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Ascanio Celestini per #laculturanonsiferma

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Roma, Museo ferroviario di Colonna Ascanio Celestini ©Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Continua il viaggio di #laculturanonsiferma, il palinsesto virtuale che dallo scorso venerdì 13 marzo ha unito le diverse realtà culturali del territorio emiliano-romagnolo con l’obiettivo di dare vita a un unico grande palcoscenico, di cui si può fruire gratuitamente sulle piattaforme regionali EmiliaRomagnaCreativa, Lepida Tv e al canale 118 del digitale terrestre.

Alle file degli artisti che in questo periodo hanno preso parte all’iniziativa di aggiunge per questo weekend un grande nome: quello Ascanio Celestini. Sabato 28 marzo a partire dalle ore 21 l’attore,  drammaturgo e regista romano leggerà Il camminatore, due vite ai tempi del contagio, un brano scritto da lui in questi giorni e che immerge i suoi personaggi nella tragica situazione attuale, con lo scopo di riflettere su di essa. Domenica 29 marzo invece, alla stessa ora, si dedicherà alla lettura ad alta voce dei tre testi Secondo Matteo dello spettacolo Io cammino in fila indiana, Bologna e Pinelli tratti dallo spettacolo Barzellette: si tratta di racconti che ripercorrono fatti di cronaca e storia italiana, dove il concetto di perdita diventa un ponte per parlare dell’oggi.

I video racconti, registrati da Celestini nella sua casa a Roma, andranno in onda su Lepida Tv (Canale 118 del digitale terrestre) e canale YouTube LepidaTVOnAir, sul portale EmiliaRomagnaCreativa e su Facebook Cultura Emilia Romagna, e sul 5118 di Sky.

info: www.emiliaromagnateatro.com

Il festival virtuale Close Up ospita David Paysden

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Vanarin
Vanarin

Sono sempre di più le realtà culturali che, non potendo portare avanti i loro cartelloni di eventi in presenza, si riversano sul web e suoi social promuovendo una serie di appuntamenti virtuali che aiutano a riempire e rallegrare queste giornate. Ferrara Sotto Le Stella ha già da tempo iniziato la sua rassegna di live streaming sui social, Close Up. La novità è la collaborazione con Officina MECA che si occuperà di curare il palinsesto domenicale del festival virtuale sul canale Facebook @ferrarasottolestelle.

Dopo il primo appuntamento di domenica scorsa in compagnia di Arianna Poli, Marta Guidoboni e Godblesscomputers, domenica 29 marzo a partire dalle ore 18.30 sarà il turno di David Paysden della band italo-inglese Vanarin, che avrebbe dovuto esibirsi a Officina MECA proprio nei giorni chiusura. A partire dalle ore 19 seguirà il dj set di cumbia dei Viva Viva Malagiunta, progetto nato dall’unione dei due dj/producers FiloQ e Mr.Paquiano, provenienti rispettivamente dai vicoli di Genova e Buenos Aires.

Oltre che su Facebook, tutti i contenuti saranno condivisi anche sui canali di Lepida Tv, canale satellitare della Regione Emilia Romagna, e sul canale instagram di Ferrara Sotto le Stelle.

info: ferrarasottolestelle.it, facebook.com/officinemameca

Everyday Design: l’invenzione del Tratto Pen

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Se volete capire cos’è il design, studiate il piccolo cappuccio del Tratto Pen. Il bordo, per esempio: un sottile rilievo che serve come grip per la presa, ma è dentato, in modo da evitare che il pennarello rotoli fuori dal tavolo. E dire che nacque da un problema tecnico, questo bordo: lo stampaggio ad iniezione implica sempre dei residui di lavorazione, che in questo caso impedivano la perfetta finitura del bordo stesso. E, come si fa nel Judo, il punto di debolezza fu trasformato in un punto di forza; i residui furono trasformati in dentelli e divennero un elemento funzionale ed identitario del progetto.

Non è finita: la cavità interna del cappuccio corrisponde alla controforma che si trova all’altra estremità della penna, dove ovviamente si incastra durante l’uso.

Ma – questo è difficile da indovinare – il tappino è perforato, in cima. Perché?

