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Gagarin al tempo del Coronavirus

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Un decreto dopo l’altro di contrasto al Coronavirus e ci siamo ritrovati in un tempo sospeso. Fino al 3 aprile sarà tutto chiuso con l’invito di stare a casa.

Il drastico provvedimento è sicuramente proporzionale alla gravità della situazione che vede i nostri ospedali già al minimo di personale e posti letto, dopo 20 anni di tagli e di revisioni manageriali, non in grado di sostenere un eventuale picco di richieste di terapie intensive. Le persone più a rischio sono i nostri anziani e i più deboli di salute, così noi, i più forti, abbiamo il dovere morale di proteggerli.

Purtroppo questo provvedimento manda in crisi un intero settore culturale che già vive di economie deboli e fragilissime. Pensiamo, sopratutto ai musicisti e alle persone di spettacolo che lavorano come liberi professionisti e che per un mese almeno non riceveranno uno stipendio, ma anche a tutti gli esercenti, le associazioni culturali che hanno dovuto annullare gli spettacoli in programma, ai musei chiusi con mostre allestite che nessuno vedrà.

Anche le tre date del nostro Wikipoz (14, 21 e 28 marzo) in programma al Museo Zauli di Faenza sono state rimandate a data da destinarsi.

Gagarin, in questi giorni, sospenderà per ovvi motivi la proposta di articoli di segnalazione di eventi, ma ripubblicherà sul web i pezzi migliori usciti negli ultimi cartacei, mentre la redazione si sta organizzando per produrre nuovi contenuti.

Sperando in tempi migliori e che entro l’inizio di aprile tutto sia, almeno, in fase di progressivo ritorno alla normalità, ci consoliamo del fatto che forse l’ecosistema avrà un beneficio grazie alla riduzione del Pil e dell’anidride carbonica e che probabilmente le imprese che hanno spostato tutta la filiera produttiva in Cina, pensando solo al massimo profitto, cominceranno a rivedere i loro sistemi organizzativi, riportando gli investimenti in paesi più “sicuri”, più attenti all’etica e alla salute e all’ambiente.

Nel frattempo se avete qualche sintomo limitate di spostamenti, ma-  ci raccomandiamo – tenete sempre alto il morale perchè: “sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al Re, fa male al ricco e al cardinale, diventano tristi se noi piangiam”.

La playlist di Don Antonio per una piacevole quarentena sonora

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Antonio Gramentieri

Il nostro Don Antonio ha realizzato una sua playlist per i giorni di quarantena, ed è sorprendentemente varia e interessante.

“E’ una playlist molto personale, una specie di bignami delle cose in cui ho lavorato dal 2010 ad oggi, che sono tante e molto diverse una dall’altra. L’ho fatta principalmente per gli amici ma poi ha cominciato a girare. E’ un modo per chiudere una fase e cominciarne un’altra, proprio in questo momento di sospensione”

La lista include brani dei suoi progetti personali dai dischi di Sacri Cuori a Don Antonio, insieme a brani realizzati insieme a grandi cantautori: Dan Stuart, Howe Gelb, M Ward, JD Foster, Nada, Terry Lee Hale, Alejandro Escovedo, Hugo Race, Isobel Campbell, Carla Lippis, a batteristi come John Convertino, Steve Shelley, Vince Vallicelli e Jim Keltner, ospiti come David Hidalgo e Marc Ribot, James Williamson e Wayne Kramer, Riccardo Tesi, Woody Jackson e altri.

Buon ascolto.

Un divano a Tunisi (Un divan a Tunis), di Manele Labidi Labbé

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Ph. Carole Bethuel

L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Siamo in una cittadina nei pressi di Tunisi, nel periodo immediatamente successivo alla primavera delle proteste popolari che costrinse Ben Ali a fuggire ed avviò una difficile transizione verso la democrazia. Selma ha vissuto a lungo in Francia con il padre e ha studiato per fare la psicoanalista. Con una scelta che sorprende i parenti, gli amici e i conoscenti, decide di tornare a casa, per aprire un proprio studio privato, nel quartiere popolare in cui è cresciuta. Ha un carattere forte ed indipendente e non si lascia scoraggiare da quanti gli dicono gli dicono che è una scelta sconsiderata e destinata al fallimento, né si lascia intimorire dalle difficoltà, a partire dalle resistenze della burocrazia pubblica. Adatta così una mansarda della propria casa, con terrazzo annesso, arredandola con un bel divano di ordinanza. Comincia quindi a promuovere la propria attività e ad organizzare i primi appuntamenti, tra la sorpresa e la curiosità di vicini e conoscenti. Ben presto però si trova a fare i conti con usi e costumi del luogo: la diffidenza dei primi “pazienti”, sorpresi per il fatto di dover pagare un onorario per raccontare i propri fatti personali, il tempo contingentato, poco adatto alla flemma ed ai tempi di vita dilatati della cultura araba, la difficoltà di raccontare ad un estraneo, per giunta ad una donna, i propri problemi personali. Poco a poco i clienti di Selma scoprono che quell’ora settimanale trascorsa con la giovane psicoanalista diventa per loro necessaria, stabilendo cosi il più classico dei rapporti di dipendenza medico-paziente. Disavventure e situazioni paradossali e esilaranti fanno da contorno ad una commedia che con il sorriso invita a pensare. Il ritorno a Tunisi di Selma esprime un atto di apertura e fiducia alle aspettative di cambiamento sociale e culturale alimentate dalla rivoluzione. Il percorso è tuttavia accidentato, e si scontra con le resistenze che derivano da valori radicati nella cultura tradizionale, anche rispetto al ruolo della donna. Alla fine il piccolo mondo che gira attorno a Selma si rende conto dell’importanza di quella medicina dell’anima che sono le parole e di come il dialogo e il confronto possa aiutare a fare i conti con la complessità della vita e delle relazioni umane. Presentato alla Mostra del cinema di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori.

di Dario Zanuso e Aldo Zoppo

The Aeronauts, il lungometraggio di Tom Harper

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Le donne del cinema contemporaneo bucano letteralmente lo schermo e i personaggi femminili non catturano più l’attenzione solo per la loro bellezza, ma anche per la loro capacità d’azione. Ecco dunque che in molti film salta la tradizionale teoria femminista di Laura Mulwey per cui le donne dominano l’immagine e gli uomini l’azione, le donne sono oggetto di sguardo e gli uomini soggetto di sguardo. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito alla proliferazione di figure di protagoniste allo stesso tempo coraggiose e fragili, che fanno di questa dicotomia la loro vera forza, e delle quali il film segue la traiettoria ascensionale di affermazione personale e spesso anche professionale. In questo senso, Amelia Wren di Felicity Jones non fa eccezione. Si tratta della protagonista di “The Aeronauts”, l’ultimo lungometraggio di Tom Harper, dove è affiancata da Eddie Redmayne nei panni dello studente prodigio, pioniere della meteorologia James Glaisher.

Il film di Harper è liberamente ispirato ad alcuni scritti di Richard Holmes e fa particolare riferimento all’episodio del 5 settembre 1862 quando gli aeronauti James Glaisher e Henry Croxwell raggiunsero il record di altitudine di 11,887 metri. Tom Harper e il suo co-sceneggiatore Jack Thorne cambiano le carte in tavola e al posto di Croxwell compare la finzionale giovane pilota, intraprendente e sognatrice, Amelia Wren, vedova del marito sacrificatosi per la sua sopravvivenza in una precedente impresa. Nonostante gli attacchi di panico, Amelia sogna ancora un giorno di poter fare lei la storia: ecco perché accetta l’entusiasmante proposta di James Glaisher di partire insieme. Il giovane è convinto che solo partecipando a un’impresa simile potrà riscattarsi dallo scetticismo di un contesto accademico che da sempre lo deride per il suo interesse per la meteorologia, non ancora considerata una scienza. Dopo una serie di indecisioni e rinvii, alla fine i due giovani partiranno insieme alla conquista del cielo.

Felicity Jones e Eddie Redmayne sono una coppia di attori ormai consolidata dopo il successo di “La teoria del tutto” (2014) di James Marsh. In questo caso Redmayne interpretava il grande cosmologo Stephen Hawking, ancora una volta dunque la parte di un scienziato, che si potrebbe dire essergli cara visto i successivi “Animali fantastici e dove trovarli” e “Animali fantastici – I crimini di Grindelwald” di David Yates, dove interpreta il brillante studioso di creature magiche Newt Scamander. Un ruolo che spesso si abbina ad un carattere stravagante, a tratti leggermente folle e dall’animo rivoluzionario come testimoniano anche i suoi altri personaggi in “Les Misérables” e “The Danish Girl” di Tom Hooper e “Jupiter – Il destino dell’universo” di Lana Wachowski, per citarne alcuni tra i più recenti. In “La teoria del tutto” Felicity Jones era invece Jane Wilde, la ligia studentessa di lettere innamorata di lui. Il film valse il più che meritato Oscar a Eddie Redmayne nel 2015 come Miglior Attore Protagonista. In “The Aereonauts” Redmayne si è però dovuto fare da parte e la sua bravura, che di certo non manca di emergere anche in questa ultima sua prova, deve cedere il passo alla giovane attrice che in questo caso domina lo schermo a tutti gli effetti. Un ruolo anche per lei non del tutto nuovo, abituata ormai a interpretare giovani donne dal forte carattere come le protagoniste di “Una giusta causa” di Mimi Leder, “Rogue One” di Gareth Edwards e “Inferno” di Ron Howard.

