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I Nessi di Alessandro Bergonzoni

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Bergonzoni (1)

Nessi: connessioni, fili tesi e tirati, trame e reti, tessute e intrecciate per collegarsi con il resto del pianeta. O meglio dell’universo: è questo il nucleo vivo e pulsante del nuovo spettacolo dell’artista bolognese. La necessità di vivere collegati con altre vite, altri orizzonti, altre esperienze, non necessariamente e solamente umane, che ci possono così permettere percorsi oltre l’io finito per espandersi verso un “noi” veramente universale.

Per questo spettacolo, Bergonzoni si trova al centro di «una cosmogonia comica circondato da una scenografia prematura», da lui concepita, alle prese con un testo che a volte potrebbe anche essere, e questa è una vera e propria novità, una candida e poetica confessione esistenziale. Senza per questo rinunciare alla visione stereoscopica che è diventata, in questi anni, materia complessa, «comicamente eccedente e intrecciata in maniera sempre più stretta tra creazione, osservazione, deduzione».

Noi ci saremo. Ci vediamo a teatro?

12 aprile, ore 21 – Forlì, Teatro Diego Fabbri – info: 0543 64300, accademiaperduta.it

 

Recensioni visive: Orchidee

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Pippo Delbono, Orchidee - © Monica Rabà

 

 

Pippo Delbono, Orchidee - © Monica Rabà
Pippo Delbono, Orchidee – © Monica Rabà

 

 

 

31 marzo 2015, ore 21 – Ravenna, Teatro Alighieri

 

Fast & Furious 7 ovvero della carne e del metallo

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Vin Diesel Pensieri in libertà su uno dei film di cui si è parlato più spesso nell’ultimo anno, vuoi perché i detrattori han cominciato a sbuffare non appena dato l’annuncio, vuoi perché i fan ha cominciato ad esultare non appena ricevuto l’annuncio (una cosa quasi fidelistica, fidatevi), vuoi perché quasi tutti han cominciato a parlarne non appena si è saputo che uno dei due attori principali si era spataccato con la sua automobile da corsa durante un weekend, come un James Dean risorto e rimorto.

Primo pensiero: il film è una goduria per gli occhi e per la pancia. Tralasciando ogni possibile ragionamento ballardiano sul corpo, la macchina e il corpo della macchina (già fatto con il Crash di Cronenberg e qui, nella saga intera, ripreso e portato all’estreme conseguenze), questo settimo capitolo del franchise veloce e furioso è un possente luna park di coreografie folli (due macchine in derapata su un incrocio e la ragazza che passa al volo fra una e l’altra mentre un drone spara a raffica contro tutto e tutti; un’automobile impossibile da immaginare che attraversa, beffarda idea, tre palazzi a Dubai prima di schiantarsi al suolo). Insomma: l’auteur si vede anche da queste cose qui, da come è capace di rendere plausibile un’idea folle. E chi non ci crede è pregato di cancellare dai suoi appunti sul cinema tutto Minnelli, molta Hollywood a cavallo della II guerra mondiale e il Rocky Horror Picture Show. Siete disposti a farlo? Contenti voi.

Secondo pensiero: il film impenna quando la macchina da presa compie evoluzioni. Ad un certo punto due personaggi si menano come osteopati impazziti e la macchina da presa, presumibilmente montata su un perno rotante e fissata su un carrello laterale, svirgola costringendo lo spettatore a rivedere il proprio concetto di orizzonte. Siamo ancora nella fase “goduria dei sensi”. Ma chi non è disposto a scambiare una conferenza sulla semiotica degli spazi cornice con una notte di sesso fatto bene?

Terzo pensiero: negli ultimi dieci minuti avviene l’inimmaginabile: la vita, quella vera (a voler far bene si dovrebbero introdurre concetti come eterotestuale e extratestuale, ma ve li risparmio) si prende il suo spazio e gli attori mollano gli ormeggi omaggiando la vita del loro collega-amico Paul Walker. Gli sceneggiatori, per fare questo, avrebbero potuto scegliere due strade: far morire il personaggio in uno dei numerosi carnai che si sviluppano lungo la trama (niente di più facile, in ogni serie tv che si rispetti, l’attore che molla l’osso si trova con il personaggio eliminato da qualche male incurabile o da qualche incidente). Oppure avrebbero potuto chiudere baracca e burattini: senza di lui niente, nisba, discorso finito, no more fast & no more furious. Invece hanno scelto una terza strada, più patemica e decisamente straziante, anche per lo spettatore più scafato e avvezzo al disprezzo. Cos’hanno fatto? Non ve lo dirò mai.

Gara Quarto pensiero: vi capiterà di andare al cinema. Quando vi capita guardate bene chi avete di fianco. Io ho visto il film con, a sinistra, una coppia che è entrata, lui si è seduto vicino a me (un po’ più in là, a dir il vero) e probabilmente non si lavava da Natale. Si è seduto e ha detto: “Senti questo odore? È aria viziata”. Seh. A destra avevo il consueto gruppetto di amici che era lì per timbrare il cartellino. Il casino che non han fatto ve lo potrei descrivere come un canaio in cui viene inserito, improvvisamente, un sacco pieno di gatti in calore. E c’erano, ovviamente, i soggetti tipo di questi gruppetti:

Soggetto 1: quello che ha visto il trailer, vuole essere lì ma per far bella figura con la morosa sbuffa e ridacchia (ma dentro di sé gode come un pornodivo con la priapite). Anticipava le battute e le situazioni viste nel trailer pensando di fare il figo e diceva: adesso spacca il gesso con il braccio, adesso salta dalle finestre, adesso c’è la ragazza con le mutande blu

Soggetto 2: la ragazza del ragazzo di cui sopra, che è lì perché spera di farsi regalare la borsa di Prada ed è venuta a vedere Fast & Furious 7 per far piacere al moroso.

Soggetto 3: la ragazza più in là che ad ogni situazione dice: adesso me ne vado, non è possibile, torno a casa.

Soggetto 4: quello che non sa come pronunciare Fast and Furious e dice fasenfuriuz fezzenfuriuzz faseinfaurioaus plisanderstend. Per tutta la durata del film.

Ecco. Se vi capita di andare al cinema e siete uno di questi soggetti di cui sopra, sappiate che c’è uno come me, che vorrebbe vedere il film in pace, senza rompicoglioni a destra e senza dover imprecare ogni volta che da sinistra arriva l’afrore tipico di pollo arrosto andato a male. Grazie.

1%. E’ la frazione del Pil che l’Italia destina ogni anno alla cultura. Ecco come riescono ad arrivare alla fine del mese i musei romagnoli

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Il Mar di Ravenna

 

Il Mar di Ravenna
Il Mar di Ravenna

Il settore culturale in Italia produce il 5,8% del Pil e gli occupati, all’interno di questo comparto nevralgico, sono 1,4 milioni. Ciò nonostante la spesa pubblica destinata alla cultura è in continuo calo e rappresenta ormai solamente l’1,1% del Pil. Si tratta dell’investimento più basso dell’intera Unione Europea, persino la Grecia concede più di noi con l’1,2%. I finanziamenti pubblici, in dieci anni, sono complessivamente calati da 7,5 a 5,8 miliardi di euro. Nel nostro Paese dunque sembra mancare la progettualità, la volontà di credere che il settore culturale possa generare sviluppo economico e crescita occupazionale.