Mi risponde il mio amico Gianni Arduini, per anni collaboratore del Design Group Italia, che ne sviluppò il progetto: i tre fori nel cappuccio servono a salvare la vita a qualche bambino che – prima o poi – lo ingoierà. Il tappino resterà incastrato nella trachea, finché la mamma (se sopravvive allo spavento) lo porterà da un medico che con una pinzetta lo estrarrà. Ma quelle piccole aperture consentiranno al bambino di respirare. Che meraviglia, il design!

E che meraviglia il Tratto Pen, disegnato nel 1974 da Design Group Italia, su commissione di Fila, la storica azienda italiana di prodotti per il disegno.

Era uno studio strano, Design Group Italia. Fondato da Marco Del Corno, raggruppava vari designer con l’idea di privilegiare il lavoro di team rispetto a quello dei singoli progettisti (e scusate se è poco). Ed era strano anche il brief che Alberto Candela, presidente di Fila, aveva indicato: lui non voleva una nuova penna. Lui voleva un nuovo modo di scrivere.

Fila aveva acquisito il brevetto giapponese di una punta sintetica costituita da molti microscopici spicchi, attraverso i quali l’inchiostro scendeva fluido come da un pennino, ma non sgocciolava e non macchiava.

A questa funzione mancava però una forma adeguata per il fusto, che non avesse né la presunzione classista delle stilografiche, né l’ordinarietà della penne a sfera.

Il progetto che ne uscì, dopo molto tempo e molto lavoro, era innovativo e magico: ricordava lo stilo dell’antica Roma ma anche la bacchetta magica delle fate o quella del direttore d’orchestra.

Questo progetto rivoluzionario, iconico ed ideologico, venduto a 100 Lire di allora, vinse il prestigioso Compasso d’oro nel 1979, ed è in commercio tuttora.

Gli strumenti che usiamo influenzano il nostro comportamento, ed anche i nostri pensieri. Tratto Pen istituisce un rapporto emotivo con l’utente, porta a scrivere in modo immediato, quasi istintivo. La sua fluidità e scorrevolezza, insieme alla sua colta umiltà, nobilitano gli scarabocchi che si fanno mentre siamo al telefono, e regalano davvero un piacere sottile alla scrittura…

Insomma, sono certo che se dovesse scrivere l’Ulisse oggi, Joyce lo farebbe col Tratto Pen.

Roberto Ossani, Docente di Design della Comunicazione, ISIA Faenza

Andrà sana e lontana

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Il Centro Sperimentale per la Tutela degli Habitat, organizzazione no profit di Marina di Ravenna, sta salvando decine di animali accidentalmente pescati in Adriatico: dopo le necessarie cure riabilitative tornano libere varie specie di squali, tartarughe, razze, aiutando così a preservare il nostro mare dal predatore più pericoloso: l’uomo.

Non era la prima volta che Onda incontrava un essere umano. Aveva già avuto una disavventura con un gruppo di persone che viaggiavano su un motoscafo e l’avevano urtata accidentalmente con l’elica, per fortuna senza causarle grossi danni. Poi quel sacchetto di plastica abbandonato da un umano che aveva ingerito scambiandolo per una medusa e infine il pescatore che l’aveva intrappolata nella rete e tirata sulla sua barca.

Pensava che sarebbe morta così, senza neanche capire il perché. E invece si era ritrovata dentro quello strano posto dove l’avevano curata. Dopo un po’, aveva espulso l’odioso sacchetto, era ritornata a nutrirsi normalmente e aveva riacquistato le forze. Il 26 agosto successe qualcosa. La misero dentro una cassetta di plastica e poi su un camioncino. Le venne il dubbio che avessero deciso di ucciderla anche se le sembrava strano dopo tutte quelle cure ma aveva imparato a sue spese che gli esseri umani sono strani. Dopo un breve viaggio, l’avevano caricata su un gommone e lei aveva sentito di nuovo il profumo del mare. Poi era successo. La ragazza sorridente aveva preso la cassetta e l’aveva fatta scivolare delicatamente in acqua. Onda era di nuovo libera e si allontanò senza guardarsi indietro.