Il suo personaggio femminile in “The Aeronauts” emerge in tutta la sua forza e con tutte le sue contraddizioni, appropriandosi della centralità dell’immagine e del racconto. La storia si basa infatti completamente sul suo personaggio la cui azione risulta indispensabile per il proseguimento della narrazione e dunque anche della missione finzionale. Sta a lei infatti decidere se accettare o meno la proposta di James Glaisher e nelle sue mani è riposto il successo o l’insuccesso dell’impresa essendo lei la pilota esperta. Tale dominanza dal punto di vista narrativo emerge estremamente chiara quando toccherà a lei agire e salvare la situazione mentre James è privo di sensi. Un ruolo che in molto cinema classico spetta alla donna, la quale, impossibilitata ad agire, deve pazientemente attendere un eroe disposto a salvarla. Si pensi ad esempio a Notorius di Hitchcock dove la troppa intraprendenza della protagonista è punita nel finale con l’avvelenamento, la perdita di sensi e il necessario intervento dell’uomo per il suo salvataggio.

Amelia però non è solamente un’eroina, ma è anche una donna di spettacolo: Amelia ha compreso che, se vuole che sia il suo nome di donna a comparire nei libri di storia, deve anche accettare in parte il ruolo che la società vittoriana, e il cinema, le hanno sempre imposto. Ecco dunque che Amelia inizia il suo viaggio vestita come una ragazzina, bella e spensierata, divertente e ammiccante che fa ridere il suo pubblico dando spettacolo di se stessa e facendosi anche un po’ desiderare. Visto da questo punto di vista, “The Aereonauts” è l’esempio perfetto di quello che Altman definiva un testo duale, formato dalla compresenza della formula aristotelica di causa-effetto imperniata sulla traiettoria di un personaggio e l’elemento spettacolare ed emozionante. Interessante è però che è la donna ad assumere su di sé entrambe le dimensioni, mentre nel cinema classico era lo spettacolo la sua area di competenza. Il cammino di Amelia sarà un viaggio ascensionale, lo stesso percorso su quella mongolfiera: dall’asfalto della strada su cui si accascia all’inizio del film in preda agli attacchi di panico, fino a raggiungere le stelle. Amelia si spoglierà lentamente dei propri abiti femminili, connotatori del suo ruolo e delle imposizioni della società sulla sua persona, per trasformasi in una vera aeronauta, senza trucco né parrucco, ma con un’intelligenza acuta e una determinazione di cui solo gli uomini sembrano poter godere. In questo viaggio, l’uomo non è un amante ma solo un compagno non troppo indispensabile e il film non è una storia d’amore, ma una storia di conquiste, storiche e femminili.

“The Aeronauts” di Tom Harper, disponibile su Amazon Prime Video

Concerti rinviati per ForlìMusica

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In seguito alle ordinanze del Governo italiano, anche la programmazione dei concerti di ForlìMusica è stata sospesa. C’è però una buona notizia: tutti gli eventi non sono stati cancellati, ma solamente rinviati a data da destinarsi.

Rinviato a maggio è il concerto Jazz Alley, nato da un’idea musicale e scenica del Liceo Artistico Musicale Statale di Forlì con la partecipazione straordinaria del clarinettista Gabriele Mirabassi. Il pubblico dovrà invece attendere l’autunno per poter assistere all’esibizione dell’Orchestra Maderna con Davide Cabassi al pianoforte, diretta dal maestro Filippo Maria Bressan che avrebbe dovuto avere luogo al Teatro Diego Fabbri. Anche il concerto di musica barocca di Accademia Bizantina è stato rimandato a una futura riprogrammazione del festival Humana Follia, all’interno del quale il concerto era inserito. Le nuove date saranno comunicate prontamente sul sito dell’associazione. Ovviamente non manca l’opportunità, per chi lo desidera, di richiedere il rimborso dei biglietti e degli abbonamenti.

Nessuna variazione è invece al momento prevista per i concerti in programma a partire dal 7 aprile le cui date restano attualmente invariate. L’associazione ForlìMusica invita comunque i suoi spettatori a seguire il proprio sito che sarà tenuto in costante aggiornamento.

info e rimborsi: 3386606020

CURA AD USO COMPASSIONEVOLE

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Antonio, malato di un tumore al cervello, è stato cavia per una cura sperimentale che purtroppo non funziona, tranne per lui. La sua testimonianza è stata raccolta da Stefano Damiani e Paolo Martini.

Mi chiamo Antonio, facevo il ferroviere, ho una moglie, due figli grandi e laureati, la passione per la politica attiva, una casa vicina al fiume, non sono nonno. Conducevo una vita tranquilla e appagante, senza troppi vizi o grilli per la testa. Tre anni fa, o giù di lì, prendo l’auto per fare alcune commissioni, niente di importante, le solite cose da pensionato. Solo che io penso di andare diritto ma la macchina piega a sinistra. Una, due, dieci volte. Vado dal meccanico, la mia utilitaria è sanissima, mai visto uno sterzo così preciso, sentenzia. Sono io che sterzo a sinistra e non solo politicamente. Vado dal medico di base, uno vecchia maniera: un amico di famiglia che ha studiato. Risonanza urgente, anzi: urgentissima.

A cambiarmi la vita è il radiologo, un cinquantenne stempiato: glioblastoma multiforme, è grande come una patata, trenta centimetri di tumore. È operabile, ma è in una posizione «infelice». So di cosa sta parlando, è la stessa sentenza che hanno ricevuto, prima di me, mio cognato, un collega e Ted Kennedy, nessuno ha avuto il tempo di raccontarmi com’è andata. Un blastoma è una brutta bestia, ma il prefisso glio mi trasforma in un morto che cammina. Penso a questo mentre due bellissime impiegate, con un vago accento francese, mi consegnano il dvd della risonanza. Inizia così la mia odissea in giro per gli ospedali, la stessa che affrontano i quattrocentomila nuovi malati che, in Italia ogni anno, si sommano ai sopravvissuti degli anni precedenti. Siamo la grande famiglia dei malati oncologici, quelli che vedono la morte in faccia come, forse più di quelli che fanno un frontale perché la macchina piega a sinistra.

Un neurochirurgo, un luminare, un mio coetaneo, dopo un po’ d’insistenza (a suo dire l’operazione è rischiosa) decide di aprirmi. In ogni caso, non riuscirà a estirpare la patata perché la bastarda ha fatto, letteralmente, le radici dentro di me. Per le radici serve la chemio. Ma neppure la chemio basta, perché il tubero si è affezionato particolarmente al mio cervello.

Così mi propongono di entrare a far parte di un protocollo di cure sperimentali avviato da una multinazionale del farmaco, quella dell’aspirina e dello Zyklon B, per intenderci, ma io non vi ho detto niente. Quindi, per fare un breve riassunto: nel giro di pochi mesi sono passato dall’essere un pensionato sereno con lo sterzo della macchina rotta ad aspirante cavia umana. A gestire il progetto c’è una dottoressa di origine sudamericana, diciamo che non fa nulla per essere simpatica. Ma per me è, da subito, bella e dolcissima. Se hai la casa infestata dai topi non guardi il colore del gatto. È la fata che mi salverà.

Faccio tutti gli esami del caso perché per farti curare devi dimostrare di essere sanissimo, la multinazionale non vuole spendere dei soldi per te, se poi gli muori subito. Mi accettano, sono un morto che cammina in splendida forma. Anche perché, per reggere le cure devi fare una vita da atleta. Due litri e mezzo di acqua al giorno per sciacquare i veleni, mai proteine animali mischiate a quelle vegetali. I fritti sono vietatissimi. Le medicine, con me, funzionano. Certo, ho le mani gonfie, la pelle secca, cagare è un’impresa e definirmi spossato è un eufemismo. Ma sono vivo. Gli altri, i miei compagni in questa maratona con la morte, non ce la fanno. Alcuni escono dal protocollo perché debilitati, altri devono arrendersi e morire. Ogni mese, quando vado a ritirare le medicine (dei pasticconi colorati) siamo sempre meno, vivo col terrore di rimanere da solo.

Dopo circa un anno dall’inizio della cura, potrei stare meglio ma non posso certo lamentarmi. Invece la mia fatina scorbutica mi dice, con le lacrime agli occhi, che il protocollo sarà interrotto. Sono rimasto l’ultimo e non si fa scienza con una sola cavia. Ciò che ha funzionato per me non ha funzionato per gli altri. Come qualche volta accade nella vita, non so se ridere o se piangere: è l’unica speranza che ho per restare in vita, l’unica terapia che mi permette di svegliarmi la mattina. Ma non è statisticamente provato che funzioni. Sono un errore in un protocollo scientifico. Il mio unico orizzonte si chiama Regorafenibâ, i famosi pasticconi luminosi, un farmaco inibitore della crescita tumorale efficace per la cura del tumore al colon retto e che fa parte dei medicinali soggetti a prescrizione medica limitativa. È una medicina che non guarisce. Immaginatevi il bugiardino: fra gli effetti collaterali si registrano secchezza delle fauci, stitichezza, stanchezza cronica e un tasso di mortalità molto vicino al 100%. Servono anche a questo le cure sperimentali, i trial scientifici: a scrivere quei papiri pieghettati che non si leggono quasi mai. Così, in barba alla disperazione, faccio l’unica cosa che mi ha tenuto in vita negli ultimi due anni, non mi arrendo. Perché dovrei farlo proprio adesso?

Con l’aiuto dei miei figli (averli fatti studiare è servito a qualcosa) dispongo un’ecatombe di carte bollate. Sicché, nel giro di due mesi, i pasticconi fluorescenti della casa farmaceutica non mi vengono somministrati più come cura sperimentale bensì come cura ad uso compassionevole, credo che si chiami così, ma potrebbe avere anche un altro nome, francamente non mi interessa.