All’interno del vastissimo patrimonio culturale italiano spiccano senza dubbio i musei. L’Italia è infatti la Nazione del museo diffuso con oltre 3.600 istituzioni. In particolare, l’Emilia Romagna è sede di un ottavo di tutti i musei italiani con ben 440 unità, seconda solo alla Toscana.

Naturalmente anche i musei soffrono a causa della scarsità dei finanziamenti. Ciò è vero anche per le principali realtà emiliano romagnole su cui si è focalizzata la mia ricerca ossia: i Musei Comunali di Rimini, il Museo d’Arte della città di Ravenna, il Museo Internazionale delle Ceramiche e il Museo Carlo Zauli di Faenza e i Musei Civici di Imola. Si tratta anzitutto di soggetti in grado di proporre un’offerta culturale ricca e distintiva e che, grazie ad essa, riescono ad attirare un numero significativo di visitatori.

I Musei Comunali di Rimini, nel 2013, hanno registrato ben 153mila presenze grazie soprattutto ad una rilanciata attività espositiva e alla vocazione turistica della città. Il Mar attrae a Ravenna in un anno, in media, tra le 30mila e le 40mila persone, a seconda dell’attività espositiva proposta. Il Mic invece ha conquistato, nel 2013, 36mila visitatori, in aumento rispetto agli anni precedenti. Più vecchi e più bassi i dati che riguardano i Musei Civici di Imola che hanno registrato, nel 2012, 13.700 presenze, numeri sicuramente in aumento visto il completo riallestimento che ha interessato il Museo di San Domenico. Infine, il Museo Carlo Zauli ospita mediamente, nel corso dell’anno, circa 5mila visitatori, risultato positivo se rapportato alle esigue dimensioni dei suoi locali.

Nonostante il buon andamento delle affluenze è diventata assolutamente strategica l’attività di ricerca di finanziamenti e sponsorizzazioni tra i privati per poter sopravvivere e crescere ulteriormente. Nessuno, ma in linea con la quasi totalità dei musei italiani, possiede però una figura interna o esterna che si occupi esclusivamente di fundraising. I motivi sono essenzialmente due: l’esiguità delle risorse economiche a disposizione e il sottodimensionamento degli organici. Non per questo, però, i «nostri» musei romagnoli non ricevono finanziamenti da soggetti privati. Tra i principali finanziatori troviamo almeno una fondazione bancaria. Le fondazioni sono dunque in controtendenza rispetto alle politiche pubbliche e sembrano considerare il settore culturale un potenziale motore di sviluppo economico e sociale.

Presenti ma ancora limitati invece gli investimenti provenienti dalle imprese. Le cause principali che, in questi anni, le hanno allontanate dall’investimento culturale sono state agevolazioni fiscali scarsamente attrattive e la congiuntura economica negativa. Ma ora sembra essere sempre più necessario riuscire a far sì che la cultura sia considerata dalle imprese un fattore di crescita e attrazione del proprio territorio e che quindi possa diventare una voce d’investimento attraverso la quale esprimere la propria responsabilità sociale.

Ancora più marginale è il peso dei finanziamenti provenienti da privati cittadini. D’altronde, in Italia, le erogazioni liberali ammontano solamente a circa 16 milioni di euro contro, ad esempio, i 372 milioni di sterline donati in Gran Bretagna: un confronto davvero impietoso.

Al momento mancano quindi sia una cultura della donazione privata, sia una politica fiscale attrattiva. Il decreto cultura, entrato in vigore a fine luglio del 2014, ha come obiettivo proprio l’introduzione di strumenti fiscali adeguati. In particolare, il cosiddetto Art Bonus ha suscitato grande interesse ed attesa. Questo provvedimento permette a coloro che erogano contributi a favore dei musei di beneficiare di detrazioni fiscali al 65% fino al 2015 e al 50% per tutto il 2016. In attesa che questa normativa entri pienamente a regime si è rivelato interessante analizzare come i «nostri» musei gestiscano la propria attività di fundraising. Vi è una sostanziale differenza tra le istituzioni museali pubbliche e quelle private. I musei con ordinamento giuridico pubblico ovvero Mar, Musei Civici di Imola e Musei Comunali di Rimini svolgono questa preziosa attività tramite l’assessore alla Cultura del comune di riferimento. I due musei con ordinamento giuridico privato, ossia il Mic e il Museo Carlo Zauli, la gestiscono invece principalmente tramite la Presidenza e la direzione, con un grado di autonomia maggiore. Questa più ampia autonomia appare a sua volta correlata con una capacità più elevata di instaurare vere e proprie partnership con soggetti privati. La gestione di questi rapporti, duraturi ma anche dinamici, richiede inoltre ai due musei una strategia di fundraising davvero innovativa e in costante evoluzione. Ma in contraddizione con quanto detto, ciò non significa che la strategia di raccolta di finanziamenti dei tre musei pubblici raggiunga risultati inferiori. Anzi.

In Romagna il primo museo per finanziamenti privati ricevuti è infatti il Mar di Ravenna. Seguono i Musei Civici di Imola e i Musei Comunali di Rimini che sono riusciti ad attirare finanziamenti, soprattutto sponsorizzazioni culturali, da un ampio gruppo di soggetti privati. Ciò significa che gli assessori alla Cultura sono capaci di esercitare un peso maggiore di chiunque altro su importanti realtà private. Bisogna però capire quanto e quando le aziende siano poi veramente lungimiranti e interessate alla vita di un museo e alla crescita culturale del proprio territorio.

Nel frattempo, grazie al Decreto Franceschini, tutti i musei dovrebbero imparare a pianificare e a svolgere l’attività di fundraising in modo sempre più continuativo e professionale cercando di instaurare partnership o sponsorship attive con i finanziatori privati. Attive significa ideare eventi e progetti condivisi che coinvolgano direttamente il marketing e l’immagine dell’azienda. In parallelo lo Stato dovrebbe continuare a garantire, sulla scia del decreto cultura, il giusto contesto per i finanziatori privati tramite incentivi fiscali e semplificazione burocratica, mentre, dalla loro, gli enti locali dovrebbero intensificare l’azione di sensibilizzazione verso i privati del proprio territorio sottolineando il ruolo e l’importanza dei musei.

Questo sarebbe il migliore dei mondi possibili. Senza queste condizioni simultanee purtroppo il nuovo decreto cultura rimane isolato e l’Italia continuerebbe a non «sfruttare» il suo inestimabile patrimonio culturale, tra i più ricchi al mondo.

*L’articolo è tratto dalla ricerca della mia tesi di laurea «Il fundraising in ambito museale: attività strategica e condizione di sopravvivenza». Relatore Prof. Mario Minoja. Anno accademico 2013/2014. Corso di Laurea strategie e condizione di impresa, Università di Modena e Reggio Emilia.

Chi ha figli deve essere penalizzato per vedere le mostre?

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OLYMPUS DIGITAL CAMERALe mostre sono esposizioni di quadri e simili, i mostri, invece, coloro che le organizzano decidendo di impedire l’ingresso ai passeggini.