Simone D’Acunto è il direttore del CESTHA, Centro Sperimentale per la Tutela degli Habitat, che ha curato Onda, un esemplare di tartaruga marina Caretta Caretta recuperata da un pescatore che l’aveva vista in difficoltà al largo di Marina di Ravenna, e l’ha liberata in mare il 26 agosto scorso insieme a Mariasole Bianco, biologa marina e volto del programma di Rai 3 Kilimangiaro.

«Da maggio 2019, dopo aver ricevuto l’autorizzazione ufficiale, abbiamo recuperato già 15 tartarughe marine. Il 40% è arrivato qui con problemi di galleggiamento, inappetenza e pericolosi blocchi intestinali provocati dall’ingestione della plastica, scambiata per cibo» spiega D’Acunto.

Quindi Onda è nata su una costa romagnola? «In estate l’alto Adriatico è un’ottima zona di pesca per la tartaruga marina, se ne stimano tra i 25.000 e i 75.000 esemplari. Onda dovrebbe essere arrivata dalla zona di Porto Garibaldi ma è impossibile sapere con precisione il suo luogo di nascita. Non abbiamo individuato nidi di tartarughe sulle spiagge romagnole ma ci sono molti indizi della loro possibile presenza. Il gruppo di ricercatori di Porto Garibaldi TAO (Turtles of the Adriatic Organization) se ne sta occupando e ha già siglato un protocollo di intesa per il monitoraggio di alcune spiagge tra Ferrara e Ravenna. I ricercatori del TAO sostengono che non troviamo nidi di tartaruga solo perché non li cerchiamo. Le tartarughe fanno il nido di notte e se ne perdono le tracce con la pulizia delle spiagge al mattino, ma questo non significa che non ci siano».

CESTHA è un’organizzazione no profit con sede a Marina di Ravenna nel complesso storico dell’antico Mercato del Pesce, riconvertito in centro di ricerca. Si occupa del recupero delle catture accessorie della pesca, della loro riabilitazione e del ritorno in mare, di programmi di conservazione delle specie a rischio e promozione di attività di gestione sostenibile. Ogni anno, soprattutto in estate, ospita e cura molti animali recuperati dal mare, grazie alla collaborazione con i pescatori locali, che dal 2015 consegnano personalmente ai volontari gli animali considerati scarti, che prima andavano incontro a una morte inutile. Prima della restituzione in mare, a tutti gli animali viene dato un nome e applicata una targhetta con codice alfanumerico inserito in una banca dati internazionale per monitorarne il passaggio, nel caso dovessero essere ripescati in mare o trovati su una spiaggia. Oltre alle tartarughe, CESTHA si occupa anche e soprattutto di squali.

«L’ipotesi della presenza di un’area di parto di alcune specie di squalo tra Ferrara e Ravenna ha delle fondamenta molto solide e se ne sta approfondendo la ricerca. Abbiamo recuperato più di cento squali dall’inizio della nostra attività, è un animale al quale siamo molto affezionati, perché è ingiustamente temuto. Ci sono più probabilità di morire facendosi la doccia che di essere attaccati da uno squalo. Tra tutte le specie esistenti, solo una è pericolosa per l’uomo e non ve ne è traccia in Adriatico, dove troviamo soprattutto verdesche, squali grigi e palombi. Quest’ultima è addirittura a rischio di estinzione perché viene pescata legalmente proprio durante il suo periodo di riproduzione ed è presente persino nelle mense scolastiche» racconta D’Acunto.

E il trigone viola di cui si è parlato tanto quest’estate? È recente il caso di un esemplare femmina salvato dopo essere stato preso a bastonate da un bagnante. «Anche il trigone viola è una specie di squalo. Ogni anno ci arrivano esemplari malridotti perché, dopo essere arrivati sulla battigia per partorire, vengono colpiti da passanti che li credono pericolosi. In realtà, lo diventano solo se provocati, come tutti gli animali. Di fatto, l’uomo è l’unico animale veramente pericoloso presente in natura. Il trigone recuperato a Casal Borsetti è adesso nel nostro centro ed è stato chiamato Sole da Mariasole Bianco, che era presente presso di noi in quei giorni. Stiamo cercando di salvarlo; per ora ha superato la fase critica, ora vedremo come procederà. Uno dei nostri obiettivi principali è insegnare che non è necessario uccidere a tutti i costi».

