
Luna Capalti è una giovane fotografa faentina, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Del suo lavoro mi interessa lo sguardo sul quotidiano, la capacità, non scontata, di stabilire una distanza tra sé e il soggetto fotografato nonostante questo soggetto, nella maggior parte dei casi, faccia parte di una cerchia di affetti familiari. La distanza è quella necessaria per mantenere una visione lucida nel tentativo di raccontare «le cose come sono». Questa distanza, che non preclude un’intima partecipazione dell’autrice, ci indica anche una conoscenza del mezzo fotografico, che qui diventa pratica quotidiana.
Pubblico due fotografie della sorella dell’artista, uno tra i soggetti preferiti.
Scrive la Capalti accanto alle fotografie: «Dopo una serie di capriole. Giulia, estate 2017, Faenza». Non si tratta esattamente di un titolo, ma di un appunto vicino all’immagine. Essendo la fotografia un frammento di spazio e di tempo, sarebbe importante indicarne sempre la data ed il luogo. In generale, trovo che i titoli dati alle fotografie siano spesso fuorvianti e limitativi, per non dire amatoriali. Nel caso di Luna, con “dopo una serie di capriole” abbiamo a che fare più con una suggestione – tra il vero e il metaforico – che con un titolo vero e proprio, un indizio che ci conduce verso una analisi più aperta, svincolata da rigidità formali.
Come avevo detto, preferisco lasciar parlare le immagini, sollecitando chi guarda ad avvicinarsi, ad osservare attentamente, perché questo vogliono le fotografie. Mi ero ripromessa di chiedere agli autori, volta per volta, un pensiero sulla propria opera e sull’opera dei fotografi dai quali si sentano rappresentati: riporto qui di seguito la risposta di Luna, che ci aiuta a comprendere il suo lavoro suggerendoci una chiave di lettura, oltre ad indicarci i nomi di quegli artisti che sono stati per lei un punto di riferimento:
«Quando Alessandra mi ha chiesto di formulare una riflessione sul mio lavoro, ho subito pensato a come la fotografia, soprattutto durante la mia infanzia, sia stato uno strumento fondamentale per ricostruire e raccogliere ricordi, origini e affetti. Ero molto piccola quando ho perso una figura importante e da quell’evento le fotografie mi hanno aiutato a mettere insieme un immaginario visivo e affettivo che già mi apparteneva ma che non riuscivo a ricordare. Quel volto tanto estraneo quanto familiare mi ha accompagnato solo attraverso le fotografie ed è paradossale come buona parte di quello che faccio sia mosso proprio dalla ricerca di quel viso. Tra gli alberi, nei fiori, in mia sorella, nel mare, nella luce. Tra gli autori che preferisco e con i quali sento affinità rispetto al tema della transitorietà della vita ci sono Nicholas Nixon, Alessandra Sanguinetti, Emmet Gowin, per citarne alcuni. Dovendo scegliere un libro in particolare, mi affiderei a Sentimental Journey di Nobuyoshi Araki».