A causa del mio lavoro di attrice, sono spesso in viaggio col bimbo al seguito e ho sempre visitato allestimenti vari, accedendo agli spazi espositivi con il pargolo comodamente seduto nel suo girellino.

Il giorno di Pasquetta, a Rovigo, il personale preposto alla mostra “Il demone della modernità” mi ha impedito l’ingresso con il bimbo al seguito, dormiente nel suo girellino. Il tutto in maniera brusca, e indelicata.

Incredula, ho chiesto come si comportassero in altre situazioni analoghe, ad esempio con un disabile. Mi è stato risposto che in quei casi si fa un’eccezione. Un’eccezione!? Mi è stato chiarito che gli encomiabili organizzatori hanno previsto di fornire, su richiesta, una loro sedia a rotelle a eventuali non deambulanti (come se il trasbordo dalla sedia propria ad una fornita da altri non fosse umiliante e spesso non percorribile) e a chi, invece, abbia avuto la malaugurata idea di essere genitore può essere fornito un marsupio (articolo inutilizzabile da chi avesse un bimbo treenne del peso di 16 kg circa, o da chi avesse già un bimbo al collo e altri ulteriori da gestire).

Mi chiedo: chi ha figli deve essere ostacolato di proposito all’ingresso alle mostre? Ciò è in linea con l’intento di stimolare i più piccoli alla cultura?

La parola che mi viene in mente è: vergogna! Per chi nel 2015 ragiona come nel medioevo e non tiene in considerazione le esigenze di tutti e le politiche a tutela dei disabili e della maternità rispetto alle quali da decenni è stata attuata una campagna di sensibilizzazione a 360°: vergogna!

Questo vale e deve valere per l’esposizione di Rovigo come per qualsia altra, precedente o futura, ipotizzi veti simili.

Se esigenze pratiche ostano all’ingresso di persone su 4 ruote, ciò significa che la mostra è stata allestita male o in un luogo non idoneo: si sarebbe dovuto progettare diversamente o altrove. Ricordo di avere visitato spazi espositivi in cui l’accesso non solo mi è stato consentito, ma dove ho trovato anche “La stanza delle coccole” in cui cambiare il bambino, allattarlo, ecc…

Io non ho potuto, e di conseguenza non ho voluto, visitare la mostra di Rovigo, e farò altrettanto se in futuro dovesse ricapitarmi un problema simile.

 

MARIA PIA TIMO

 

 

 

Cosmetic: pop indie all’italiana

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Cosmetic
Cosmetic
Cosmetic

Cosmetic è una band indie rock (tanto per restare vaghi) di Rimini. E fin qui nulla di nuovo, si potrebbe quasi pensare di associarla ad una formazione qualsiasi da ascoltare in mezzo al marasma di echi di chitarre distorte durante un festival infinito di un’estate romagnola.

Se non che i ragazzi hanno una storia un po’ più solida, avendo iniziato a strimpellare nel 2000, con cambi di formazione annessi e con 4 album pubblicati più ep vari. Per questo motivo, quando parliamo di questa band indipendente ci riferiamo ad un modo di fare musica che ha tenuto poco conto degli altri, pur continuando a suonare per tutti.

Così succede che il loro album Conquiste, l’ho ascoltato anche io, che di musica indipendente italiana non ne so molto. Però la prima cosa penso è che questo sia pop. Pop e indie, praticamente un ossimoro. E questo dovrebbe farci pensare ancora una volta che dire “indie”, etichettando un genere, non ha molto senso. C’è chi potrebbe pensare che essere indipendenti sia un limite, ma per loro non è così. Si può dire che con i 4 album pubblicati in 8 anni hanno lavorato a testa bassa riuscendo a comunicare in modo chiaro e riconoscibile attraverso i brani, per poi arrivare a pubblicare l’ultimo album per la Tempesta Dischi, dal nome “Nomoretato”. Una “conquista” (credo) per qualsiasi band indipendente che vuol farsi sentire un po’ di più. Una “lenta, conquista” (cit.).

Fin ad ora, però, non ho parlato molto di musica. Lasciando stare le influenze musicali, che comunque potrebbero andare a pescare dallo shoegaze degli anni ’90 alle band italiane tra Tre Allegri e Verdena (già un’inquadratura non male), c’è da dire che i Cosmetic sono fin troppo ascoltabili per restare nella lista infinita di band dai nomi assurdi a cui oramai siamo assuefatti.

Per questo consiglio di andarli a sentire nelle due date in programma per l’Emilia Romagna al Freak Out di Bologna e all’Arci Pulp di Parma. (caterina cardinali)

 

 

 

8/04 Bologna, Freak Out Club, via Zago 7c, ore 21 info freakoutclub81@gmailcom

17/04, Parma circolo Arci Pulp, via Monte Sporno ore 22, info: 0521 254675

Imagines Mundi

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Imagines MundiSpazio immaginario e luoghi della memoria. La geografia del medioevo era fatta di ricordi e tradizioni, più che di esperienze dirette e di viaggi reali. Le mappe servivano ad elencare popoli e città piuttosto che a descrivere la forma fisica della terra. Come scrive Umberto Eco, queste mappe erano “Imagines Mundi, che cercavano maggiormente di soddisfare il gusto del meraviglioso, raccontando di paesi, lontani e inaccessibili”.

Da queste considerazioni, prende avvio la ricerca di Francesco Casolari (Bologna, 1982), che nelle sue incisioni stravolge la concezione delle rappresentazioni del mondo contemporaneo, inteso come realtà globale e globalizzante allo stesso tempo, arricchendole di un vasto fluido di persone, luoghi e oggetti bizzarri, proprio come le rappresentazioni cartografiche medioevali. Da New York a Parigi, passando per Copacabana, Oslo e Firenze, le città contemporanee sono descritte come un insieme di allucinazioni, icone pop, modelli architettonici. Una mappa visionaria, un’imagines mundi, che è traccia narrativa di un tempo e di uno “spazio” zero in cui tutto si moltiplica nell’ordine di immaginare una nuova prospettiva visuale. Le incisioni di Casolari si rivelano come delle vere e proprie “allegorie universali, dove creature meravigliose e riferimenti reali non contano più come singole unità riconducibili al contesto come l’abbiamo standardizzato nella memoria, ma come parti di un ecosistema in continuo movimento e trepidazione. Uno schema imperfetto di una precisione fantastica, proprio come la vita.”

 

LEONARDO REGANO

Fino al 24 aprile

 

Imagines Mundi

Bologna, Spazio9 Aposa, via Val d’Aposa 1/C

Orari: lunedì-venerdì 10.00/13.00; 15.00/18.00 – sabato su appuntamento

Info: tel. 051/0390684 www.spazioaposa9.com

Bologna ai tempi dell’Expo

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Bologna ExpoAncora pochi giorni e Milano darà il via alla tanto attesa Expo, che, secondo le previsioni, porterà in città circa 20 milioni di turisti durante i sei mesi di apertura. Eventi di risonanza mediatica colossale, fin dalla prima edizione londinese del 1851, le grandi Esposizioni Internazionali si sono rivelate strumenti fondamentali per lo sviluppo economico, politico e sociale dei territori in cui venivano ospitate. Per non parlare dei simboli a cui si legavano, costruzioni create ad hoc e destinate a cambiare il volto delle città ospitanti. Cosa sarebbe oggi Parigi senza la Tour Eiffel, Seattle senza lo Space Needle o Roma senza l’E.U.R.?

