sgradevoli, che contraddistinguono durante lo spettacolo i suddetti istanti, rappresentano il rifiuto da parte della paziente del dolore.

Si tratta di vita in divenire, si scopre passo dopo passo quello che succede sulla scena; lo spettatore non può anticipare ciò che avverrà l’istante successivo e nemmeno chi ha letto il testo o visto altre versioni teatrali. Si è presi in contropiede, travolti da un’onda di dialoghi, silenzi, musiche, luci, rumori, paure inespresse e sguardi. Diversamente dalla pellicola cinematografica diretta da Kazan, i due protagonisti, Stanley (Vinicio Marchioni) e Blanche (Laura Marinoni), sono entità alla pari: entrambi hanno un passato (lei) e un presente (lui) che li accomuna, per quanto la loro impostazione esistenziale li collochi agli antipodi; proprio per questo non avrebbero potuto fare altro che unirsi nell’amplesso, «nella coincidenza degli opposti» (Paolo Ruffilli) si attraggono fatalmente: «Sapevamo fin dall’inizio che sarebbe andata così», dirà poi lui a lei. Altrimenti Blanche, in quanto donna intrappolata in un determinato contesto socioculturale, è vittima del maschilismo e viene strumentalizzata dai modi violenti degli uomini rozzi che la circondano, Stan e Mitch, interpretato da Giuseppe Lanino, che infine riuscirà ubriaco a possederla. In un rapporto non paritario tra i sessi, il piacere non può essere biunivoco, ma solamente di chi domina. Fatale poiché la loro unione fisica, ma non intima, conduce in extremis la situazione – almeno agli occhi di Blanche, più sensibili all’essere umano – alla corruzione e allo sfacelo: nella raffigurazione della nascita del figlio di Stella, interpretata da Elisabetta Valgoi, le risa in sottofondo di Stan, risa crudeli e disumane, trasmutano in un pianto bambino snaturato. La nascita di una nuova vita non purifica – agli occhi di Blanche – le mostruosità di Stanley, dei suoi compari e di quello specifico agglomerato sociale, bensì le perpetua. A loro non è concesso ricominciare daccapo. La climax, ancora una volta letteraria, avviene quando, sulle note di un Rock trasgressivo e un po’ trash, Stan e Blanche ballano compulsivamente all’unisono ai lati del palco: ella s’identifica con il suo carnefice, perciò, diversamente dalla pellicola, sarà lei a “stare sopra” di lui durante il rapporto sessuale, quasi non potesse fare altro, non avesse altra scelta. Non è concessa libertà alcuna alla donna, in nessun comportamento.

L’accento dell’Est Europa di Vinicio Marchioni si addice al personaggio, così l’abbigliamento “da borgata” che bene rimanda al contesto spazio-temporale dell’opera senza però risultare superato o obsoleto, siccome perfettamente in linea con molte realtà della nostra epoca (Tutti i santi giorni, Paolo Virzì).

È intrigante la parte di Eunice, personaggio secondario, inscenata da un uomo vestito da donna, Annibale Pavone; quasi per esaltare i connotati mascolini della figura del film. La quale indossa due t-shirt nel corso dello spettacolo che riportano entrambe un teschio glitter, prima neutro, dopo con i colori della bandiera americana, un “lieve” presagio di morte che, in maniera ossimorica, qui si concretizza nell’incoscienza della famiglia improvvisata, nella mancanza di tatto e di rispetto per gli altri, nel fallimento delle responsabilità nei confronti di chi ama e di chi dipende da qualcuno. Il paradigma della generazione in questione è L’insostenibile leggerezza dell’essere, del ceco Milan Kundera, acuto romanzo esistenzialista che, seppur estremizzandola, racconta quella maturata in un Occidente logorato dai regimi e abituato alla guerra di prevaricazione economica, nonché in balia di un Kitsch basso borghese, qui canonizzato, corrispondente alla perdita dei valori morali, dei significati. Dunque non sembra lontano dalla “norma” il conflitto interiore dei protagonisti.