Chissà se il sacchetto ingerito da Onda veniva dal Pacific Trash Vortex, nome da colossal catastrofico che definisce l’immensa isola di plastica presente nell’Oceano Pacifico. Un vortice di correnti superficiali ha concentrato i rifiuti plastici gettati, persi o scaricati in mare, che si stanno lentamente scomponendo in piccoli frammenti. La maggior parte è così piccola da non essere distinguibile dal plancton, finendo nello stomaco dei pesci, per poi risalire lungo la catena alimentare fino all’uomo.

C’è il rischio di un’isola di plastica anche in Adriatico? «La plastica è presente in tutti i mari. In Adriatico abbiamo avviato un progetto di recupero, offrendo ai pescatori degli incentivi e puntando sul miglioramento della qualità del pescato. Queste iniziative però non bastano e ridurre il consumo di plastica è l’unica vera strada percorribile. Da parte nostra, contribuiamo tramite la divulgazione e la promozione dell’utilizzo di materiali alternativi alla plastica presso gli stabilimenti balneari, le sagre e i festival».

Tra le varie attività, CESTHA collabora anche al progetto Europeo PRIZEFISH per la pesca sostenibile in Adriatico. L’idea è rendere più vantaggioso il prodotto pescando meno e meglio, per esempio attraverso l’utilizzo di attrezzature più efficienti. Se la qualità del pescato è migliore, infatti, lo si può vendere a un prezzo più alto, eliminando la necessità di accumulare grossi quantitativi per ottenere un guadagno accettabile.

E allora via con la promozione dei nuovi sport da spiaggia, come la caccia al mozzicone e il recupero delle bottiglie abbandonate, che siamo certi saranno di tendenza a partire dalla prossima stagione.

La casa è un nido

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illustrazione di Giulia Guerra

Sono tempi di riflessioni per tutti, accomunati dalla mancanza della propria individualità, dalla paura e dal dolore. L’obbligatorietà a stare a casa o meglio, entro un raggio di 200 metri, ci costringe a riconsiderare il nostro rapporto con quella che è l’architettura per antonomasia. Ma lo spazio che in queste settimane ci accoglie può anche essere respingente, se non soffocante.

Non basta infatti che una camera doppia sia di 14 metri quadri ed una singola di 9, non basta che la loro altezza sia di 2,70 metri.

Proprio oggi David Grossman scrive che quando l’emergenza sarà finita “Ci sarà chi per la prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere”. Come progettista, mi auguro che insegnerà ad ognuno di noi ad amare di più noi stessi come abitanti di quel luogo che dovrebbe farci da nido, da tana, da crisalide.

Non c’è architetto che negli anni dell’università non abbia studiato la famosa triade vitruviana: utilitas, firmitas, venustas ovvero utilità, stabilità e bellezza, quale formula necessaria a garantire una perfetta opera di architettura. Mi permetto di correggere in parte il grande Marco Vitruvio Pollione.

Non basta più che un’architettura sia utile ad uno scopo, che sia stabile e non basta neanche che sia bella. Quella bellezza promossa in ogni dove: riviste digitali, corsi on line, programmi televisivi fatti di must e open space, pinterest, facebook e instagram. Architetture tanto più belle, quanto più nuove e fotografabili, ma che difficilmente reggono il tempo.

Non basta più. La casa in particolare è il luogo dove abitano esseri umani, con caratteristiche e passioni proprie, esseri viventi che in quei 14 metri quadri dormono, litigano e fanno l’amore. E in quei 9 vedranno crescere un bambino che piano piano sarà adolescente e poi uomo.

La casa è un luogo affettivo prima che metrico, è un luogo emotivo e psicologico prima che normativo.

Basta aggiungere humanitas alla famosa triade.

Basta cambiare il punto di vista; basta cambiare e ne abbiamo la possibilità.