Sulla scia di questi grandi eventi internazionali, nel 1888 Bologna ospita la prima Grande Esposizione Emiliana, allestita all’interno dei Giardini Margherita. Un avvenimento di risonanza nazionale a cui presenzia la famiglia reale e che si divide in tre sezioni: Musica, Industria e Agricoltura e Belle Arti. L’Expo del 1888 è stato l’apice di una serie di iniziative volte allo svecchiamento della città e del suo sistema economico, che allora constatava di poco più di 150.000 abitanti di cui solo il 4% era impiegato nel settore industriale.

Curata da Benedetta Basevi e da Mirko Nottoli, “Expo Bologna 1888” è solo il primo di un interessante ciclo di appuntamenti dal titolo “Ri-scoperte”, che i due storici dell’arte hanno ideato per promuovere la conoscenza del patrimonio librario e archivistico e delle ricerche condotte nella Biblioteca di San Giorgio in Poggiale.

E se volete scoprire cosa è rimasto in città di questo grande evento, allora non vi resta che visitare la mostra: l’appuntamento è per mercoledì 8 aprile alle 18.30 in via Nazario Sauro 20/2.

LEONARDO REGANO

dall’8 aprile fino all’8 giugno

 

Bologna Expo 1888

Bologna, Biblioteca d’Arte e di Storia di San Giorgio in Poggiale, via Nazario Sauro 20/2

Orari: lunedì – venerdì 9.00 /17.00; sabato 15.00/19.00

Info: tel. 051/199.36.338, email: info@genusbononiae.it, www.genusbononiae.it

Happy Easter

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Eugene Chadbourne, avanguardia, canzoni e politica

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Eugene ChadbourneTra improvvisazione, country, blues e jazz. Al Boca Barranca arriva Eugene Chadbourne insieme al batterista tedesco Schroeder.

Eugene è una figura storica dell’avanguardia newyorchese degli anni ’70. John Zorn lo scelse come collaboratore ancora prima di Marc Ribot. La sua band storica si chiamava Shockabilly e furono i primi a mescolare negli anni ’80 blues, free jazz, rock’ n’roll, la musica all’impegno politico. Ha suonato con tutti i grandi, oltre a John Zorn, Fred Frith, Derek Bailey, Han Bennink, Carla Bley Band, Paul Lovens, René Lussier, Toshinori Kondo, piuttosto che a Jello Biafra, Turbonegro, They Might Be Giants, Sun City Girls, Violent Femmes, Zu.

Ora come solista suona il banjo e il dobro, ma non ha perso la sua radice sperimentale e politica, continuando a cantare di ingiustizie, diritti e libertà.

Suona stasera, 3 aprile, al Boca Barranca. Da non perdere.

 

3 aprile, Marina Romea (Ra), Eugene Chadbourne, Boca Barranca, viale Italia 301, ore 22, info: 0544.447858

Il 13 aprile esce “Auguri Alberta”: il pop-folk immaginato di Farnedi

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La copertina di "Auguri Alberta"
La copertina di "Auguri Alberta"
La copertina di “Auguri Alberta”

Lo sanno tutti: se oggi vuoi fare musica ci sono due strade, i talent e l’indie. Poi c’è Enrico Fanedi, che non lo sapeva e si è messo su una strada sua. Caso strano nel panorama romagnolo, il cantautore di Cesena esce il 13 aprile con l’ultima fatica, Auguri Alberta, che da classificare è faticosa altrettanto. Dieci tracce tutte sorelle e tutte diverse, per un artista che in tasca ha due o tre carte d’identità: estrazione classica (tromba al Conservatorio), gavetta da turnista sui palchi italiani (Cochi e Renato), collaborazioni con la musica illustre della zona (Sacri Cuori, Lo Stato Sociale, Saluti da Saturno) e amici sparsi un po’ ovunque, dai Quintorigo ai Good Fellas, la swing-band di cui fa parte dal ’97. Personalità multipla, e il disco rispecchia.

«Rock’n’roll», può sembrare, e in effetti in Nuovo Nero il riff d’inizio ammicca (ma non sono gli AC/DC di Meltdown? L’attacco è quello, giuro), o la stessa Rocchenròl, che già nel titolo promette le scintille, ma presto il musicista si ricompone e torna a suoni più gentili, da ragazzo per bene.

«Pop» allora, ma poi ascolti Vendemmia, dolce ritratto della nostra Resistenza, con un’anziana signora in bicicletta e il sogno della tregua dalle bombe e dai fucili: un bel testo, si capisce che c’è qualcosa di più.

«Folk», si ipotizza, con gli ukulele e i cembali, le chitarre e certi cori casalinghi, e anche qui c’è un po’ di vero: le storie di Auguri Alberta hanno tutte i piedi in quel «pantano bello denso» di Romagna, «che non ti lascia andare via», come ha scritto di sé lo stesso Farnedi. Neve, per esempio: un ricordo dell’imbiancata leggendaria che sommerse Cesena nel 2012. Ma a guardare da Cesena al mondo, più al di là del proprio orto, il musicista prende il largo tra i ricordi di una “Spagna rossa e gialla” (in Agosto a Cerdanyola), o incappando con la mente nell’”inchiostro della Cina”, nel “Giappone a metà aprile”, su quel Vulcano addormentato che dà il titolo al momento migliore del disco. Già: Con i pesci in mezzo al vento / con le fiabe dentro agli occhi / non lo so se sono sveglio: non esiste viaggiatore più felice di chi immagina, e l’eclettico Farnedi sembra averlo capito, mettendo i sogni in spalla e curiosando tra le proprie fantasie di romagnolo peregrino. Il rischio è quello di perdere il filo, disgregarsi, e tra le troppe identità non saper scegliere la meta; ma come Alberta fu la donna coraggiosa che raccontano, di Farnedi va premiato il coraggio d’imbarcarsi ancora in quel suo pop senza talent, rock senza indie, folk duty-free dove pescare gioia in libertà. Fragili sì, qualche volta, ma con l’ukulele in mano per guarire dalle noie e ripartire.

INTERVISTA – Farnedi non nasconde l’entusiasmo: «Sono felice di Auguri Alberta. Quando tempo fa ho presentato il disco, a Forlì, ho trovato un pubblico attento e amico: gente dalla Romagna, ma anche tanti forestieri arrivati da lontano, che si sono messi in viaggio e hanno pagato un biglietto per amore della musica: dunque è ancora possibile!».

In che senso?

«Beh, il mondo della musica in Italia non è più come in passato: si avverte stanchezza, forse c’è poco rispetto per chi fa questo mestiere: vien facile rassegnarsi. Ma situazioni come quella dell’altra sera incoraggiano: mi vengono in mente certe realtà all’estero, in Germania per esempio: pensa ai grandi raduni di biker, dove quando il concerto comincia tutti si fermano e ascoltano».