L’importante è rubare tempo all’inevitabile. Così la vita scorre, faticosa e testarda, ma va avanti anche la scienza: la mia medicina, quella che funzionava solo per me, adesso sembra che abbia effetto anche su altri malati. E allora, dopo aver rubato mille giorni alla vita, sono tornato al punto di partenza. I pasticconi me li prescrive un mio amico, il medico di base. Perché, se c’è una cosa che ho imparato da una macchina che sterza a sinistra anche se vuoi andare diritto, è che, sperimentale, compassionevole o con ricetta, per essere vivi serve la speranza, anche senza foglietto delle istruzioni. Cosa aspettano i miei figli a farmi diventare nonno?

Lontano lontano, di Gianni Di Gregorio

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Dopo una lunga carriera dietro le quinte del cinema italiano (soprattutto come assistente alla regia e sceneggiatore, collaborando anche con Matteo Garrone, dal quale è anche venuta l’idea per questo film), nel 2008, oramai sulla soglia dei sessant’anni, Di Gregorio ha esordito come regista ed attore, con Pranzo di ferragosto, ottenendo un grande successo di pubblico (ricordiamo ancora gli applausi fragorosi alla prima proiezione, a Venezia, in una sala Perla gremita; qui vinse anche il premio per la migliore opera prima, di solito assegnata ad autori ben più giovani). I buoni risultati gli hanno consentito di realizzare altri film. Questo è il quarto della serie. Sono tutti piuttosto simili. Vi è un chiaro richiamo alla gloriosa tradizione della commedia all’italiana: si vuole intrattenere e far ridere, ma senza rinunciare all’accuratezza della scrittura e della descrizione dei personaggi e al tentativo di dire qualcosa sull’Italia di oggi. Con leggiadria e grazia, ben alla larga dalla piattezza della comicità televisiva. Sono film volutamente piccoli, al limite dell’inconsistenza: pochi i personaggi sulla scena ed esile l’intreccio narrativo. Sullo sfondo i quartieri popolari di Roma, gli interni delle case, i piccoli bar dove ritrovarsi (per bere un bicchiere di vino o giocare a carte), i mercati, le villette con giardino delle periferie. Al centro del racconto vi sono tre settantenni, solitari e un po’ in disarmo. Il Professore (lo stesso Di Gregorio), insegnante di latino e greco in pensione, il suo amico Giorgio (Giorgio Colangeli), che si è ridotto a vivere con la pensione minima, dopo una vita da perdigiorno, sperando di sfangarla coi gratta e vinci. Infine, Attilio (Ennio Fantastichini, alla sua ultima interpretazione), un rigattiere sanguigno, anch’egli senza una lira. Ad un certo punto ecco comparire nei loro discorsi l’idea per dare una svolta alle loro misere esistenze. E se andassero a vivere all’estero, in un paese con un costo della vita più basso, nel quale anche una pensione modesta può consentire un relativo benessere? Non è questa la scelta che molti italiani di una certa età stanno facendo? (anche i più giovani, ma per altre ragioni). Ne parlano tra di loro continuamente. L’idea diventa un progetto. Un cliente di Attilio (un cameo divertentissimo di Roberto Herlitzka), dopo accurate indagini, individua anche, tra le tante possibili, la meta ideale, dopo aver soppesato gli aspetti positivi e quelli negati, ivi incluso i rischi di una catastrofe naturale: le isole Azzorre. Il progetto si traduce in piani di azione, diretti in primo luogo a recuperare, ognuno a modo suo (vien da ridere solo a ricordare le scene), il necessario capitale iniziale. Dove si andrà a parare lo lasciamo alla scoperta dello spettatore (che capirà ben prima della fine del film). Diciamo solo che il finale ci ha riscaldato il cuore. I tre amici si accorgono che accanto a loro c’è chi sta peggio, e ci sorprendono con la loro scelta. Conclusione certamente un po’ buonista e didascalica, ma di questi tempi ne facciamo tesoro. Presentato in anteprima al Torino Film Festival.

di Dario Zanuso e Aldo Zoppo

LILIANA CASADEI, UNA SCRITTURA AGILE COME UNA PEDALATA

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Agnese ha venticinque anni e dopo la laurea in Sociologia, si trasferisce a Genova per specializzarsi nella sua passione, indagare sugli altri. La materia è chiaramente Criminologia, ma non sarà il corso di laurea a raccontarci di questa sua attitudine, ma piuttosto l’interesse che la ragazza rivolgerà agli ospiti del B&B dove alloggia nel capoluogo ligure. Saranno quindi le convinzioni e le idee molto chiare sulla vita ad essere messe in discussione ed a cedere il passo ad una revisione coadiuvata dall’incontro con i personaggi del racconto. Tra i vari c’è Sauro, un biologo appena tornato da un viaggio in Australia, c’è Flavio, un enologo rappresentante di vini pregiati, c’è Dora, la nonna ex attrice e ‘diva’, che per tanto tempo ha raccontato ad Agnese cosa fosse esser donna. Questi incontri faranno della giovane una fonte di domande introspettive e curiose sul mondo degli altri e come un mistero su cui indagare, la porteranno a conoscere il senso delle azioni e dei comportamenti che tutti noi abbiamo durante la nostra effimera e breve esistenza.

Con una scrittura descrittiva e veloce, la narrazione che l’autrice ci offre in questo racconto è «agile come una pedalata» e non toglie il gusto della scoperta pagina dopo pagina. Questo grazie alla scelta di un linguaggio moderno ed attuale che ritroviamo nel nostro vissuto come un segnale che, ciò che accade ad Agnese, è legato ai nostri tempi. Al suo terzo romanzo, Liliana Casadei si conferma una giovane penna romagnola che, oltre alla poesia, coltiva una forte sensibilità per la vita e ciò che la compone nel suo percorso, dove le basi da cui partiamo, possono inevitabilmente cambiare e prendere nuove direzioni.

Liliana Casadei, Agnese, dicembre 2019, Scatole Parlanti

Made in Italy, un’occasione sprecata

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Made in Italy serie tv
Margerita Buy a Villa Erba

Nel 1974 Irene (Greta Ferro), giovane milanese figlia di un operaio e una sarta, di fronte a un ambiente universitario che richiede una pedissequa ripetizione di concetti, anziché lo sviluppo di un pensiero critico, decide di lasciare gli studi e trovarsi un lavoro per non gravare sui genitori. Quasi per caso approda nella redazione di Appeal, una rivista di moda. Così inizia Made in Italy, ambientato a metà di un decennio complicato per il nostro Paese, percorso da istanze rivoluzionarie e sanguinosi attentati. Made in Italy si occupa di un altro tipo di rivoluzione, più pacifica ma anche più incisiva: il terremoto creativo che sconvolse la moda italiana degli anni Settanta, con epicentro a Milano. Con la scelta dell’argomento troviamo il primo punto di merito della fiction: quante volte abbiamo sentito dire che la moda e la nostra creatività sono risorse che tutto il mondo ci invidia? Tra serie tv e film, ancora nessuno aveva portato sul piccolo schermo questo periodo fondamentale per l’alta moda italiana. A colmare la lacuna sono stati i registi Luca Lucini e Ago Panini, mostrandoci il processo creativo dal di dentro e svelando i retroscena dietro la creazione di una nuova collezione o della la copertina di una rivista.

Irene viene presa sotto l’ala protettiva dell’esperta Rita Pasini (Margherita Buy), in una dinamica che ricorda molto quella tra Anne Hathaway e Meryl Streep nel Diavolo veste Prada. La giovane giornalista finisce per conoscere i più importanti esponenti della moda di quel periodo – Giorgio Armani, i Missoni, Versace e tanti altri – e per raccontarli nei suoi articoli. Ogni puntata uno stilista, presentato in maniera molto didascalica: una descrizione adatta a chi “ne sa poca”, ma che ha poco da dire a chi già conosce quel mondo e quel momento storico. La seconda nota di merito va all’attenzione con cui gli sceneggiatori hanno saputo descrivere il cambiamento del ruolo delle donne nella società, attraverso le visioni degli stilisti ma anche facendo entrale lo spettatore nella sfera privata di Irene e della sua collega e amica Monica (Fiammetta Cicogna). La prima ha una relazione borghese e conformista con un ragazzo che vorrebbe sposarla e a cui non piace l’autonomia lavorativa che la protagonista si sta conquistando; Monica, invece, è tutto meno che convenzionale e passa da un uomo all’altro senza legarsi sentimentalmente a nessuno di loro. I percorsi delle due si influenzeranno a vicenda, con esiti inaspettati dai quali emergerà una figura femminile capace di autodeterminarsi e di decidere in maniera autonoma del proprio futuro. Anche a costo di sfidare la volontà della propria famiglia.

Un personaggio che meritava una migliore scrittura, invece, è Rita Pasini, attorno alla quale aleggia un’aria di mistero. Dopo poche puntate si intuisce il suo dramma familiare, per il quale rischierà di buttare all’aria la carriera. Da qui il nodo più problematico e irrisolto della serie: qual è il legame tra il rinnovamento culturale dettato dalla moda e gli sconvolgimenti sociopolitici in atto? Se la narrazione della società e del suo cambiamento si esprime anche attraverso la moda, in che modo questa ha raccontato la violenza degli anni di piombo e come ne sono stati influenzati gli stilisti? Domande che restano senza risposta, nonostante il personaggio di Rita, a cavallo tra i due mondi, potesse essere usato per approfondire questo tema. La visione troppo semplicistica con cui vengono affrontate le situazioni più problematiche, molte delle quali risolte velocemente, caratterizza tutte le puntate. Viene da pensare che tale sbrigatività, in contrasto con quella dedicata a sviluppare alcuni personaggi femminili già citati, sia imputabile ad una scelta ben precisa e poco coraggiosa da parte della casa di produzione, ossia Mediaset: sebbene la serie sia già disponibile su Amazon Prime Video, in realtà è stata prodotta per il pubblico di Canale 5, su cui andrà in onda nelle prossime settimane. La rete generalista ha cercato di innovarsi proponendo la serie su una giovane piattaforma streaming, ma ha comunque voluto rivolgersi al suo pubblico tradizionale, offrendogli il solito prodotto patinato e non troppo perturbante.