Laminarie. Dieci cartoline da Timișoara

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Il gruppo guidato da Febo Del Zozzo e Bruna Gambarelli da anni dà vita a un percorso di ricerca teatrale che si articola in progetti itineranti site-specific nei quartieri periferici di diverse città, coinvolgendo in prima persona gli abitanti del luogo. 

Nel mese di ottobre 2019 Laminarie ha viaggiato fino a Timișoara, in Romania.

Midollo è Il progetto che la compagnia propone affinché sia realizzato nell’ambito delle manifestazioni per Timișoara 2021, Capitale Europea della Cultura: «È uno spettacolo itinerante da realizzarsi in un edificio significativo in collaborazione con i cittadini e con intellettuali e studiosi della città. È già stato realizzato a Bologna e a Roma. Per realizzare il progetto a Timișoara siamo partiti da una prima fase di studio, avvenuta nell’ottobre scorso contestualmente alla presentazione dello spettacolo Dentro le cose verso Midollo».

Abbiamo chiesto ai protagonisti di aggiungere alcune didascalie, sollecitati da domande elementari, sotto a dieci immagini da loro realizzate durante il viaggio.

Ecco ciò che ne è venuto fuori.

Tre elementi fondamentali di questa città?

Timișoara è una città accogliente, multietnica e multiconfessionale, architettonicamente imprevedibile, decadente e bellissima, luminosa e culturalmente molto attiva. Da sempre un crocevia mitteleuropeo, è attraversata anche da conflitti generazionali tra chi ha vissuto il periodo precedente alla rivoluzione e chi è nato successivamente alla deposizione di Ceausescu, tra chi è emigrato e chi è ritornato, tra chi legge il presente e chi vive in un passato velato da una falsa nostalgia.

Timișoara è nota per essere la prima città europea ad essere stata dotata di illuminazione elettrica pubblica. È definita “città dei lumi”, anche per l’influenza dell’illuminismo che, a detta di molti studiosi locali, ne ha determinato la vera identità.

Lo studioso italiano Francesco Griselini ci racconta la città attorno al 1770: già allora Timișoara si sviluppa come città multietnica, con una grande percentuale di popolazione Rom. In particolare, le integrazioni delle diverse comunità daranno luogo, nel quartiere di Fabrica, a un esperanto linguistico favorito anche dal fatto che quasi tutti i cittadini di tutte le età parlano diverse lingue.

Quali saperi vi hanno accompagnato, in questo viaggio?

Un’attitudine punk, l’allenamento all’imprevisto e a questo tipo di esperienze, la fede nel teatro.

La capacità di abitare temporaneamente spazi sconosciuti, confidare negli incontri, la capacità di coinvolgere altri artisti, la curiosità, il saper perdere pur avendo sempre presente l’opera che si desidera mettere alla prova.

Bruna, cosa stavi cercando?

Volevo solo capire come era organizzato il catalogo di questa bellissima biblioteca, purtroppo chiusa al pubblico, così sono partita da un’autrice che conosco.

Qual è la vostra definizione di “bellezza”? E di “bruttezza”?

Ogni immagine suggerisce bellezza quando lascia allo sguardo la possibilità di immaginare. È brutta un’immagine confezionata che non lascia spazio al pensiero che riduce le nostre azioni ad atti scontati.

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Quali pericoli si corrono, personali o artistici, in un viaggio come questo?

Questo tipo di progettualità si nutre del rischio, gioca con la possibilità che tutto possa prendere una piega non voluta, sia in senso positivo che in un senso non augurabile.

Quando si entra in diretto contatto con edifici e le persone che li abitano, si lavora con sconosciuti e si accetta il rischio del possibile fallimento del progetto. Questa grande libertà sembra essere preclusa in molti luoghi della cultura. Noi abbiamo potuto sperimentare e ricercare la relazione teatrale che volevamo istituire in autonomia. I limiti sono dettati dalle strutture architettoniche dagli esiti attorali, che sono frutto di relazioni umane e artistiche impreviste.

Ma in questi limiti risiede una grande libertà.