Parliamo dell’album: questa Alberta esiste davvero? Pare sia la donna in foto, nel booklet del disco…

«Eccome se esiste. Alberta è una signora di Modigliana che per tutta la vita si è saputa reinventare, passando dal lavoro in fabbrica all’antiquariato, fino ad approdare alla scrittura. Rappresenta la volontà di uscire dal sistema e di non subire regole preordinate, un valore che mi sta molto a cuore. Negli ultimi anni ci ho riflettuto molto, e il tema dell’omologazione si ritrova spesso nei miei testi. Tutto comunque era partito da una specie di tormentone sul web, “Auguri Alberta” appunto: quasi uno slogan, da lanciare come augurio o portafortuna…».

La tua musica però parte da lontano: l’esordio con i Good Fellas è del 1997. Le collaborazioni continueranno?

«Sì, con i Good Fellas torneremo presto in teatro; poi c’è Big!Bam!Boo!, il progetto insieme ai fratelli Costa. Come musicista, avere alle spalle tutti questi anni di frequentazioni e gavetta è una fortuna, che spesso agli esordienti di oggi manca».

Dunque come si vive di musica, nel 2015?

«Faticoso [ride]! C’è tanto da lavorare, e mancano certezze. Il fatto è che un artista lavora in ogni istante, anche quando non sembra. Però vale la pena: visto da fuori è qualcuno che non combina nulla, e invece… chissà, forse sta pensando alla prossima canzone».

 

 “Auguri Alberta” è il secondo album di Enrico Farnedi, dopo “Ho lasciato tutto acceso” del 2013. Esce il 13 aprile 2105 per l’etichetta Brutture Moderne / Sidecar.

MICHELE BARTOLETTI STELLA

The Blackhat di Michael Mann

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BlackhatNon mi ricordo se già in qualche post precedente ho scritto che penso che William Gibson sia uno dei padri putativi della contemporaneità, intesa proprio come “vita contemporanea”, e anche se non lo fosse e qualcuno avesse da eccepire, bene è uno dei miei scrittori preferiti. In Neuromante, libro che ha superato quest’anno i trent’anni di vita (è del 1984), si teorizzavano quasi tutte le novità con cui abbiamo a che fare quotidianamente. E oltretutto è uno scrittore, Gibson, che ha ispirato una valanga di film, più o meno direttamente. E questi film, quasi tutti, hanno un clamoroso difetto di fabbrica, una specie di smagliatura visiva che li rende prevedibili e immediatamente riconoscibili (e non deve essere considerato un bene): fanno del cyberpunk un luogo tutto simile a se stesso, sporco, pieno di gente invelenita, fangoso, polveroso, con persone piene di aggeggi meccanici impiantati addosso e con i cattivi che vivono circondati da una demenziale corte dei miracoli in cui c’è sempre uno con i capelli rasta, uno con i capelli a cespuglio tenuti fermi da un paio di occhiali da saldatore e uno a cui hanno amputato qualcosa. Ah, e tutti hanno i denti marci. A rileggere i libri di Gibson, papà del cyberpunk e di buona parte delle invenzioni tecnologiche con cui ci confrontiamo, tutto questo lerciume non si nota. Anzi, paradossalmente, la gente con cui i protagonisti dei suoi libri si confrontano sono persone mediamente ricche, circondate da mezzi all’avanguardia e che ragionano su procedimenti di marketing e coinvolgimento emotivo di grandissimo livello. E si, questo succede sia nel ciclo di Bigend sia in quello dello Sprawl (luogo noto a chi ascolta i Sonic Youth).

Tutto ‘sto pippone per arrivare a The Blackhat, l’ultima fatica di Michael Mann (forse definitiva, visti i risultati al botteghino e all’incomprensibile brutalità con cui è stato accolto dai siti più autorevoli di cinema…e questo la dice lunga sulla qualità di certe prese di posizione). Perché a pensarci bene questo film è la più precisa, e vicina, definizione di film cyberpunk che si possa immaginare allo stato attuale delle cose. E quindi della nostra contemporaneità. E non è tanto la trama, sebbene sia maledettamente intrigante, spionistica e cibernetica, ma sono proprio la qualità dell’immagine e del ritmo che fanno la differenza. Tutto quello che gli è stato osservato come contrarietà (eh si, trama figa ma lenta e melmosa nello sviluppo) non è altro che il carattere principale del genere a cui fa riferimento: nel cyberpunk le cose non si svolgono come nei tre Matrix, dove a tratti si sviluppavano coreografie di botte da far impallidire contemporaneamente Stallone, Schwarzenegger, Bud Spencer, Terence Hill e Tsui Hark. Nel cyberpunk si procede per stupore immaginifico, per raccordi digitali, per 1 e 0 che si rincorrono nella rete cercando le giuste alchimie fisiche da raggiungere. Il cowboy Case di Neuromante è il fenomenale Nick Hathaway interpretato da Chris Hemsworth, Kassar ricorda il colossale, e ambiguo, Bigend, la bellissima Chen Lien è una fra le tantissime, indimenticabili, protagoniste dei libri di Gibson. Ma non è solo questo. La pasta dell’immagine, la fotografia, le inquadrature “nel cuore della motherboard”, con i dati che illuminano un percorso articolato quante sono le matrici da percorrere, le tastiere riprese dall’interno. Michael Mann costringe lo spettatore a confrontarsi con il proprio io meccanico, con la propria identità digitale, con il proprio essere cybernativo. Una visione tanto sconcertante quanto infinitamente accogliente. The Blackhat è un abbraccio velenoso, un colpo di fucile al sistema, la rappresentazione definitiva dell’universo cyberpunk. Che è il nostro presente.

Difficilmente altri seguiranno questa strada, il sentiero è segnato ma resterà imbattuto. E questo, per gli spettatori, è una sconfitta.

Howe Gelb e Grant Lee Phillips: due voci, due chitarre

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howe gelb e Grant Lee PhillipsDue mostri sacri della tradizione rock americana insieme in unico concerto, questa la formula scelta da Howe Gelb e Grant Lee Phillips, leader storici rispettivamente di Giant Sand e Grant Lee Buffalo, per il loro tour Europeo che toccherà anche l’Italia con quattro imperdibili concerti, di cui uno questa sera al Bravo Cafè di Bologna.

, classe 1963, ebbe fama mondiale con i Grant Lee Buffalo, band che segnò gli anni ’90 con due dischi eccellenti come “Fuzzy e “Mighty Joe Moon” (quattro in tutto quelli prodotti) e grazie a cui venne votato migliore voce maschile dell’anno (1995) dal magazine Rolling Stones. Poi la carriera solista con sette album all’attivo (l’ultimo è “Walking Green Corn” del 2012).

Howe Gelb, classe 1956, è leader dei Giant Sands, band di culto che ha percorso più di vent’anni di rock alternativo, rileggendo le radici e le tradizioni della musica americana con un approccio non convenzionale e visionario. Fondatori negli anni 80′ del cosidetto desert-rock, per via della capacità di coniugare il verbo post-punk con le atmosfere aride della frontiera, col trascorrere del tempo “il deserto”, assoluto

 

2 aprile, Bologna, Howe Gelb e Grant Lee Philips, Bravo Cafè, via Mascarella, info: 3335973089

Mater: e luce (non) fu

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Dea Madre
Dea Madre
Dea Madre

 

«170 opere provenienti da 70 musei e collezioni. 30 studiosi coinvolti. 1300 metri quadrati di esposizione. 67 milioni di euro il valore complessivo. Opera più antica: IV millennio a.C. Opera più recente: 2014».