In definitiva: Made in Italy ha un’ottima idea di fondo, le prove delle tre attrici principali sono interessanti e caratterizzano in maniera puntuale i rispettivi personaggi, le ambientazioni restituiscono nel modo giusto la Milano anni Settanta. La sensazione che rimane alla fine dell’ultima puntata, però, è quella di un’occasione sprecata. Peccato.

Tutto il MAMbo in due minuti

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Ragnar Kjartansson Bonjour, 2015 Installazione performance Veduta di allestimento presso MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, 2020 Foto Gabriele Lepri Courtesy l'artista, Luhring Augustine, New York e i8 Gallery, Reykjavik

Arriva dal MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna una risposta concreta alla chiusura per i luoghi di cultura imposta dal Governo per contrastare la diffusione del virus COVID-19. E’ stato infatti presentato oggi il progetto  “2 minuti di MAMbo”, un’iniziativa di engagement digital che di qui al 5 aprile vedrà ogni giorno i canali di comunicazione del museo bolognese impegnati nella pubblicazione di nuovi contenuti video.

L’appuntamento è fissato ogni giorno alle ore 15, aprendo il museo virtualmente attraverso gli occhi e il racconto di curatori, critici, operatori e mediatori culturali del territorio. Si tratta di un format pensato semplice che prevede l’implementazione di contributi girati con una tecnologia basica, lo smartphone, dentro il museo o da remoto, accompagnati dall’hashtag #smartMAMbo.

Il MAMbo si conferma così in prima linea per far fronte a questa emergenza, seguendo alla prima iniziativa della trasmissione in streaming attraverso il canale YouTube MAMbo Channel, attivata dal 27 febbraio al 1 marzo scorso, dell’installazione performativa Bonjour di Ragnar Kjartansson esposta nell’ambito della mostra temporanea AGAINandAGAINandAGAINand. 

Quattro gli ambiti tematici su cui, a rotazione consecutiva, sono incentrate le clip: la mostra temporanea AGAINandAGAINandAGAINand, che indaga il tema del loop, della ripetizione e della ciclicità nella contemporaneità attraverso le opere di sette tra i più noti artisti contemporanei (Ed Atkins, Luca Francesconi, Apostolos Georgiou, Ragnar Kjartansson, Susan Philipsz, Cally Spooner, Apichatpong Weerasethakul), la collezione permanente MAMbo, il Museo Morandi e il Dipartimento educativo MAMbo, realtà di eccellenza nel campo della mediazione e didattica dell’arte verso tipologie differenziate di pubblico che, in questa occasione, si misura con una nuova sfida di approccio alle opere.

MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna. Veduta di allestimento della collezione permanente. Foto Giorgio Bianchi | Comune di Bologna

Prende così vita un inedito racconto articolato in diversi appuntamenti in cui il web è utilizzato come spazio di espressione per presentare in pochi minuti approfondimenti, commenti e curiosità sull’offerta temporanea mente non fruibile negli spazi espositivi del museo. Per ampliare le possibilità di conoscenza, i video sono supportati dalla pubblicazione di ulteriori materiali e documenti. Oltre alla pubblicazione sui canali social, i filmati sono antologizzati in forma di playlist settimanali diffuse tramite la newsletter e il sito del museo.

Secondo Lorenzo Balbi, responsabile Area Arte Moderna e Contemporanea | Istituzione Bologna Musei “questa progettualità, stimolata dall’esigenza di offrire nuovi tempi e modalità di fruizione delle opere d’arte, prosegue nella direzione già sperimentata in occasione della mostra che ha segnato l’esordio della mia direzione artistica al MAMbo That’s IT! Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal confine, in cui il profilo Instagram del museo costantemente aggiornato con materiali prodotti ad hoc dagli artisti è stato concepito come una sala espositiva virtuale, integrata allo spazio fisico”.

Con questa iniziativa, di semplice produzione e facilmente fruibile, il MAMbo trasferisce la propria mission di diffusione della cultura contemporanea nella dimensione digitale, raccogliendo l’invito del CdA dell’Istituzione Bologna Musei e l’appello rivolto agli operatori culturali dal Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo Dario Franceschini ad utilizzare al massimo i canali social e siti web e aderendo alla campagna #iorestoacasa, nata spontaneamente sulla rete per invitare a per combattere la diffusione del virus limitando le relazioni sociali.

L’invito è dunque di continuare a seguire il MAMbo, perché la cultura fa la forza sempre! Grazie MAMbo!!

 

CAMILLA BALLA DA SOLA

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In periferia, a qualche chilometro dal centro cittadino bolognese abbiamo scoperto Camilla – emporio di comunità che permette di far la spesa necessaria alla famiglia con un’attenzione in più per l’ambiente e per l’etica, lontani dalle logiche della grande distribuzione.

Camilla ha l’aspetto di un piccolo negozio di quartiere, di quelli di una volta, a gestione familiare, ma non si tratta semplicemente di un punto vendita. Di fatto è il primo esperimento cooperativo autogestito e solidale d’Italia. Cosa significa? Che è una cooperativa che rispetta dei valori e dei principi d’intenti come quelli del mutualismo, dell’autodeterminazione alimentare; che cerca di sviluppare l’economa di prossimità, che sostiene l’agricoltura bilogica e la coesione sociale.

Chi sceglie di fare la spesa qui deve diventare socio (attualmente sono oltre 500), condividere i principi ispiratori e partecipare alla gestione del negozio prestando 3 ore del proprio tempo ogni quattro settimane.

Pasta, frutta e verdura, formaggi, riso, pane, prodotti per la cosmesi, come i detersivi, le confetture, le composte, i biscotti, l’olio provengono tutti da filiere sostenibili e, nel caso degli alimenti, sono prodotti tutti da agricoltura contadina, biologica e/o biodinamica. Pasta e granaglie sono rigorosamente sfuse, ossia prive di imballaggi e in linea con il pensiero etico della cooperativa come anche i freschi. In generale c’è tutto ma con referenze limitate per prodotto.

A fianco dell’emporio si trova il quartier generale, l’amministrazione, dove tutto si combina, si programma: si organizza l’attività e l’arrivo dei fornitori dei freschi con le merci direttamente dai campi. Camilla è di fatto un circolo: solo i soci possono godere dei benefici offerti, ma la sua sfida è di allargare al massimo gli aderenti per poter abbassare i prezzi dei prodotti e ampliare l’offerta.

Il progetto Camilla nasce dal gruppo d’acquisto solidale Alchemilla Gas di Bologna. L’idea comincia a germogliare nel 2016, poi con il coinvolgimento di alcuni contadini dell’Associazione Campi Aperti – che gestisce i mercatini biologici della zona di Bologna – diventa realtà. Il nome è la crasi tra Campi Aperti e Alchemilla Gas e la liaison è nata dall’esigenza di creare un canale di vendita alternativo al mercato di quartiere con la certezza di avere l’apporto dei produttori, già conosciuti e pertanto saggiati.

L’idea è mutuata direttamente dal modello americano Park Slope Food Coop di New York, cooperativa nata nel 1973 tutt’ora attiva con 17mila soci in un solo negozio nel quartiere di Brooklyn. Questo modello è stato importato in Europa nel 2014 da due soci della cooperativa americana trasferitisi a Parigi dove hanno inaugurato il progetto di supermercato la Louve (la lupa). Da qui si è diffuso in altre città dell’Europa francofona: Francia, Belgio ed in particolare Bruxelles dove, con la Bees Coop, Camilla è in contatto diretto e si scambia conoscenze sin dall’inizio del progetto.

Dopo una prima fase di apertura sperimentale di una settimana – nel periodo natalizio del 2018 – nel febbraio del 2019 Camilla ha aperto l’emporio con la gamma completa di prodotti sufficiente al fabbisogno dei soci. Come abbiamo già detto, la scelta di referenze è limitata, ma sempre work in progress per adeguarsi alla costante domanda dei soci.

Il nostro dubbio è quello se effetivamente ci sua un risparmio sull’acquisto di questi prodotti rispetto ad altri canali di distribuzione green. «Dipende dal punto di vista – risponde Susanna Cattini, Presidente Camilla Coop – Rispetto all’acquisto di prodotti biologici di questa qualità, che si può trovare altrove, sicuramente il risparmio c’è in rapporto all’acquisto in negozi specializzati, non c’è ovviamente nei discount della grande distribuzione. Noi però abbiamo il vantaggio di garantire sempre il prodotto fresco perchè segue le stagionalità, e controllato perchè con i produttori abbiamo un rapporto diretto».

Il valore aggiunto è che Camilla offre anche prodotti non certificati dagli organi di certificazione convenzionali. La loro è una forma di garanzia partecipata, le cui linee guida sono appositamente definite da un gruppo di lavoro che seleziona i produttori sin dall’origine e ne valuta la compatibilità con i principi della cooperativa: in primis la massima sostenibilità nelle produzioni sia sul piano ambientale che su quello sociale, poi vengono privilegiate le piccole produzioni rispetto alle grandi imprese. «Altra attenzione particolare è rivolta al packaging – continua Susanna – Vige la predilezione per lo sfuso, ma ove necessita l’imballaggio, si cerca di scegliere prodotti senza plastica o che ne limitano l’uso».