Lo spettatore non osserva il dramma in maniera passiva, ne è coinvolto, e durante i litigi, i balli, le partite a carte e il sesso è anche lui in quell’appartamento di New Orleans. Amore e psiche si intrecciano sulle note dell’hard rock dei Led Zeppelin e diffidenza, paura, fragilità, ingenuità e barbarie sono i bassi e gli alti che corrono su di uno spartito compatto e concreto, capace di dare vita a uno spettacolo efficace e folgorante. (samuele govoni e matteo bianchi)

Il bello della mattonella

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Esemplare di piastrella turca, seconda metà del XVI secolo
Esemplare di piastrella turca, seconda metà del XVI secolo

Una nuova e importante sezione permanente, ideata dal MIC è stata aperta al Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza (MIC). Si tratta di un percorso che attraversa la storia della civiltà a partire dall’Oriente per arrivare all”Europa.

Su un patrimonio di circa 15mila manufatti, i curatori, Carmen Ravanelli Guidotti, Valentina Mazzotti, Claudia Casali, Stefano Dirani, Rolando Giovannini hanno selezionato circa un migliaio di piastrelle e mattonelle da rivestimento dal Medioevo ai giorni nostri.

Una storia che affonda le sue radici nell’Oriente antico. Ma è sopratutto il mondo islamico a rivestire con mattonelle smaltate in vari colori le pareti di moschee, mausolei, scuole coraniche e palazzi, con esiti di raffinato decorativismo. Abitudine che si diffonde poi in Occidente attraverso la mediazione della Spagna. Sulla scia emulativa degli esemplari spagnoli anche in Italia si radica la produzione di mattonelle e mattoni smaltati che nel XV-XVI secolo rivestono i pavimenti di cappelle, studioli e i soffitti di chiese, per poi conquistare nel corso del ‘600 e soprattutto del ‘700, porzioni sempre più estese di superfici pavimentali e parietali. Con l’introduzione dei mezzi meccanici e dei processi industriali, dopo la brillante stagione Liberty di inizio ‘900, la mattonella supera il discorso strettamente decorativo per divenire mezzo e supporto artistico (come nel caso di Arturo Martini o degli stessi futuristi) e poi nel secondo dopoguerra si diffonde a livello popolare.

Da una raccolta di oltre 10.000 piastrelle industriali, raccolte negli ultimi trent’anni da Rolando Giovannini, con un paziente lavoro di selezione che ha coinvolto i principali produttori e designers non solo italiani è stata ricavata una parte dedicata all’industria della piastrella. Si tratta di un campionario vasto con famose firme da Sottsass alla Campi, da Mari a Munari, da Scanavino a Zauli, solo per citare alcuni nomi.

Museo Internazionale delle ceramiche in Faenza, viale Baccarini 19, Faenza, info: www.micfaenza.org

 

 

18 aprile 2013

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Oggi

Kall me Kat, lo-fi pop al Diagonal

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kall me katKall me Kat alias Katrine Ottosen è una musicista danese del pop alternativo. Qualcuno ha definito il suo genere lo-fi pop. In effetti i suoni minimali provengono da tastiere economiche, quasi giocattolo, accompagnate da pochi altri strumenti campionati, da cui emerge la sua voce armonica esuadente. Nel 2008 è stata ben accolta dalla critica con l’album “I’m In A Polaroid Where Are You?”. Nell’aprile del 2012 è uscita con un nuovo album “Where The River Turns Black”, prodotto e realizzato insieme al batterista Joe Magistro e alla bassista Sara Lee. L’album è stato registrato a Catskill Mountains, nello stato di New York.

Suona mercoledì 17 aprile, alle 22, al Diagonal di Forlì. Info: http://www.diagonaloftclub.it.

Le ceramiche di Caterina Sforza del Moro in mostra a Riolo Terme

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morini al lavoroChi non lo conosce a fatica può comprendere il suo lavoro artistico. Gianfranco Morini, detto il Moro, nell’arte come nella vita, ama giocare, provocare ed esagerare fino alla paradosso goliardico. Fino al 9 giugno espone alla Rocca Sforzesca di Riolo Terme Le ceramiche di Caterina Sforza che ovviamente con la Leonessa di Romagna nulla hanno a che fare. Una grande installazione composta da circa 80 fiori in ceramica sorretti da lunghi steli in ferro sono piantati a terra nel fossato della Rocca e una serie di piatti allestiti nelle sale interne. Morini, da anni ricercatore e professionista nell’industria ceramica, è allievo di un celebre autore come Augusto Betti – purtroppo recentemente scomparso – a cui deve molto della sua poetica e ricerca formale. Nelle sue sculture è l’argilla stessa, con le sue caratteristiche organolettiche, materiche, a dettare legge al processo creativo. Morini è un ricercatore in continuo movimento, che rifiuta la tradizione. Nell’azione artistica si libera delle convenzioni del lavoro industriale, ma anche dell’arte stessa. Distrugge il bel disegno, la bella forma, per concentrarsi sul suo rapporto esclusivo con la materia. Così le sue opere spesso nascono da forme di argilla tradizionali come grandi vasi o piatti che poi vengono maltrattati, implosi, sbrecciati, intrappolati e fusi in cottura con catene o altri ingranaggi meccanici. Allo stesso tempo demolisce il concetto aulico di arte. La sua arte la autodefinisce merd art ceramics ironizzando su tanto hobbismo legato al mondo della ceramica, ma anche sulla sua stessa arte con una citazione alta che fa riferimento alla Merda d’artista di Piero Manzoni. (f.c.)