Il tema, che lo si consideri da un punto di vista artistico, storico, antropologico o psicanalitico, è da far tremare i polsi: «La mostra si propone di esplorare l’aspetto sacrale e archetipico della maternità e il suo ruolo fondamentale nella cultura mediterranea attraverso una selezione di capolavori archeologici e artistici».

Riconoscimenti istituzionali: Alto Patronato del Presidente della Repubblica, Patrocini del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, della Regione Emilia Romagna e della Diocesi di Parma.

Mica pizza e fichi, insomma.

A fronte di tutto ciò, lascia decisamente interdetti l’allestimento, sia per quanto riguarda la disposizione spaziale delle opere che, soprattutto, per la scarsa, a tratti finanche sciatta, illuminazione di parte di esse: luci simil-neon e varie lampade spente o fulminate, che sviliscono chi guarda e ciò che è guardato. Un vero peccato.

Detto questo (ma non è poco, in un contesto che con tutta evidenza dovrebbe, per dirla con Italo Calvino, «attribuire all’operazione dell’osservare l’importanza che essa merita»), dalla messe dei lavori in mostra vale dar notizia, almeno, della presenza di tre opere seducenti. Più una.

Venere degli stracci
Venere degli stracci

 

In ordine strettamente cronologico, il primo manufatto che attira con forza la nostra attenzione è Dea Madre. Proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e datato IV millennio a.C., si tratta di una minuscola e tozza statuetta in «calcarenite giallina» che richiama alla mente un brano di Georges Bataille del 1953 dedicato alla rappresentazione di figure femminili nell’arte preistorica: «Esse mettono il più delle volte in risalto i tratti della maternità – i fianchi e il seno; si potrebbero definire talvolta persino idealizzate, se questa idealizzazione non andasse nel senso della deformità».

A seguire ci imbattiamo in una sconsolata e sconsolante Vergine incinta, statua in legno policromo del XV secolo. Autore: Anonimo. L’iconografia sulla gravidanza di Maria, come si sa, è stata affatto osteggiata dal Concilio di Trento. È forse il caso di rileggere il vocabolario Treccani: «Damnatio Memoriae: condanna, che si decretava in Roma antica in casi gravissimi, per effetto della quale veniva cancellato ogni ricordo dei personaggi colpiti da un tale decreto». Osi affermare che la Beata Vergine aveva un corpo? Puff.

Al piano superiore la mostra si conclude con Venere degli stracci, celeberrima installazione di Michelangelo Pistoletto del 1967 che sintetizza e rilancia molte delle questioni in quegli anni al centro del dibattito artistico: statuto ontologico dell’opera d’arte, artista come depositario di téchne, arte come espressione del sentimento, arte come imitazione della (bella) natura, relazione fra opera e mondo.

Scultura d’ombra
Scultura d’ombra

 

In fondo, in una nicchia, l’apertura della mostra Mater ci permette di fruire di una installazione permanentemente ospitata dal Palazzo del Governatore di Parma, ma visibile solo in occasione di eventi: una Delocazione di Claudio Parmiggiani, Scultura d’ombra, realizzata dall’artista nel 2010 in occasione della personale a lui dedicata in quegli spazi. In questo caso, la (intenzionale?) scarsa illuminazione è organica e corretta, per un’opera che fa dell’evocazione fantasmatica il proprio tòpos. Scultura d’ombra, in assenza dei libri che l’hanno suscitata, costituisce al contempo un mancare e un eccedere: è, per citare Maurice Merleau-Ponty, una «quasi-presenza». Ciò che è presente in assenza, infatti, manca ed eccede l’istante presente: manca in quanto è sentito come assente, eccede in quanto è presente (seppur in assenza). Buio. Luce. Buio. Perfetta.

Andate dunque a Parma, per queste e altre opere fascinose e potenti. Magari portatevi un faretto.

 

MICHELE PASCARELLA

  

Fino al 28 giugno – Parma, Palazzo del Governatore, Piazza Giuseppe Garibaldi 2 – info: 0521 218035, mostramaterparma.it 

Gli Animali senza favola di Simona Bertozzi

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Animali senza favola - foto di Marco Mastroianni
Animali senza favola - foto di Marco Mastroianni
Animali senza favola – foto di Marco Mastroianni

 

«In una luce crepuscolare si incrociano cinque donne. I movimenti sono spesso minimali, in cerca di geometrie e di sensibilità che si intrecciano e si disfano»: sulle pagine del Corriere della Sera lo studioso e critico teatrale Massimo Marino, in occasione del debutto nazionale avvenuto a Bologna nel dicembre scorso, ha offerto il proprio sguardo ad Animali senza favola, nuovo spettacolo della coreografa e danzatrice Simona Bertozzi «capace di accendere una luce con una distensione del collo, con uno scatto, con una improvvisa torsione».

Questo progetto performativo corale, ideato come di consueto assieme a Marcello Briguglio, vede all’opera un quintetto tutto al femminile composto da danzatrici di tre diverse generazioni: oltre alla stessa Bertozzi, sono in scena Miriam Cinieri, Lucia Guarino, Francesca Duranti e Stefania Tansini. Lo spettacolo si nutre delle musiche composte ad hoc dal sound-artista Francesco Giomi, del progetto luci e set spazio di Antonio Rinaldi e della collaborazione teorico-compositiva dello studioso Enrico Pitozzi, che suggerisce: «Stanno così questi corpi, come in attesa di tempo; animali senza favola, privi di narrazione, continuamente in divenire attraversano temperature e gradi di presenza in attesa del congedo finale che tarda ad arrivare, riassorbite nelle curvature della vita, nelle pieghe di un frammento d’esistenza. Forse la loro forza non è altro che questa: fragilità e potenza, figure femminili in reiterato concepimento».

Animali senza favola - foto di Marco Mastroianni
Animali senza favola – foto di Marco Mastroianni

 

Animali senza favola, spettacolo liberamente ispirata a Chiari del bosco della filosofa Maria Zambrano (Bruno Mondadori, Milano, 2004) è questa sera al Teatro delle Passioni di Modena, ospite della stagione di Emilia Romagna Teatro Fondazione, e il 10 aprile verrà presentato al Teatro Diego Fabbri di Forlì nell’ambito della stagione del Contemporaneo.

2 Aprile, ore 21 – Modena, Teatro delle Passioni, viale Carlo Sigonio 382 – info: 059 301880, http://www.emiliaromagnateatro.com/teatri/teatro-delle-passioni/  – 10 aprile, ore 21 – Forlì, Teatro Diego Fabbri, corso Armando Diaz 47 – info: 0543 712170 – 712168, www.teatrodiegofabbri.it – info sulla Compagnia: http://www.simonabertozzi.it/   

 

Alla Cineteca di Rimini si racconta la Grande Guerra

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La grande guerra
La grande guerra
La grande guerra

 

Si parte con La grande guerra, il capolavoro del 1959 di Mario Monicelli, un film epocale che in due ore ha ribaltato e fatto giustizia di tutta la retorica e il trionfalismo che fino a quel momento aveva avvolto e incrostato la memoria di quel conflitto. Attraverso le vicende, insieme comiche e patetiche, di due poveracci, uno più sbruffone l’altro più infingardo, interpretati da Vittorio Gassman e Alberto Sordi, Monicelli restituisce la verità di una guerra che fu combattuta da un popolo in gran parte di analfabeti, mal equipaggiato e ancora peggio comandato.