Camilla è una realtà in costante evoluzione: la scorsa estate in cooperativa ha fatto il suo ingresso Pomilla, il progetto che coinvolge i produttori di pomodoro della zona e che vede protagonista il primo prodotto (la passata di pomodoro) a proprio marchio, con anche l’etichetta fatta in casa. L’idea è quella di costruire l’intera filiera e comunque offrire ai soci prodotti diversi a seconda delle esigenze.

Nel 2020 cominciano a divenire protagoniste anche le carni bovine e avicole selezionate, provenienti da aziente attente al benessere animale. Anche in questo caso, un gruppo sociale di lavoro appositamente costituito lavora per assicurare un prodotto finale rispondente ai criteri cardine della cooperativa.

A gennaio soci e socie di Camilla hanno deciso di sostenere le navi della ong Mediterranea Saving Humans ingiustamente sotto sequestro dopo aver salvato vite umane tramite una campagna di raccolta fondi rivolta ai soci e a tutti i cittadini. Sono stati raccolti 3mila euro utilizzati per l’acquisto di cibo e altri prodotti utili alle prossime missioni.

Purtroppo, Camilla, non è proprio dietro l’angolo di casa, ma è una vera alternativa ad altre realtà che hanno esclusivi fini di lucro. Ad oggi la cooperativa conta due dipendenti fissi part-time ed oltre 500 soci cooperatori che arrivano anche da fuori provincia e contribuiscono, a turno, al ménage della cooperativa. Come realtà è sicuramente destinata a crescere e Gagarin auspica l’apertura di un nuovo punto vendita, magari in centro città.

CAMILLA EMPORIO DI COMUNITÀ, Bologna, via Casciarolo 8/d – Info: info@camilla.coop, camilla.coop, facebook @cooperativacamilla

Cesena, il gelato al gusto di mare Adriatico

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Il gelatiere cesenate Roberto Leoni ha inventato un sorbetto al gusto dell’Adriatico.

La passione di Roberto Leoni per il gelato dura ormai da vent’anni ed è testimoniata dalla presenza di tre gelaterie di sua proprietà a Cesena. L’amore per le contaminazioni fatte con garbo e per la sua terra d’origine gli hanno permesso di creare gusti rivoluzionari. Suo il gelato al passatello romagnolo, suo soprattutto A-mare, il gelato al gusto di mare Adriatico, il caso culinario dell’estate 2019 appena riproposto all’ultima edizione del Sigep di Rimini.

Come le è venuto in mente di creare un gelato al gusto di mare e come ci è riuscito? «Un giorno, sulla spiaggia, mi sono chiesto se sarebbe stato possibile realizzare un gelato che avesse il profumo e il sapore del mare e ho voluto ampliare l’idea a una riflessione sul tema della tutela ambientale. Dopo un percorso di nove mesi in collaborazione con Legambiente, Struttura Daphne di Arpae Emilia-Romagna e Centro di Ricerche Marine di Cesenatico, sono riuscito a creare un sorbetto a base di acqua di mare. Abbiamo cominciato prelevando l’acqua dell’Adriatico al largo della costa di Cesenatico e abbiamo scoperto che era pulita, già praticamente potabile. È stata la dimostrazione che l’inquinamento non è proprio del mare ma è causato dall’essere umano. Il sapore originario e la naturale salinità sono stati rafforzati dall’infusione ottenuta dalle erbe lambite dalle acque dei fiumi romagnoli prima di sfociare in mare, ovvero cicoria selvatica, dente di leone, ortica e fiori di malva. Il tocco finale è il crumble preparato con farina di mais Ottofile, coltivato fino al dopoguerra in Romagna, che ricorda la sabbia della spiaggia nel colore e la consistenza. Noi romagnoli snobbiamo il nostro mare ma, durante questi mesi di studio, ho scoperto che in realtà è uno dei più controllati al mondo».

Cosa consiglierebbe a qualcuno che volesse seguire le sue orme? «Senz’altro di cominciare dalle basi, anche se nessuno vuole più farlo. I ragazzi che vengono da me per imparare guardano programmi come Masterchef e si sentono già chef stellati. Questi programmi sono importanti, hanno risvegliato la passione per la cucina e rivalutato la professionalità del mestiere di chef ma non si può diventare grandi dal niente. Gli Istituti Alberghieri sono ancora fondamentali per questo tipo di lavoro, io stesso ho cominciato così. A breve inizierò una collaborazione con l’Istituto Pellegrino Artusi di Forlimpopoli, dove proporrò delle lezioni sul mondo della gelateria».

Progetti per il futuro? «Ho appena presentato al Sigep il gelato fermentato alla Kombucha mediterranea, nato in collaborazione con Giulia Pieri, cesenate esperta di cucina vegetale e fermentazioni. Il prossimo progetto riguarderà i gelati fatti con i frutti dimenticati. Li ho cercati un po’ dappertutto, anche fuori regione, e ne ho piantate 70 varietà sulle colline di Cesena, dalle quali nasceranno gelati con caratteristiche ben definite. Non saranno più gusti generici alla frutta ma di una varietà specifica. Un esempio è il gelato di pesca Bella di Cesena, che ho già creato, o quello di Uva Fogarina. Non voglio creare solo per stupire, voglio dei prodotti buoni, fatti con amore come i biscotti che ancora mi porta mia zia e che adoro. Un sogno nel cassetto è un’edizione di Masterchef dedicata alla gelateria. Se mi chiedessero di condurla, lo farei volentieri».

GELATERIA LEONI, Cesena, via Fratelli Bandiera 40 e via Savio 562 – Info: 3661502555, gelaterieleoni.it

SPIT THREE TIMES, La provincia padana di Reviati arriva negli States

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Nella provincia padana, in quel tempo che veniva prima di ogni connessione continuativa con il resto del mondo, i giovani scapestrati passavano le mattinate fuori dalla città, dove nessuno avrebbe potuto richiamarli ai loro doveri di scolari. I giorni si consumavano tra le esperienze della vita quotidiana, i brutti voti dell’istituto tecnico e i continui contatti con i popoli che riempivano le strade. Davide Reviati, pittore e fumettista, è stato uno di quei ragazzi, e ha scelto spesso di raffigurare proprio attraverso i fumetti e le illustrazioni la vita – ormai scomparsa – di quell’antica gioventù. La sua opera Sputa tre volte (Coconino, 2016) pluripremitata sta venendo tradotta in inglese, e il New York Times l’ha annoverata tra i libri stranieri più attesi quest’anno negli Stati Uniti, con il titolo di Spit three times. L’uscita è prevista il 7 aprile con la traduzione di Jamie Richards per conto dell’editore americano Seven Stories Press.

La traduzione in inglese è già stata considerata una delle pubblicazioni straniere più attese per il 2020 negli States, come si sente a riguardo?«Mi sento bene (ride, ndr). È già uscita una traduzione in francese, che tra l’altro è stata accolta con molto calore, tanto che l’opera è arrivata alle finali del Festival d’Angoulême, il più importante festival del fumetto in Francia e uno dei maggiori al mondo. È chiaro che questo fatto del New York Times è una cosa molto gratificante, spero che sarà un buon viatico per il libro».

Quale pensa sia la situazione della Graphic novel in Italia? a che punto siamo rispetto al resto del mondo? «In Italia la graphic novel, qualitativamente parlando, non ha nulla da invidiare al resto del mondo; ci sono anzi voci molto diverse, che approfondiscono questo genere da punti di vista diversissimi. Per quanto riguarda le vendite, il discorso è diverso. Non ci avviciniamo minimamente al numero di fumetti venduti in Francia, ad esempio, ed è forse proprio questo a rendere la graphic novel nostrana a un livello davvero alto: non essendo vincolata ad alcuna logica di profitto, forse gli autori sono più liberi. Uno dei problemi fondamentali in Italia è che da un lato poche persone leggono, dall’altro si ha un pregiudizio contro i fumetti, si pensa che un fumetto sia per forza una storiella per ragazzini (e quelli vendono come sempre), mentre ora questa comunità di autori e artisti sta davvero offrendo una nuova visione del fumetto, di espandere la grammatica di questo linguaggio, perché possa essere, come ha detto Goffredo Fofi qualche anno fa, davvero il genere più adatto a descrivere la modernità».

Sputa tre volte è un titolo forte e d’impatto, qual è la sua origine? «Sputa tre volte è una formula scaramantica che è in uso presso alcune comunità rom, è un allontanamento del malocchio, non è presente solo all’interno della cultura rom, ne ho trovato traccia nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, ma riti simili sono presenti presso tutte le comunità arcaiche. Mi piaceva che il titolo rendesse quasi il libro stesso un rito scaramantico, un amuleto contro tutti i problemi che vengono narrati: il razzismo, la paura del diverso…».

C’è quindi un intento sociale nel libro? «Il primo intento non è mai la denuncia, la prima mia esigenza quando scrivo e disegno è sempre quella di dare voce a un ricordo, a un’atmosfera che racchiuda tutti i ricordi e che li filtri e ne sappia offrire una sintesi esaustiva; poi la denuncia subentra successivamente, sperando che le storie a cui do vita possano racchiudere un significato un po’ più universale».

ALEX BERTOZZI

SPIT THREE TIMES di Davide Reviati (Seven Stories Press)

«Il mio modo di fare teatro è il fare del pittore»: tre domande a Andrea Cramarossa

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Fotografia evocativa della sezione "Progetti Speciali" | Teatro delle Bambole

 

Alla visionaria e rigorosa ricerca artistica del regista del Teatro delle Bambole l’autorevole Fondazione Morra di Napoli ha appena dedicato un imponente Archivio.