Fino al 9 giugno, Riolo Terme (Ra), Le ceramiche di Caterina Sforza di Gianfranco Morini, Rocca Sforzesca, info: francomorini.it

aprile-maggio 2013

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Yoga fai da te

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lo_yoga_e_la_meditazioneErano gli anni ’80, precisamente il 1982, al tempo erano in voga le videocassette vhs e il boom di vendita di videoregistratori, quando l’attrice Jane Fonda lanciò la moda dell’aerobica fai da te. La casa si trasformò in palestra e Jane diventò istruttrice personale per chiunque volesse mantenersi in forma. La videocassetta era il mezzo per avere un’ora di ginnastica giornaliera gratuita. Più di dieci anni fa il mezzo tramuta in dvd. Ora basta avere una connessione internet ed è tutto a disposizione. L’unica cosa che serve è la volontà di cominciare e la costanza di proseguire. Basta un click e si risparmia sulla quota mensile della palestra.

Ho scoperto pochi mesi fa, un programma di yoga superlativo. Non c’è un’attrice famosa a condurlo ma una ginnasta slegatissima che mostra le varie posizioni. Un timer indica i secondi da tenere in posa e una musica rilassante fa da sottofondo. I programmi sono diversi: ci sono quelli per principianti, intermedi, avanzati e guru. Le posizioni da tenere sono all’incirca 100 per la durata di un’ora. C’è la possibilità di creare un programma personale selezionando le posizioni da fare. Un calendario segna le lezioni giornaliere così da memorizzare il percorso svolto in un mese. Comodissimo e piacevole.

Per chi invece è un nostalgico degli anni ’80, può sempre acquistare il nuovo corso di Aerobica Dolce, realizzato per le pensionate, di Jane Fonda, ora 73 enne, ma in ottima forma. Adesso lo slogan non è più Feel the burn (sentilo bruciare), ma muovilo o perdilo, dove evidentemente si fa riferimento ai muscoli atrofizzati dall’età.

Ecco il link per il corso: itunes.apple.com/us/app/yoga-free-250-poses-yoga-classes/id383624138?mt=8

di Angela Anzalone

Giardino, photo Monica Ceroni

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photo Monica Ceroni

photo di Monica Ceroni

Nobraino, team vincente

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nobraino_285174Più passione che talento per la palla a spicchi. Così il campo di gioco lascia progressivamente spazio al magazzino della palestra in cui si allenano, prontamente allestito in sala prove. Queste le origini cestistico-musicali dei Nobraino, band riccionese folk rock nata nel 2001 e che dal 2006 – col suo primo album The best of Nobraino – lascia corpose tracce di sé ogni volta che dà alle stampe un nuovo disco. Appena concluso il tour invernale con vari sold out e ad un anno di distanza dall’uscita di Disco d’Oro, la band si concede un mini tour prima del necessario riposo. Nella prima di queste cinque date, il 24 aprile, saliranno al Burrocacao di Brisighella (RA). Aspettatevi una performance di puro divertimento ed autoironia, un atteggiamento da non musicisti che li porta a non prendersi troppo sul serio dissacrando l’immagine delle rock star. Più che una band… una vera squadra vincente.

 24 aprile, Nobraino, Burrocacaco, Brisighella, Zona Terme, info: 335 7578010

Ah, l’amore.