Gli ostacoli maggiori risiedono nella difficoltà di comunicare il pensiero che ha generato e guidato la nascita del progetto o in tutte le questioni logistiche che non dipendono solamente dall’operato della Compagnia. A un certo punto le domande si affollano simultaneamente: quello che stiamo facendo basterà? È il modo giusto? Dove ci porta quello che siamo, dove ci spingono le domande che ci muovono?

Quasi sempre tutto si risolve nella prassi e nella capacità di attraversare gli imprevisti, per farli diventare parte del gioco.

Cosa avete scoperto, di inaspettato?

Le difficoltà linguistiche non hanno determinato nessun limite al progetto.

Che era possibile ottenere l’utilizzo della caserma “U”: spazio unico, pericoloso e bellissimo

La straordinaria complicità tra donne che ricoprono ruoli solitamente riservati ai maschi: imprenditrici e proprietarie di edifici, direttrice tecnica del principale teatro di Timișoara, direttrice dell’Accademia, componenti del consiglio direttivo di Timișoara 2021.

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Quali collaborazioni artistiche siete riusciti ad attivare?

Con studiosi, artisti, studenti delle Accademie di arte visiva e arte performativa, centri culturali indipendenti, docenti, cittadini, giornalisti, direttori dei musei e dei conservatori.

Per questo primo studio, la Compagnia ha coinvolto in scena i musicisti della Facultatea de Muzică si Teatru – UVT.

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Cosa vi siete portati a casa?

Il desiderio di tornare.

La brama di poter fare il nostro mestiere in luoghi straordinari, sempre in bilico.

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Quali nodi restano irrisolti, per il Midollo a venire?

I nodi irrisolti sono ancora molti ma attualmente sembrano facezie rispetto all’emergenza che stiamo tutti attraversando.

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Quali “angeli” hanno vegliato su di voi?

Quelli che portiamo sempre con noi.

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Grazie.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: http://www.laminarie.com/

 

QUI GATTA CI SCAVA

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Gli scavi archeologici medievali sono spesso situati in luoghi impervi. Per raggiungerli occorrono lunghe passeggiate boschive per i sentieri escursionistici che riempiono le nostre campagne. Arrivare alla cima di Ceparano, nel primo Appennino faentino, dove s’alzano i resti di un antico castrum medievale, è più confortevole da documentatore che non da archeologo. È agosto, io ho portato penna e taccuino, loro misuratori, buste, pale, picconi e palette. Ho percorso l’intera via Ceparano in macchina, partendo dal paese più vicino, nonché mio domicilio, Marzeno. Lasciandosi alle spalle la chiesa, inizia una strada ghiaiata, dissestata, che arriva fino ad un ampio spazio in cui tutti i ragazzi impegnati negli scavi parcheggiano la macchina ogni mattina.

Scorgendo il sentiero da intraprendere, la prima cosa che penso è «ma chi me lo fa fare?»: la cima del colle, meta del mio viatico, appare lontana, circondata da una vegetazione che tutto sembra fuorché ospitale. L’ultima volta che ho compiuto quella escursione ero un ragazzino, quando con alcuni amici andavamo a giocare lassù, fra le fratte.

In realtà ci vogliono appena dieci minuti per raggiungere gli scavi, e ad attendermi, in panciolle, alcuni dei ragazzi, studenti quasi tutti delle Facoltà di Storia e Beni Culturali di Bologna: «Aspettiamo Cirelli», si giustificano. Enrico Cirelli, ricercatore e professore presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, non passa la notte assieme ai ragazzi, e, dormendo a Fognano con la famiglia, arriva sempre un’ora dopo, quando gli studenti hanno preparato tutto e proseguono i lavori interrotti il giorno prima.

I ragazzi che si occupano della prima zona, quella ai piedi del castello, dove sepolto si nasconde un ampio ossario con centinaia di resti umani, stanno estraendo ossa dal terreno. Basta eliminare pochi centimetri di terra per veder sbucare tibie, mandibole e resti cranici di persone medievali e rinascimentali. Si ipotizza che il più anziano degli uomini seppelliti qui abbia poco più di quarant’anni.