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Prima questione: la notizia della nascita di un Archivio dedicato al tuo lavoro rimanda al tema della persistenza, della durata. Tu frequenti un’arte ontologicamente impermanente, che consiste nel qui e ora. Per di più, la tua ricerca è in pieno divenire. Perché, dunque, un Archivio?

Un Archivio è un essere vivente e pulsa e il suo pulsare dipende prima di tutto dal luogo destinato ad accoglierlo e anche dalle persone che decidono di frequentarlo, di spulciarlo. Certo, non è semplice rispondere a questa domanda, in quanto è proprio vero che l’arte teatrale sia impermanente ma la mia visione ne contempla la trascendenza, in un paradosso che si incarna e rende quest’arte materica nell’eternità del tempo. C’è chi non ama la parentela tra teatro e altre forme d’arte che, per me, è invece evidente. Un Archivio conserva ma non per contemplare, piuttosto per favorire altri sensi, che sono quelli del tatto, principalmente, e dell’olfatto. Si può toccare e si può annusare ciò che abbiamo lasciato a “Casa Morra”, ciò che è appartenuto alla messa in scena, alle prove, alle celebrazioni rituali alle quali gli attori vengono invitati a sacrificare qualcosa di sé e che resta negli oggetti in Archivio e questo sentire differente, in teatro, non si può ottenere e, proprio questo sentire, aiuta la suggestione, l’immaginazione, aiuta a togliere un po’ di giudizio che solitamente si condensa nel nostro sguardo. È un guardare il teatro da un’altra prospettiva, pur restando sempre teatro. La prospettiva è decisamente quella del poeta. Avrei potuto scegliere se restare a guardare i luoghi numinosi dove il mio teatro è stato e restarmene in silenzio, oppure lasciare che fosse il frequentatore di un Archivio ad appropriarsi momentaneamente di tutto quel vissuto, facendo proprie le esclamazioni che furono mie, magari invitandolo a trovarne di nuove. L’Archivio di ciò che vive nell’istante e che non è più ripetibile, al di là di tutte le difficoltà di altro genere che ciò implica nella ripetizione delle scene (ma questo è un altro discorso che meriterebbe ben altri approfondimenti), è un luogo che, quindi, cambia, ossia trasforma, la relazione tra attore e spettatore. Oltre alla messa in scena, esiste tutto un altro mondo che non è quello delle disquisizioni accademiche o delle celebrazioni commemorative, ma è un mondo teatrale più intimo e più raffinato, più sottile, che ho deciso di mettere a disposizione dello spettatore in altro luogo e con altra messa in scena, perché sempre di teatro si tratta. L’aspetto che viene ad essere evidenziato è quello iconico, raffigurativo e non rappresentativo, cosa che, per quanto mi riguarda, avviene già in teatro, creando non poco scompenso tra spettatori e addetti ai lavori che dovevano, in quei casi, guardare senza riconoscersi, non comprendendo, spesso, che il lavoro in atto, quello dell’istante, quello dell’attore, era chiaramente chiuso in sé, intimo, perché ciò che si rispecchiava in quel momento non era lo spettatore in quanto tale ma una parte ben precisa di sé, una parte che difficilmente può essere stimolata se non vi è la predisposizione ad assumere una posizione dialogica più che dialettica. Come dovrebbe fare un attore, anche io e in questa evidenza, mi sono denudato, scoprendo una parte del mio lavoro proprio attraverso i resti, ma l’ho fatto comunque con l’intenzione di calare lo spettatore dentro un mistero, così come avviene durante la messa in scena. Ed ecco che gli spettatori dell’Archivio avranno, spero, la possibilità di penetrare diversamente il mondo teatrale in essere e, magari, completare questa opportunità con la visione della messa in scena, in tempi e occasioni anche non strettamente collegati fra loro o conseguenziali.

 

Fotografia di Massimo Demelas tratta da “Se Cadere Imprigionare Amo – Suggestioni dal respiro di una crisalide” | La lingua degli insetti – Cofanetto 5: Blattidae e Lepidotteri del Teatro delle Bambole

 

Seconda questione: ammesso che queste distinzioni abbiano ancora senso, la Fondazione Morra si occupa principalmente di quelle che comunemente son definite arti visive, laddove la tua azione si esplica, nomen omen, nel campo del teatro. Come è avvenuto questo incontro e quali punti di contatto ci sono, tra voi?

Ho impiegato molto tempo per comprendere che il teatro che stavo praticando nel gruppo di ricerca era, sì, arte teatrale ma non solo. Ho capito che il mio modo di fare teatro è il fare del pittore. In realtà a me sembra di dipingere scene teatrali, colorarle e sovrapporle, dinamicamente metterle in conflitto, attuare una trasformazione coerente con quello che per me è il Manifesto di una Cattedrale Sonora, una sorta di metodo privato di disciplina, una visione che mi consente di determinare l’andamento della ricerca teatrale, sempre attraverso l’osservazione del colore nel suono in oggetto (dell’attore, del personaggio, del testo teatrale). In questo senso, ritengo che i punti di contatto con la Fondazione Morra siano svariati, al di là della profonda stima che ci unisce e dell’afflato per le operazioni artistiche, io ritrovo me stesso più in un luogo dedicato all’arte figurativa che in un teatro, che sia per vedere una rappresentazione teatrale o di danza o per ascoltare un concerto sinfonico (l’ascolto delle opere sinfoniche, per me, è stato determinante per formulare il Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica) . Nelle opere d’arte ritrovo tutto il meccanismo che ha stravolto il corpo e l’anima del pittore, come non mai, forse solo come potrebbe avvenire nei versi d’un poeta; il mio teatro è intriso di movimento poetico che è il movimento del pennello. Non è un caso che i miei copioni siano pasticciati di disegni, segni e annotazioni più o meno relative ai corpi degli attori in prova, più che di note di regia. Anzi, quelle cerco di evitarle, mi riportano ad un sistema di uso, di utensileria quasi, del mezzo teatrale. Tuttavia, trovo che la mia forza pittorica si possa esprimere soltanto in teatro, tanto nelle cosiddette prove che nell’agnizione dei personaggi sul palco. I personaggi sono opere d’arte. Gli eventi teatrali, tra i più disparati, sono istantaneamente in collisione; il Tutto coesiste in ogni momento; i miei sono Übermalungen Teatrali, con una inclinazione metafisica; ho emancipato il corpo dell’attore attraverso l’emancipazione del suono e del rumore, dipingendo non più con i colori ma con la materia stessa, cioè il corpo dell’attore; ho suggerito all’attore di creare istante per istante, liberamente segregato nei parametri del Manifesto di una Cattedrale Sonora; ho pensato, spesso, che il colore, cioè quella materia, fosse un Blutorgel, un organo di sangue fatto di materia sonora, cioè che il corpo dell’attore fosse suono; l’orgia che propongo è sacra e mistica, è il lavacro da cui anche lo spettatore viene invitato a passare e a oltrepassare ma nella visione “comoda” della poltroncina del teatro, con un accenno di voyerismo, perché, per me, la messa in scena, è solo una prospettiva che si apre, che si illumina in un dato momento e non costituisce il fulcro del mio lavoro, è una festa a cui tutti sono invitati e che amo condividere, in cui spero che il giudizio venga ad essere sospeso ed è anche per questo che credo che l’arte sia per tutti. Attraverso questo processo che in parte ho tentato di descrivere, ottengo, al termine di ciascuna messa in scena, alcuni resti, che per me sono parole, lettere, per meglio dire, icone che raccolgo dal palcoscenico. Poi, le unisco, le sistemo, le armonizzo su una tavola o tavolozza qualsiasi, materializzando quelli che, per sono i relitti di un processo avvenuto nel corpo dell’attore e che raffigurano insieme suono e colore. Tutto questo processo è ben più materico di quanto si possa immaginare e trovo in questo una precisa affinità con quegli spazi che vengono destinati alla contemplazione delle opere d’arte figurative o scultoree, eppure non riesco a immaginare i miei spettacoli al di fuori di un teatro, come a voler suggerire quel luogo in quanto spazio di contemplazione, oltre a tutto il suo significato intrinseco ma vorrei che il teatro, in quel momento in cui almeno io sono presente, si emancipasse dalla sua stessa funzione per cui è stato costruito per farsi ancor più grande, per risvegliarlo nella sacralità d’un tempio o nell’immagine eterotipica di una nave che, però, vaga nello spazio celeste, orbitando in quella magica esperienza che è la perdita del significato delle cose, per non essere più considerato una cavità, un contenitore, destinazione a cui ha dovuto piegarsi negli ultimi dieci anni, ma, appunto, rivelarsi in uno spazio e in un tempo che sono eterni.

 

Andrea Cramarossa (foto Carlo Salavatori)

 

Terza questione: una sezione dell’Archivio, Teatro | Tracce, contiene il materiale (copioni, foto di scena, rassegne stampa, poster, locandine, fogli di sala) relativo al Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica. A favore di chi non conosce il vostro lavoro: puoi definire le peculiarità di questo Metodo e quali necessità artistiche ti hanno spinto ad elaborarlo?