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No, non è una brutta cosa cercare di innamorarsi di un libro. Ci sono libri con cui è amore a prima vista, una copertina, una retrocopertina, un titolo, una rilegatura. Ci sono libri con cui sembra amore a prima vista ma poi non lo è. Così rimangono li, impilati di fianco al letto o nascosti nella libreria, ci guardano di soppiatto e sembrano chiederci: quindi? quando hai intenzione di riprendermi in mano? Si, riprenderli, perché sono rimasti li dopo poche pagine, lette a fatica, sofferte. Non è che sono brutti, se sei un vero lettore quelli brutti non riesci neppure a comprarli. È che sono complicati come l’amore è complicato. E quindi, grande rivelazione, forse vanno letti proprio così. A pezzi, brandelli, un paio di pagine ogni tanto. Trilogia del nord di Céline è li da quasi due anni, ogni tanto ne leggo una pagina, due, un flusso di coscienza complicato, affascinante, folle e magnetico. Impossibile leggerlo di filato. Ci metterò 30 anni a finirlo. Ma non importa. A volte quindi non divori i libri, a volte li leggi a tratti, a volte li leggi molto lentamente. Suttree di Cormac McCarthy ci ho messo un paio di mesi a leggerlo. Tempo inusitato per me. Eppure bellissimo, disperato, frammentato, crudamente umano.Suttree, disgustato da una vita falsa, molla tutto e va a vivere sulle rive di uno sporchissimo fiume. Ladri, assassini, poliziotti, derelitti, fattucchiere, puttane, negri sono i suoi compagni, come miseria, alcool e violenza, incarnate nelle persone che come lui si dibattono nel fango del fiume.

L’innamoramento è una questione di pochi secondi, l’amore… leggermente più complicato.

I libri però sanno aspettarti, non sono come le persone. Se non ti innamori oggi domani saranno ancora li accanto al letto o sulla libreria ad aspettarti. Io ne ho decine. E mi amano tutti.

di Martino Chieffo

Lives Art Week: atletiche esistenziali

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Goodiepal, compositore e performer.

apertura arte foto 1È il primo festival in Italia dedicato alle arti performative. Live Arts Week recupera la fisicità del fare arte e propone un calendario di autori italiani e internazionali che hanno scelto di fare coincidere arte e vita prendendo una posizione e indossandola.

Succede a Bologna dal 16 al 21 aprile al quartier generale del MAMbo per poi allargarsi al Garage Pincio – occasione unica per visitare il rifugio antiaereo costruito sotto il parco della Montagnola – il Cassero e il cinema Lumière. Nasce dalle ceneri di Netmage e Fisco e sempre dalle menti del network nazionale Xing che progetta, organizza e sostiene eventi, produzioni e pubblicazioni a carattere multidisciplinare, di ricerca sulla cultura contemporanea.

A Live Arts Week si affiancano in un unico spazio filmaker, musicisti, danzatori, artisti visivi, performer e designer. «Quello che tiene insieme così tante diverse discipline – spiega Silvia Fanti portavoce di Xing – è lo spazio e il lavoro/compito del curatore. Lo spazio del MAMbo, a partire dall’esterno è stato allestito dal designer Cane di Coda che, insieme a noi, ha voluto creare una continuità tra la città e un luogo così istituzionale come il Museo. Poi c’è anche il tempo. Non vogliamo che lo spettatore venga al festival con il cronometro, entri a vedere uno spettacolo e scappi. Per noi è importante che guardi più progetti. Segua le variazioni di uno stesso lavoro per una settimana. Il nostro non è festival tradizionale, si tiene lontano dalle logiche di mercato e vuole essere un momento di incontro, scambio, riflessione e socializzazione».

E così si comincia il 16 aprile, alle 21, al pian terreno del MAMbo con la ripresa della storica performance Fifty-one Years on the Infinite Plain (1972-2013), ambiente/performance di suoni e proiezioni del musicista e filmaker Tony Conrad, uno dei fondatori del minimalismo e del cinema strutturale americano negli anni ’60. Per tutta la settimana verranno proiettati sei cortometraggi dal titolo Silent Movies Screen Tests opera degli americani Nature Theater of Oklahoma che mostrano un continuum tra arte colta, trash e la vita di tutti i giorni. Per tutta la durata del festival nelle gallerie sotterranee del rifugio del Pincio, sotto il parco della Montagnola, sarà visitabile l’installazione audio-visiva We, the frozen storm della coppia franco-tedesca Marcel Türkowsky & Elise Florenty. Un’opera site-specific costituita da proiezioni video, suoni, bagliori e ombre. Sarà presente per tutta la settimana anche Techno Casa, ambiente performativo di Riccardo Benassi che riflette sul rapporto tra spazio e uomo.