Si prosegue con Addio giovinezza di Augusto Genina, un film datato 1918, di cui si erano perse le tracce per quasi cent’anni e riapparso, in una copia miracolosamente sopravvissuta, tra i reperti di un collezionista giapponese. Restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 2014, è una commedia sentimentale d’ambientazione torinese che racconta la vita (e gli amori) di un gruppo di giovani studenti e di giovani sartine.

Chiude il ciclo La grande illusione di Jean Renoir, pietra miliare della storia del cinema, manifesto del Fronte popolare, uno dei più potenti film antimilitaristi mai realizzati che della guerra non mostra pressoché nulla; ambientato in un campo di prigionia tedesco, è un film profetico, che parlando nel 1937 della Prima guerra mondiale, mette in guardia contro i rischi di un imminente seconda deflagrazione. Monito che si rivelerà purtroppo inutile, una grande illusione, per l’appunto. Il film sarà  presentato nella magnifica edizione restaurata in digitale dal laboratorio dell’Immagine ritrovata della Cineteca di Bologna.

dal 3 al 17 aprile, ore 21 – Rimini, Cineteca, via Gambalunga 27 – info: 0541 704302, comune.rimini.it 

Emidio Clementi in Notturno Americano a Bologna

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clementiDue continenti – Europa e America- e due culture che non hanno mai smesso di flirtare e di scontrarsi. Questo si racconta in “Notturno Americano” reading musicale di Emidio Clementi in scena a Bologna stasera 1 aprile.

I Massimo Volume nel loro primo album “Lungo i bordi” del 1995 scrissero già una canzone “Il primo Dio” omaggio al primo romanzo autobiografico di Manuel Carnevali, scrittore italiano emigrato a soli 16 anni negli Stati Uniti e che, nonostante il suo indiscusso valore letterario, rimane tutt’ora quasi sconosciuto in Italia.

Ed è così che oggi Emidio Clementi, leader dei Massimo Volume, insieme a Corrado Nuccini alla chitarra e a Emanuele Riverberi al violino e tromba raccontano la vita di questo scrittore, dimenticato in patria, ma amato dall’avanguardia letteraria americana da Ezra Pound a Sherwood Anderson.

L’emigrazione, la miseria, il falso mito americano, il lavoro, la scrittura, la nostalgia nei confronti dell’Italia, sono i temi centrali della sua opera e dello spettacolo a lui dedicato, che si avvale anche della ricostruzione poetica che della vita di Carnevali ha fatto Emidio Clementi nel suo romanzo “L’Ultimo Dio”.

Garantito da noi!

 

1 aprile, Bologna, Emidio Clementi in Notturno Americano, Locomoticlub, via Serlio 25/2, info: 3480833345

 

 

RONiiA al Diagonal Loft Club di Forlì

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unnamedContinua l’esplorazione del Diagonal Loft Club di Forlì tra le proposte musicali che si muovono al confine con l’elettronica. Mercoledì 1 aprile tocca al trio statunitense RONiiA composto da Nona Marie Invie (Dark Dark Dark), Mark McGee (Father You See Queen, Marijuana Deathsquads) e Fletcher Barnhill (Joint Custody, FUGITIVE). Beats parecchio oscuri sono l’impalcatura sulla quale poggia il sound di RONiiA, che presenta le caratteristiche del trip-hop di scuola Portishead ma declinate in chiave più dark e acida grazie al grande lavoro sui synth. E’ la personalità e la voce unica e inconfondibile di Nona a farla da padrona.

Il loro ultimo disco è uscito l’anno scorso su Totally Gross

Piacevole. Da vedere.

 

1 aprile, Forlì, RONiiA, Diafìgonal Loft Club, viale Salinatore 101, ore 21.30, info: diagonaloftclub.it

 

Le Orchidee di Pippo Delbono

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Delbono 1

Stiamo lavorando per voi: questa sera, a Ravenna, prepareremo una sorpresa per i lettori di Gagarin.

Per il momento, vi basti la presentazione dello spettacolo.

In Orchidee la morte di chi ci ha dato la vita diventa un atto poetico e le parole di Delbono si impastano con quelle di Medea, di Shakespeare e di Checov. C’è il tentativo di rispondere con la poesia alla violenza della vita. La voce e il corpo dell’attore conducono attraverso un’esperienza dura, arrivando a proporre al pubblico le immagini girate con il cellulare della madre morente. Delbono mescola il proprio privato più intimo con i versi dei padri nobili del teatro e la musica di Enzo Avitabile. In un’epoca, come la nostra, in cui reale e virtuale tendono a confondersi continuamente, l’artista propone l’icona dell’orchidea, fiore “malvagio”, perché “non riconosci quello che è vero da quello che è finto”. Di qui l’abolizione del testo scritto e il superamento dell’attore che “dice” la parte, alla ricerca di un teatro fatto soprattutto di corpi e di sensi. In Orchidee Delbono condensa il senso della fine, la delusione di Amleto per le cose che non si possono cambiare, la visione di un orrore quotidiano catturato da una foto di cellulare in un continuo entrare e uscire tra teatro e vita, realtà e invenzione.

Per approfondire le tematiche trattate nello spettacolo mercoledì 1 aprile si terrà l’incontro con la Compagnia e il critico teatrale Massimo Marino. Alla Sala Corelli del Teatro Alighieri alle 17.30.

31 marzo e 1 aprile, ore 21 – Ravenna, Teatro Alighieri – info: 0544 36239, ravvateatro.com/prosa

Michele Francesconi e Andrea Ferrario sotto una “Bologna Skyline”

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Andrea Ferrario e Michele Francesconi

 

Andrea Ferrario e Michele Francesconi
Andrea Ferrario e Michele Francesconi

Michele Francesconi ha pubblicato di recente Bologna Skyline, un disco realizzato insieme ad Andrea Ferrario e uscito per l’etichetta romana Alfamusic. Le atmosfere del jazz elettrico sono la cornice all’interno della quale trovano posto dieci brani dal passo spigliato, nati dalla collaborazione avviata da oltre due anni tra il pianista e il sassofonista. Dieci composizioni mature e capaci di valorizzare le capacità dei musicisti che i due leader hanno chiamato a suonare con loro. L’uscita del disco e il tour di presentazione all’inizio di aprile, che comincia a Faenza mercoledì 1 aprile allo Zingarò di Faenza, diventano così l’occasione per parlare con Francesconi di Bologna Skyline, ma anche degli altri progetti musicali, della sua attività didattica e di una realtà importante del nostro territorio come appunto lo Zingarò.

Michele, come nasce Bologna Skyline?