Nella mia ricerca procedo per accumulazione, sovrapposizione, cerco di mettere in relazione diverse dimensioni, come vasi comunicanti. Ad un certo punto della mia vita ho sentito la necessità di distaccarmi da quel “mondo dello spettacolo” che costituiva espressione parenterale col sistema, pur mantenendo, con esso, un filo di relazione e di somiglianza. Ho tolto il teatro dal teatro. Ho tolto il senso dal suo stesso senso, ossia dall’organo fisiologicamente e strutturalmente atto a perseguire gli scopi della sua natura trasferendo la sua utilitaristica presenza a una “dignità di presenza”. Pertanto, ho dovuto cambiare il mio modo di pensare e di vedere le cose, accettando l’idea che il mio sguardo sulle cose si stesse aprendo a una visione delle cose. Ho dovuto elaborare un nuovo metodo che consentisse a me per primo di andare in scena con una modalità che rispettasse tale “dignità di presenza”. Il mio teatro è pur sempre teatro pur non essendolo. In questo paradosso è racchiuso uno degli aspetti più particolari del Nuovo Metodo. L’attore è centrale ma non sovrasta il personaggio e chi l’ha inventato. La figura del regista è assimilabile a quella di un “sacerdote”. Nulla di nuovo, forse, eppure sì, è nuovo, nel momento in cui tutta la messa in scena viene ad esser calata in una celebrazione che separa l’aspetto dionisiaco da quello apollineo per raffigurarli entrambi, in dialogo, con una metodologia che è tanto del regista, del regista-autore, dell’autore e dell’attore. Un’altra peculiarità è costituita dalla ricerca costante dell’azione interiore e dei punti di pressione ad essa correlati, tanto nell’attore quanto nel personaggio; essi sono determinanti per dare senso e significato ai movimenti scenici, carattere e forza ai personaggi, determinare una direzione, costruire uno spazio e un tempo di sincerità scenica. Va da sé che l’attore viene invitato a dover fare un profondo lavoro su sé stesso e a sacrificare pensieri, giudizi, punti di vista, fisicità, volontà, in parole povere il proprio ego, imparando a lasciarsi condurre dalla creazione artistica. Il Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica è un metodo vero e proprio che in quasi vent’anni ha strutturato una sequenza di esercizi pratici e teorici atti alla conoscenza di sé e del personaggio (per l’attore) e alle dinamiche della celebrazione attraverso le diverse dimensioni (per il regista). Per metodo intendo proprio un metodo di lavoro, ciò che si acquisisce in qualsiasi professione per poter, appunto, lavorare, quindi è anche un percorso esperienziale molto pratico, concreto, lavorato nel corpo e nel suono degli individui che ne fanno parte in quel momento, cercando e restando nell’oscillazione determinata dalle frequenze di quel determinato corpo e di quel determinato suono. Infine, si impara a modificare queste oscillazioni a favore del piacere di lasciarsi condurre dalla creazione, in cui si intravede la gioiosa sofferenza orgiastica dei corpi madidi di suoni voluttuosi e infiniti che conducono, inevitabilmente, al silenzio, ossia al corpo dell’attore sulla scena.

MICHELE PASCARELLA

 

Riferimenti dell’archivio sul sito della Fondazione Morra:

Profilo Andrea Cramarossa
https://www.fondazionemorra.org/it/andrea-cramarossa-profilo

Teatro | Tracce
https://www.fondazionemorra.org/it/andrea-cramarossa-teatro-tracce

Cinema | Respiri
https://www.fondazionemorra.org/it/andrea-cramarossa-cinema-respiri

Pubblicazioni | Incanti
https://www.fondazionemorra.org/it/andrea-cramarossa-pubblicazion-incanti

Progetti speciali | Efemera
https://www.fondazionemorra.org/it/andrea-cramarossa-progetti-speciali-efemera

Relitti | Via Larrea
https://www.fondazionemorra.org/it/andrea-cramarossa-relitti-via-lattea

Rassegna stampa
https://www.fondazionemorra.org/it/andrea-cramarossa-rassegna-stampa

 

Fotografie di Robert Doisneau a Palazzo Pallavicini

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Dal 6 marzo al 21 giugno 2020 Palazzo Pallavicini ospita una retrospettiva dedicata al fotografo parigino  Robert Doisneau e alla sua famosa e poetica street photography.

Le baiser de l’hôtel de ville è una delle immagini più famose della storia. Insieme a lei in mostra saranno esposte altre 143 opere, frutto della selezione di 450.000 negativi, prodotti in oltre 60 anni di attività dell’artista, da parte delle figlie del fotografo. Il risultato è un vero e proprio viaggio attraverso la vita e le opere dell’artista.

Un racconto che ha come protagonisti i sobborghi grigi delle periferie parigine, le fabbriche, i piccoli negozi, i bambini solitari o ribelli, la guerra dalla parte della Resistenza, il popolo parigino al lavoro o in festa, gli scorci nella campagna francese, gli incontri con artisti e le celebrità dell’epoca, il mondo della moda e i personaggi eccentrici incontrati nei caffè parigini. Non manca infine una particolare attenzione per i bambini, ritratti in momenti di libertà e di gioco.

Ogni singola immagine è un inno alla disobbedienza, al rifiuto di regole stabilite, atttaberso l’ironia e la giustapposizione di elementi tradizionali e anticonformisti.  La cultura di strada emerge così in tutta la sua bellezza, mostrandoci anche l’infinita fragilità umana.

Ulisse, la mostra ai Musei di San Domenico

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Ulisse è uno dei personaggi più raccontati della storia e il suo viaggio, in particolare, si configura come un vero e proprio percorso di riscoperta di se stessi. Questo atto di riscoperta e di narrazione investe anche l’arte che attraverso le vicende dell’Odissea da decenni riflette sulla propria forma artistica.

Ecco perché Ulisse diventa il protagonista di un’intera mostra, “Ulisse. L’arte e il mito” allestita presso i Musei di San Domenico di Forlì a partire dal 15 marzo e fino al 31 ottobre.

Le oltre 200 opere esposte rappresentano l’Ulisse eroe dell’esperienza, della sopportazione, dell’intelligenza, della parola, della conoscenza, della sopravvivenza e dell’inganno. E lo fanno attraverso diverse forme artistiche: dalla pittura alla scultura, dalle miniature ai mosaici, dalle ceramiche agli arazzi e alle opere grafiche in una sorta di un vero e proprio viaggio nell’arte.

I visitatori potranno allora notare come l’età arcaica abbia privilegiato gli episodi di Polifemo, di Circe, di Scilla e delle Sirene, mentre l’età classica ha aggiunto gli incontri con Tiresia, Atena, Nausicaa e Telemaco, nonché il dolore e l’inganno della tela di Penelope, il riconoscimento della nutrice Euriclea e la strage dei Proci. L’incontro domestico e commovente con il cane Argo, l’abbraccio e il riconoscimento tra Ulisse e Penelope giungono con l‘ellennismo ed infine l’arte romana raffigura l’abbraccio tra Ulisse e il padre Laerte.

Poi arriva Dante: un Ulisse completamente diverso, affamato di conoscenza, che esercita una vera influenza non solo su codici e miniature, capitelli e disegni, ma anche su artisti come Botticelli, Signorelli e Federico Zuccari. Le narrazioni omeriche  sopravvivono poi nei cassoni fiorentini dipinti del Quattrocento, con pittori come lo Scheggia e Apollonio di Giovanni, e fioriscono infine nei disegni e nelle opere di Filippino Lippi o del Parmigianino.

Nel Cinquecento, Ulisse torna nelle regge e nei palazzi grazie ad artisti quali Nicolò dell’Abate, Primaticcio fino alle tele di Beccafumi, Dossi, Spranger che lo rappresentano come un uomo virtuoso che affronta e vince le prove, personali e pubbliche. Il Seicento di Rubens, Lorrain, Jordaens, Cornelis, tra natura e teatro ne raffigura e diffonde il mito fin nelle manifatture.

Il Settecento può essere definito il secolo omerico, grazie al classicismo  di Canova, Mengs e Füssli. Con il romanticismo e il XIX secolo invece, Ulisse si trasforma nell’immagine del viaggiatore e del viandante, simile al destino dell’uomo moderno  sopraffatto dalla realtà quotidiana.

Ulisse come uomo moderno che torna nel secolo successivo: inquietudine e alienazione diventano le sue caratteristiche principali.  Ecco dunque che emergono  ritratti isolati e parziali dell’eroe:a da Böcklin a De Chirico, da Savinio a Cagli, da Meštrović a Martini. Un Ulisse che non ritrova casa e la cui possibilità di ritorno è persa per sempre.

Attraverso questo viaggio nell’arte, la mostra consente allo spettatore di cogliere i tratti più caratteristici di singoli segmenti della tradizione figurativa, nonché il rispecchiamento della propria ricerca esistenziale tra poesia e storia.

Info: mostraulisse.it

PICASSO, IL RITUALE DELLA CERAMICA

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Una passione tardiva. A 66 anni, quando già da tempo è un artista già affermato, Picasso comincia a produrre opere in ceramica. Al termine della guerra il malagueño decide di lasciarsi alle spalle Parigi e le macerie del conflitto e trasferirsi in Costa Azzurra, prima ad Antibes, poi a Vallauris. Era l’estate del 1947. A Madoura incontra i ceramisti Georges e Suzanne Ramié che lo introducono alla tecnica di questa antica arte. I Ramié raccontano che quando Picasso cominciò a lavorare nel loro studio «si mise di fronte alla tecnica ceramica come un torero nell’arena».

Da allora comincia una febbrile attività creativa che lo porta a realizzare oltre 3.000 pezzi unici. La mostra Picasso, La sfida della ceramica al MIC di Faenza, a cura di Salvador Haro e Harald Theil con la collaborazione di Claudia Casali, illustra il percorso ceramico del maestro che si svolge in parallelo alla pittura, ma non per questo fu meno importante. Il suo avvicinamento a questa forma espressiva non fu assolutamente improvvisato, come testimoniano i diversi disegni preparatori, e la sua fonte di ispirazione fu la ceramica antica delle grandi civiltà del Mediterraneo.