Poi nei giorni successivi molte performance di danza, ne citiamo solo alcune: Muna Mussie, artista attiva tra Bruxelles e Bologna, Dance #2, duo di Eszter Salamon e Christine De Smedt, Komposition, un lavoro coreografico sul «danzare assieme» di Anne Juren, Marianne Baillot. E altrettante performance musicali come quella creata con i richiami per gli uccelli della compositrice Daniela Cattivelli, il solo vocale estremo e fastidioso di Junko, vocalist e strumentista membro fondatore della leggendaria band noise giapponese Hijokaidan, l’americano Sun Araw, Lucio Capece, improvvisatore elettro-acustico. Da giovedì 18 aprile, da non perdere, in un angolo del MAMbo, Goodiepal, compositore, performer, agitatore critico e artista visivo delle isole Isole Fær Øer che si muove per il mondo con la sua bicicletta e costruisce la sua arte a partire dalla critica alle posture dell’arte e della cultura.

STEFANIA MAZZOTTI

16-21 APRILE

LIVE ARTS WEEK

Bologna, MAMbo, via Azzo Gardino 65 + Garage Pincio, via Indipendenza 71 + Cassero, via Don Minzoni 18

Info: 051 331099, liveartsweek.it

Contro il logorio della crisi moderna

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Sono strani tempi. La crisi esiste. E noi non vogliamo certo mettere la testa sotto la sabbia. Tuttavia l’informazione che invade la nostra quotidianità, crea stati alterati della coscienza e sembra abbagliare le nostre menti. Se solo un attimo ci fermassimo a riflettere capiremmo, che in nome del denaro, rischiamo di buttare molti dei nostri diritti e uno dei beni più preziosi: la fiducia nella felicità.

Nonostante i conti, Gagarin resiste. Solo per passione. Perché – e qui rischiamo di essere banali – non è il solo profitto che dà un senso a un’esistenza. Per noi la gratificazione dell’anima arriva attraverso le arti, la generazione di senso e di bellezza. «E’ tempo di pervasione, di coniugare senso e fascinazione (fascinazione, non seduzione: perchè la seduzione è soltanto una tattica, la fascinazione è un’energia). – scrive l’amato maestro Franco Bolelli – Così prendono forme esperienze dove ricerca e comunicazione sono unite fin dall’origine, nascono dallo stesso nucleo. A evitare che la differenza tra cultura alta e culture basse è un raggiro degno di vendere perline agli indigeni».

Questo vuole continuare ad essere Gagarin. Dal 15 aprile faremo la nostra piccola rivoluzione e, in parallelo al mensile, pubblicheremo anche on line. Giorno per giorno, proseguendo la stessa linea editoriale del giornale cartaceo, potremo essere più vicini ai lettori.

Così siete tutti invitati ad intervenire agli articoli con commenti e ad inviarci recensioni, fotografie, video, racconti, graphic novel, argomenti, critiche e consigli. Perchè Gagarin diventi sempre più una piattaforma a disposizione di tutti e un esperimento editoriale creato dal basso.

 

STEFANIA MAZZOTTI

 

 

Tutti in Piazza per Ravenna 2019

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Cassani-175937-480x308Agorà, come la piazza nell’antica Grecia vuole essere un luogo di discussione e di confronto tra tutti coloro che hanno presentato le loro idee per la candidatura per Ravenna Capitale 2019. Tre giorni di incontri aperti a tutti i cittadini che sono interessati a fare il punto sulle visioni emerse nel percorso di candidatura e per discutere pubblicamente le idee finora emerse attraverso l’Open call e i working groups, insieme ad esperti di politiche culturali ed artisti.

La prima giornata (venerdì 19 aprile) sarà dedicata agli Stati Generali della Cultura: rappresentanti delle istituzioni, operatori culturali e artisti si confronteranno sul tema della cultura quale volano per lo sviluppo del territorio. Dopo i saluti del Sindaco Fabrizio Matteucci e del coordinatore della candidatura Alberto Cassani, i lavori saranno introdotti da Roberto Grandi, dell’Università di Bologna, con una relazione intitolata Cultura, sviluppo, territorio; seguirà una tavola rotonda fra gli assessori alla cultura degli enti che sostengono il Comune di Ravenna in vista del 2019: Provincia di Ravenna, Comuni di Forlì, Cesena, Faenza, Rimini e Unione dei Comuni della Bassa Romagna; con loro l’Assessore regionale alle Attività Produttive, Giancarlo Muzzarelli; farà gli onori di casa Ouidad Bakkali, Assessore alla Cultura del Comune di Ravenna, modera l’attore Marco Cavalcoli.