Un paio di anni fa, con Andrea Ferrario, abbiamo iniziato a ragionare su alcune composizioni in quartetto. Brani ispirati alla fusion, al jazz elettrico degli anni ’70 e ’80, atmosfere particolari, groove meno usuali, temi articolati, metriche complesse. Naturalmente, siamo arrivati all’utilizzo degli strumenti che hanno caratterizzato i dischi di quel periodo: tastiere, basso elettrico, la voce di Massimiliano Coclite a fianco degli altri strumenti. Una volta individuato il nostro “terreno di gioco”, abbiamo cercato di creare lo spazio per le differenti personalità e le capacità dei musicisti che abbiamo invitato a suonare con noi e che sono, oltre al già citato Coclite alla voce e alle tastiere, Alex Carreri al basso elettrico, Stefano Pisetta alla batteria e Danilo Mineo alle percussioni. In particolare, Carreri e Pisetta completeranno il quartetto nei quattro concerti di presentazione che terremo ad aprile: saremo il primo aprile allo Zingarò Jazz Club di Faenza, giovedì 2 al Well in Jazz di Trento, venerdì 3 al Jazz&More di Verona e infine, sabato 4 aprile, al Bravo Caffé di Bologna.

Sono atmosfere diverse da quelle solitamente presenti nei tuoi lavori…

Si, in effetti, in questo lavoro ho sperimentato un linguaggio diverso: ci troviamo sempre all’interno del jazz, ma secondo una prospettiva che non avevo frequentato tantissimo negli anni passati. Il mio interesse per la composizione e l’arrangiamento, in ogni caso, lo ritroviamo anche in Bologna Skyline. Insieme ad Andrea, abbiamo davvero cercato di lavorare sui particolari di questi brani: è stato un percorso che ci ha impegnato per diverso tempo, a fianco dei progetti che ciascuno di noi coltiva con altri musicisti, e che ha portato a un lavoro curato nei minimi dettagli proprio per poter riuscire a dare il nostro punto di vista personale su un linguaggio molto specifico come quello della fusion. Un lavoro di continua rivisitazione che ha portato a quattro brani firmati a due mani, cosa non molto frequente nel jazz; un lavoro pignolo, se si vuole, ma necessario per poter esprimere nella nostra musica spunti attuali e contemporanei, per poter dire qualcosa di nostro ed evitare, soprattutto, di rimanere intrappolati all’interno degli stilemi del genere.

L’altro aspetto di questo disco è l’attenzione che avete dedicato ai suoni.

Esatto: la questione è nell’approccio con cui si affronta un lavoro musicale. Per quanto Bologna Skyline possa richiamare le atmosfere e il mood del jazz elettrico, non aveva molto senso realizzare una copia conforme di quel repertorio. Abbiamo scelto una strada leggermente diversa: diamo all’ascoltatore le nostre coordinate di partenza, ma poi lasciamo passare il nostro mondo espressivo. Le sonorità scelte per i brani sono forse l’esempio più chiaro di tutto questo: tastiere, voci, sassofono e basso elettrico fanno capire dove ci troviamo e, poi, in sede di costruzione e registrazione, abbiamo agito secondo uno spirito ben preciso. Siamo stati coerenti con i presupposti di partenza ma li abbiamo usati con il giusto grado di libertà: siamo stati rispettosi, ma non ci siamo necessariamente schiacciati sui riferimenti utilizzati. Ciascuno di noi ha le sue esperienze musicali ed è giusto, da una parte, e inevitabile, dall’altra, ritrovarle nel nostro modo di suonare, qualunque sia il repertorio.

In effetti, i tuoi dischi più recenti sono stati tutti acustici, per lo più…

Del tutto, direi… (sorride – n.d.r.) Sia il Recital Trio, dove ho collaborato con Paolo Ghetti e Carlo Canevali, che Twice, registrato con la voce maschile di Massimiliano Coclite e la ritmica formata da Ghetti e Paternesi, e Skylark dove c’era la voce femminile di Laura Avanzolini e la ritmica di Giacomo Dominici e Marco Frattini, erano centrati su sonorità acustiche ed essenziali: pianoforte, voce, contrabbasso e batteria, nient’altro. Se vuoi, è stato il modo per mettere in evidenza le necessità dell’arrangiamento, della manipolazione che ho fatto insieme ai musicisti coinvolti dei brani più celebrati del jazz, come gli standard, e delle composizioni di jazzisti italiani emergenti, come fu nel caso del Recital Trio. Bologna Skyline è stato un passaggio importante anche per questa sua formula più ampia e più variabile, per il confronto con dinamiche sonore differenti… per vedere come potevano funzionare la mia scrittura e certe mie idee per i brani.

Nel prossimo futuro, invece darai alle stampe un metodo didattico: quindi, ancora una prova diversa dal solito…

Diversa, ma non del tutto. Certo, non mi ero ancora misurato con la pubblicazione di un testo didattico, ma da sempre pubblico sul mio sito (www.michelefrancesconi.com) lezioni, esercizi, riflessioni e testi che hanno comunque a che fare con l’insegnamento. Ho iniziato presto ad insegnare e ho maturato un’esperienza ormai solida nei Conservatori – in particolare, in quelli di Adria, La Spezia e Cesena – e in scuole di grande prestigio come, ad esempio, la Scuola Sarti di Faenza. Il testo verrà pubblicato dalla prestigiosa casa editrice Volonté di Milano e si intitolerà Pianoforte Complementare in Stile Pop-Jazz. Ho messo a punto un metodo innovativo per l’accompagnamento dei cantanti e nel libro cerco di offrire gli strumenti al pianista per riuscire ad ottenere il massimo da un “esercizio”, essenziale quanto esigente, come quello di accompagnare un cantante. All’interno del libro ci sono alcune novità che vengono pubblicate per la prima volta e, devo dirlo, ne sono orgoglioso: ritengo siano utili per dare una interpretazione semplice e personale del dialogo tra pianoforte e voce. Naturalmente, non posso svelare di più..

Infine, la direzione artistica dello Zingarò Jazz Club di Faenza. Si sta per chiudere l’undicesima stagione e la domanda è quasi scontata. Qual è il tuo bilancio della stagione e quali saranno gli obiettivi per il futuro?

Sono davvero contento della stagione dello Zingarò, come delle precedenti peraltro. È una realtà che è sempre cresciuta e, ormai, si è imposta all’attenzione di tutto il panorama nazionale del jazz. Abbiamo scelto da sempre di ospitare progetti, solidi nel tempo, di musicisti italiani e questa formula alla lunga ci ha dato ragione e ci ha reso possibile portare nel nostro club davvero i più interessanti talenti emergenti del jazz. Senza perdere di vista, inoltre, la presentazione di libri e delle realtà che gravitano intorno al jazz. Quest’anno, poi, abbiamo portato, per la prima volta assoluta all’interno di un jazz club, un lavoro “teatrale” come Piani Diversi in cui il musicologo Maurizio Franco dialoga con due pianisti – uno del mondo classico, Denis Zardi, e uno del mondo jazz, Enrico Intra – per un confronto di altissimo livello tra generi e modalità sonore. Beh, portarlo nel nostro club è stata una scommessa vinta, ma non sarebbe stato possibile nemmeno tentarla, se non avessimo fatto tutto il percorso fatto nelle precedenti stagioni.

FABIO CIMINIERA