La ceramica di Picasso è infatti un gioco continuo di rimandi alle ceramiche etrusche, greco-romane e precolombiane che lui aveva visto al Louvre o nei numerosi cataloghi e fotografie trovati nel suo studio. Picasso aveva un rapporto animista con gli oggetti e con la scultura. Nella sua arte il lavoro scultoreo assume sempre un valore rituale, mentre il ruolo dell’artista finisce per assomigliare a quello del demiurgo.

Faenza e il MIC offrono un’occasione rara: quella di ammirare 50 pezzi unici provenienti dal Musée National Picasso di Parigi a confronto con vasi e oggetti antichi che lo hanno ispirato appartenenti alla collezione faentina, la più ampia al mondo dedicata alla ceramica. Picasso non inventa nuove forme, ma utilizza vasi tradizionali che con la pittura trasforma in ritratti, volti, fianchi di donne e in animali, a lui cari, come le civette e le colombe, creando un universo di oggetti vivi, dal sapore sacro, al pari delle fonti che lo hanno mosso.

Fino al 13 aprile, Faenza, Picasso, La sfida della ceramica, MIC, viale Baccarini 19, info: 0546697311, micfaenza.org

Concerto in diretta Facebook della Camera Jazz Club

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Venerdì 6 marzo a partire dalle ore 21.30 arriva il primo concerto a porta chiuse in diretta Facebook della Camera Jazz Club di Bologna. Piero Odorici al sax tenore, Nico Menci al pianoforte, Filippo Cassanelli al contrabbasso e Dario Rossi alla batteria si esibiranno per chiunque a quell’ora vorrà connettersi ed ascoltare in diretta la loro musica.

Piero Odorici è uno dei sassofonisti italiani più conosciuti e apprezzati all’estero. Nel corso della sua carriera artistica ha collaborato con musicisti di fama mondiale come Cedar Walton, George Cables, Eumir Deodato, Diane Schuur, Eddie Henderson,Lee Konitz, Joe Lovano, Steve Lacy, Dee Dee Bridgewater, Jack McDuff, Mingus Big Band, Vincent Herring, Joey Di Francesco, solo per citarne alcuni. È stato spesso invitato a partecipare ai più importanti festival jazz europei e suona regolarmente in “storici” Jazz Club. Nel panorama della musica pop ha inciso e suonato in tour con Lucio Dalla, Gianni Morandi, Biagio Antonacci, Luciano Pavarotti, Jovanotti, Vinicio Capossela, Rossana Casale, Gloria Gaynor, George Michael, Grace Jones, Tiziano Ferro, Ornella Vanoni e molti altri.

info: facebook.com/CAMERAJazzClub

Le sculture di Luciano Navacchia a Cesenatico

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Aperta al pubblico, ma senza inaugurazione, la mostra Dall’antico all’attualità. Donne remote e presenti con opere del noto pittore e scultore cesenate Luciano Navacchia, allestita presso la Galleria Comunale d’Arte “Leonardo da Vinci” di Cesenatico dal 7 marzo al 13 aprile. La mostra sarà visitabile esclusivamente nelle giornate di sabato, domenica e festivi dalle ore 10 alle ore 12 e dalle ore 15 alle ore 19.

L’esposizione guida lo spettatore in un percorso attraverso oltre venti sculture di donna, alcune anche di grandi dimensioni e altre che non sono ancora mai state esposte. Per la realizzazione di queste opere, Luciano Navacchia ha utilizzato speciali procedure di assemblaggio di materiali metallici, sapientemente lavorati e decorati. Inoltre, le sculture saranno affiancate da una serie di dipinti che scandiscono l’ultimo periodo di lavoro dell’artista.

Luciano Navacchia è nato nel 1946 a Cesena, dove attualmente vive ed opera. Attivo come pittore a partire dalla fine degli anni ’60 nel fervido ambiente artistico cesenate, Navacchia ha maturato un suo personale linguaggio espressivo nell’ambito della nuova figurazione italiana. Da sempre interessato alle più diverse tecniche artistiche, dal 2010 si è dedicato con continuità alla scultura, traducendo plasticamente la figura femminile con materiali di riuso ed originali soluzioni tecniche.

Torna la Live Arts Week di Xing

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A partire dal 26 marzo torna la Live Arts Week, la IX edizione della settimana dedicata alla performance ideata da Xing. La nuova edizione prevede ben due settimane di programmazione fino al 4 aprile, con numerosi eventi concentrati nei weekend e varie azioni continuative ad essi connesse e situate in diverse zone della città di Bologna. Il risultato è una sorta di mappa, di costellazione che unisce spazi diversi, lontani tra loro e dedicati ciascuno a un tipo di esperienza dissimile.

Si parte dunque giovedì 26 marzo presso la Manifattura delle Arti con azioni che si ripetono e si sviluppano nei giorni successivi. In questo primo giorno anche gli spazi di P420 si attivano per ospitare la prima italiana di Rehab Training, la durational performance dell’artista sud coreana Geumhyung Jeong, che da sempre si interroga sulla relazione tra il proprio corpo e le tecnologie. In questa occasione, Jeong propone al pubblico un ‘programma di riabilitazione’ con dispositivi e attrezzature applicato a un manichino immobile a grandezza naturale, usato nel settore sanitario, il quale sembra piano piano prendere vita. Diviene così sempre più complicato distinguere in maniera netta tra soggetto e oggetto, tra esecutore ed eseguito, tra performer e performato, comportando una sorta di fusione tra il nostro corpo e il desiderio macchinico.

Spostandosi a Localedue si potrà incontrare il duo YEAH YOU, formato da Gustav Thomas ed Elvin Brandhi: insieme padre e figlia delizieranno il pubblico con le loro escursioni musicali e geografiche improvvisate, da loro stessi definite Kh-art (Car-art). Si tratta di un’arte che si sposta su quattro ruote, quelle dell’auto di famiglia con l’obiettivo di portare il momento della creazione artistica al di fuori delle normali condizioni spazio-temporali, lasciandola emergere in ogni istante possibile. All’interno della galleria il pubblico potrà partecipare all’l’in-car video K(h)ar-t- from Khot to Krutch to Vhod. I’m not, I’m knot, un concerto registrato durante il tragitto compiuto in auto da Utrecht ad Amsterdam, mentre negli spazi esterni il duo si esibirà dal vivo in This Instead, un insieme di sound performance urbane dislocate in diverse zone della città: la Piazzetta Azzo Gardino e l’area del Ponte Stalingrado dello Spazio Hera.

Si prosegue sabato 28 marzo presso l’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti con la lecture performance Morestalgia28032020 di Riccardo Benassi, con la quale l’artista continua il progetto nato attorno al neologismo da lui creato per parlare della nostalgia al tempo di internet e dei social network. La lezione aperta sarà accompagnata dal book launch di un tascabile edito da NERO Publishing. Infine, a chiusura della prima settimana, lo Spazio Hera ospiterà la performance Hypernating dei dance makers Cristina Kristal Rizzo e Charlie Laban Trier: una pièce immersa nell’oscurità che si sviluppa come un racconto del corpo, un monologo interiore che diventa collettivo nel mettere in discussione una società ossessionata dalla realtà biologica.

Il secondo weekend ha inizio giovedì 2 aprile presso Palazzo Vizzani, sede delle azioni quotidiane e notturne proposte da diverse personalità artistiche. Tra gli ospiti spicca l’artista, musicista, performer, programmatore, ex busker digitale e inventore della fono-cibernetica, Onyx Ashanti, in arte [symb-[i/o]-te]+[“the being formerly known as onyx ashanti”]=…onyx:em-[i/o]:sonaut-[i/o]…, che porta in scena il campus sonocyb EM-[i/o]:Son-Aut-[i/o];prototype self. Ogni giorno, Ashanti proporrà al pubblico momenti di visita e incontro, trasmissioni di dati e azioni sonore performative indoors e outdoors. Tra gli ospiti, torna anche quest’anno l’artista, designer, musicista, garment-furniture-food maker, grafico, stampatore serigrafico Canedicoda che propone per questa edizione una struttura su ruota con delle estensioni temporanee, un mobile in movimento dentro il quale lui stesso campeggia quotidianamente, brulicante di oggettistica e di elementi che possono staccarsi e andarsene via, acquisiti dai visitatori. Infine, Palazzo Vizzani ospiterà anche le field recordings, l’improvvisazione elettroacustica e lo spoken-word del sound artist ed editore multidisciplinare inglese Graham Lambkin.

Inoltre, nel suo ciclo finale, Live Arts Week dedica ogni serata ad una figura chiave della scena coreografica internazionale. Si parte con Katerina Andreou, coreografa, performer e sound-maker greca che presenta nello Spazio Hera la prima italiana di BSTRD, solo. Insieme a un semplice giradischi, l’artista dà vita a una danza in grado di disegnare le coordinate di una sorta di geometria immaginaria che rappresenta il perimetro per l’esercizio fisico di una ‘pura impurità’. La seconda dedica va alla coreografa e performer norvegese Mette Edvardsen che, insieme al compositore inglese Matteo Fargion e al soprano Angela Hicks, presenta al Teatro Auditorium Manzoni, la prima italiana dell’opera Penelope sleeps. Vocalità e musica, spazio e dimensioni si riversano all’interno di un’atmosfera sospesa dove le relazioni ra una donna, il mondo e l’altro non fanno che disfarsi e ricostruirsi. Terza dedica spetta a Yasmine Hugonnet, la coreografa e danzatrice svizzera, e alla sua performance Chro no lo gi cal. Un concerto coreografico dove i diversi linguaggi si ibridano nel dare espressione a tre corpi di donna, collocati al di fuori di ogni cronologia, che mostrano l’inizio e la fine della loro auto-conservazione, in una sorta di lotta contro il tempo e di una nuova possibile vittoria.

info: liveartsweek.it, info@xing.it, xing.it