Nel pomeriggio si raccontaPercorso, metodi e strumenti della candidatura di Ravenna e delle città romagnole: relazioni di Nadia Carboni, Project Manager di Ravenna2019, e presentazione delle idee progettuali della Romagna (eccetto Ravenna) da parte dei Comitati Artistico-Organizzativi di Forlì, Cesena, Rimini, Faenza e Comuni della Bassa.

Sabato 20 aprile La parola ai cittadini: l’intera sala dell’Almagià si trasforma in uno spazio ideativo partecipato, seguendo i criteri dell’Open Space Technology, con micro-aree di discussione create da separè per favorire il dialogo e l’incontro; parteciperà Marianella Sclavi, del Politecnico di Milano.

La terza e conclusiva giornata di domenica 21 aprile, infine, vede la volta dei gruppi di lavoro ravennati. La giornata, aperta dai saluti di Sergio Zavoli, Presidente del Comitato Promotore, e Massimo Mezzetti, Assessore regionale alla cultura, viene condotta dai coordinatori dei 15 gruppi che presentano le idee progettuali della città di Ravenna.

Per la giornata del 20 aprile è consigliata la prenotazione.

 

19-21 aprile, Agorà, Ravenna, Artificerie Almagià, info: 0544 482257, ravenna2019.eu

Se la faraona si incorona con le vongole

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faraona2A Bologna, dal 1986 al 2001, ci aprì ben quattro ristoranti, quello in via Nosadella e quello in via Mirasole indelebili nel ricordo, per le nottate tra artisti, intellettuali e bontemponi, buon cibo e vino a fiumi. Appassionato di scrittura, tra un racconto e l’altro, Silverio ha lavorato in cucine prestigiose, come l’Hotel Domo di Milano, o il suo Se il pesce avesse le cosce di Cervia.

A Faenza ci nacque una sessantina di anni fa, e ci è tornò nel 2005, prima al Circolo degli artisti ed ora in un piccolo locale, con un cortiletto e un paio di sale nel seminterrato, arredate e corredate col gusto del bello. Cucina tradizionale più pura, Silverio propone i piatti che gli preparava nonna Giuseppina, classe 1880 o giù di lì. Come la cotoletta alla faentina: una fettina di lombo di maiale lasciata una notte in acqua e sale, battuta, bagnata in un misto di uova, forma e besciamella e poi impanata e fritta in olio e strutto, indi gratinata in forno con un po’ di latte e parmigiano.

Le paste son tirate al mattarello, «a casa mia si mangiavan solo così – racconta – Il primo maccherone l’ho assaggiato all’alberghiero!». Alcuni invenzioni dello chef, come gli aquiloni di pasta (ravioloni ripieni di squacquerone, ricotta e parmigiano, che volano su campi di maggiorana, finocchio selvatico e timo, tra burro e parmigiano) si accostano a piatti ravennati del ’400 come la faraona alle vongole, che la fanno solo Silverio e il mio parrucchiere, Vieri, gastronomo anche lui, che a sentirgliene parlare l’avevo sempre preso per matto, invece… Si riempie un volatile con un chilo e mezzo di vongole, fatte aprire in olio, aglio e prezzemolo, tenendo da parte la loro acqua, e poi si rosola in forno per un’ora e mezza. Si taglia a pezzi, si recuperano i molluschi e si buttano in un battuto di carota, cipollotto, lardo, assieme alla loro acqua e ½ litro di latte. Si lasciano insaporire, poi si uniscono alla faraona giusto il tempo che il latte evapori. Son di quelle robe che altrove te le sogni!

 

Silverio, Faenza, via Cavour 14/A. Info: 0546 682291

L’ennesima polemica sterile

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Non è certo una novità che il dibattito sul cosiddetto vino naturale registri l’assunzione di toni particolarmente accesi, ma quello che si è consumato nelle prime settimane dell’anno è stato un confronto-scontro che ha coinvolto trasversalmente alcuni tra i maggiori esponenti europei del giornalismo di settore e che, proprio per questo, ha il sapore amaro dell’ennesima occasione perduta dal movimento (anche se oggi sarebbe più corretto parlare al plurale) per uscire dalla propria condizione nebulosa.

Un movimento ancora parzialmente immaturo, che nei confini nazionali ha trovato la sua primordiale fisionomia solo all’inizio degli anni Duemila, attraverso la sensibilità di vignaioli come Angiolino Maule (La Biancara), Stanko Radikon e Fabrizio Niccolaini (Massa Vecchia), i primi a comunicare e concretizzare la volontà di produrre vini «come sintesi tra natura e cultura». Il carisma di questi e altri valorosi produttori (come non citare Josko Gravner), resisi divulgatori del pensiero, unitamente al contemporaneo mutamento degli scenari socio-economici internazionali, sono le principali cause dell’esplosione incontrollata che nel giro di pochi anni ha coinvolto questo orientamento.

Una crescita che ha corredato l’essenzialità del pensiero originario di numerose nuove sfumature, sulle quali, invece di compattarsi, il gruppo dei «vignaioli naturali» si è scontrato sino alla scissione in più consorzi, alcuni dei quali arroccati su posizioni radicali e fondamentaliste. Ancora una volta, quindi, lo «spirito anarchico e individualista» del comparto vitivinicolo sembra aver prevalso su una più costruttiva tendenza all’aggregazione, creando di fatto i presupposti per la ghettizzazione attuale che ha sopraffatto le singole frange del movimento.

Non sono il solo a credere che sia più che mai arrivato il momento giusto per una nuova coesione tra i vari gruppi, più impegnati nel proporsi come «movimenti contro» o «anti-convenzionale», piuttosto che in una chiarificatrice attività divulgativa. Anche da qui nasce la confusione che impera tuttora sull’argomento del vino naturale, un termine che non ha allo stato attuale ancora una definizione univoca o ufficiale e che, soprattutto, disorienta il consumatore finale, con l’inevitabile rischio di allontanarlo. Per ironia della sorte credo che sarà proprio il Vinitaly (la stessa manifestazione da cui avevano preso le distanze i primi sostenitori del movimento) a ricompattare a breve le diverse frange. La sezione VIVIT, che l’evento veronese sta riservando ai viticoltori più sensibili sull’argomento del naturale, sta avendo sempre più consensi e sarebbe assurdo non approfittarne. Vinitaly 2013, 7-10 aprile. Vi aspetto qui!

di Filippo Apollinari*

*Collabora alla Guida dei vini del Gambero Rosso ed è autore di www.enocode.com

Piadina Romagnola, un Igp da valorizzare

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Piadina_romagnolaIl cammino verso il riconoscimento dell’IGP alla Piadina Romagnola è cominciato. Dopo aver ottenuto quello su scala nazionale, si è ora in attesa di quello definitivo da parte della Commissione Europea. E intanto, sta movendo i primi passi il Consorzio di Promozione della Piadina Romagnola, sostenuto da un gruppo di produttori locali.

Il Consorzio si è presentato al pubblico lo scorso 22 marzo a Casa Artusi di Forlimpopoli. All’incontro, aperto da una performance di David Riondino, sono intervenuti il presidente Elio Simoni, il direttore Paolo Migani e l’assessore regionale Tiberio Rabboni. Obiettivo del nuovo sodalizio è valorizzare la Piadina Romagnola IGP. E una serie di iniziative mirate in tal senso, hanno già preso il via (degustazioni a Bruxelles e partecipazione al Vinitaly di Verona).

Ma cos’è il Disciplinare IGP (Indicazione Geografica Protetta)? È un documento che stabilisce che, per essere «Romagnola», la Piadina dev’essere prodotta nell’area racchiusa dalle tre province di Rimini, Forlì-Cesena e Ravenna, più 9 Comuni della Provincia di Bologna sul tracciato del fiume Sillaro. Ciò significa che chi la produce al di fuori di questa non potrà avvalersi della definizione «Romagnola» senza incorrere in sanzioni. Ma non solo. Il Disciplinare regolamenta anche come deve essere fatta la vera Piada: le sue materie prime e le sue principali caratteristiche fisiche, chimiche ed organolettiche. Dunque, uno strumento di tutela di un prodotto che, oltre a essere un simbolo della Romagna, rappresenta anche un settore economico rilevante per la nostra regione, con un giro d’affari di circa 90 milioni di euro.

Ma non mancano le obiezioni al Disciplinare, espresse anche durante l’incontro. La principale viene da Slow Food e da Confesercenti, sostenitori del fatto che la vera Piadina Romagnola è solo quella preparata dai chioschi, manualmente, fresca, non paragonabile a quella prodotta industrialmente e conservata nei sacchetti di plastica per la vendita nei supermercati. A questa critica, il Consorzio replica che il Disciplinare dispone, per i chioschi, un’ulteriore valorizzazione fornita dalla dicitura «lavorazione manuale tradizionale». Ma tale accorgimento non pare aver soddisfatto gli oppositori.

aprile e maggio 2013

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No – I giorni dell’arcobaleno, di Pablo Larrain, Cile, Francia, USA 2012

Vincitore della prestigiosa Quinzaine des réalisateurs a Cannes 2012, No chiude una trilogia con la quale il giovane regista cileno ha cercato di raccontare la travagliata storia recente del suo Paese. Se il precedente, Post mortem, era la cronaca, cupa e livida, del golpe del generale Pinochet, vista con gli occhi di un funzionario dell’obitorio di Santiago, No racconta invece l’epilogo finale della dittatura. Nel 1988 i gerarchi decisero, in seguito alle forti pressioni internazionali, di indire un referendum popolare per confermare o meno, per altri 8 anni, il regime. Lo fecero certi del SÌ del popolo, in un Paese piegato da 15 anni di violenze e soprusi, con un’opposizione divisa e quasi clandestina, ed un’economia in espansione. Protagonista del film è René Saavedra (Gael Garcia Bernal), il brillante creativo a cui l’opposizione affida la campagna pubblicitaria a favore del NO. Egli non ha dubbi, l’unica possibilità di vincere è quella di sfruttare i limitati spazi pubblici concessi all’opposizione (15 minuti al giorno nel canale più popolare della televisione), impiegando le innovative tecniche della pubblicità commerciale, le stesse utilizzate per vendere una bibita. Supera le resistenze di chi ritiene questa scelta immorale ed offensiva delle tante vittime del regime, e costruisce una comunicazione che, con linguaggio pop e kitsch e facili jingle (Cile, l’allegria ya viene), prospetta al Paese un futuro radioso e felice, con i colori dell’arcobaleno, da confrontare con i visi grigi e spenti delle cariatidi del governo. Il regime è preso in contropiede ed è costretto ad inseguire l’opposizione sul suo stesso terreno. La sfida, giocata quasi interamente in televisione, viene raccontata con toni quasi da commedia; vi sono alcuni passaggi dalla comicità irresistibile, accanto ad altri in cui incombe un cupo senso di minaccia per chi ha osato attaccare il potere. Il film è girato con un particolare formato che riproduce, con effetto vintage, le caratteristiche dei video dell’epoca. In questo modo il regista riesce ad affiancare alle immagini girate negli studi cinematografici, quelle vere, tratte dagli archivi storici. Dietro i toni lievi e il lieto fine ci pare di intravedere una vena amara, nella consapevolezza che la vittoria è stata ottenuta scendendo a patti con le logiche ed i principi vincenti negli anni del riflusso.

 La città ideale, di Luigi Lo Cascio, Italia 2012

La città ideale non è un’utopia per Michele, architetto di origini siciliane. Egli ha scelto di vivere a Siena per le sue tradizioni di senso civico e buongoverno, nel tentativo di realizzare i valori in cui crede, legati in particolare alla tutela dell’ambiente e all’idea di un rapporto armonioso tra l’uomo e la natura. Le sue convinzioni rasentano il fanatismo e gli impediscono di scorgere la realtà delle cose. Un banale incidente lo fa precipitare in un incubo kafkiano, popolato di personaggi grotteschi, e con una ingiusta accusa di omicidio colposo dalla quale sembra impossibile sfuggire. Per Michele è una duro confronto con la realtà delle cose, vista in tutte le sue ombre e compromissioni. Non tutto nel film convince, si avverte ad esempio una certa artificiosità. Però si apprezza il coraggio del regista (che interpreta anche il ruolo del protagonista), alla sua opera prima, nel perseguire una strada originale ed inconsueta nel cinema italiano (che ricorda, per alcune atmosfere, il Tornatore più metafisico), e soprattutto di cercare obiettivi ambiziosi. Colpisce la scelta di Siena, quando già il mito era incrinato, ma prima del crollo di questi ultimi mesi. Spicca nel cast la presenza della madre del regista, nel ruolo di mamma, e dello zio, un ottimo Luigi Maria Burruano, nel ruolo di un avvocato siciliano che fa lezione di disincanto all’ingenuo protagonista.