Quando estraggono una mandibola con alcuni denti ancora incastonati iniziamo a discutere di stili di vita degli antichi. Domando ai ragazzi quali fossero le nozioni di igiene orale nel XVI secolo, ai tempi di Michelangelo e Machiavelli. Probabilmente, in quel castello sperduto tra le campagne romagnole, nessuna.

Prima, al mio arrivo, i ragazzi hanno avuto un sussulto: si stavano divertendo trasportandosi con la carriola. Se li avesse visti Cirelli… – contiamo non legga tutto questo. Vengono da tutta Italia, uno addirittura da Londra e condividono una passione giovanile per quello che stanno facendo, mansioni che sminuiscono in ogni momento come lavori da operaio non pagato. «Con quel poco che l’università passa – dice uno di loro – Cirelli deve occuparsi del cibo e delle urgenze per un mese intero. Benzina e gli alcolici dobbiamo pagarceli da soli». Ridono, ma subito mostrano le proprie perplessità sul futuro dell’archeologia italiana e della ricerca in generale. Paragonano quegli scavi con altri statunitensi e olandesi, in cui, a detta loro, quasi vengono utilizzati picconi d’oro per spaccare la terra più dura. Quelle narrazioni di realtà lontane assumono i caratteri di una leggenda, di un’utopia cui aspirare. «Finiti gli studi di Archeologia o hai la fortuna di entrare in cooperativa come operaio sottopagato, o vai all’estero a far fortuna».

Salendo alla torre, un altro gruppo di ragazzi scava certi spazi murari, totalmente seppelliti dai crolli del tempo e della storia. Hanno rinvenuto nicchie, mura e muri costruiti su muri precedenti, in un intrico spesso difficile da interpretare. Tra i tanti ritrovamenti, solo uno, certo e indispensabile, manca all’appello. Essendoci dei resti umani, deve esserci anche un luogo di culto, ma dove?

Quando Cirelli arriva, i ragazzi sono già al lavoro. Il professore porta alcuni viveri e discute con loro sul da farsi e sugli errori commessi. Affida compiti e responsabilità, mi invita a seguire una studentessa, che può aiutarmi con tutta la storia del luogo. Ma ben presto si fanno le 17.30, e si scende a Marzeno, che quella sera ospita una grande festa.

I ragazzi entrano nella scuola, il loro albergo per questo mese di scavi, lasciano i reperti catalogati. Nel giro di quattro settimane la mensa scolastica si è riempita di sacchi pieni di ossa, che i ragazzi ci mostrano con grande vivacità, come se fossero artigiani che le hanno costruite. Si devono preparare per raggiungere, pochi alla volta, il Circolo ARCI, dove l’unica doccia a loro disposizione in paese li aspetta. Successivamente un Campari, che a detta loro è molto economico qui a Marzeno. Ma lo afferma un milanese, quindi non vale.

La sera è riservata allo svago. Sentendo cantare in coro i classici della musica italiana sono uscito in strada. Nel giardino della scuola gli archeologi bevono vino, così decido di portare loro una bottiglia. Mi accolgono come un compagno, addirittura come maestro per chi non conosce i testi di Mango e Renato Zero. La minuscola frazione di Marzeno, per un weekend intero a fine agosto si riempie di persone in festa e l’equipe di scavi ha la fortuna di soggiornare qui in alta stagione. Mangiano alla sagra, bevendo e ballando assieme ai paesani sotto il palco su cui le band danno spettacolo. Cirelli, dormendo a Fognano, non vede nulla.

Potrei descrivere le loro esistenze come un pendolo che oscilla tra il controllo del professore e la sua assenza, ma sarebbe riduttivo. Anche da brilli si parla spesso di questioni ontologiche e antropologiche. Dal grande Milan dell’antichità alla politica, alla situazione dell’archeologia passando per il blues che arriva nelle nostre orecchie. Non ci è voluto molto a farsi benvolere, la cordialità di quasi ogni agglomerato di studenti eterogenei è risaputa.

Cirelli afferma che una stagione di scavi non è molto diversa da un campo scout finalizzato alla pubblicazione di articoli scientifici, e mi pare ragionevole. Gli studenti imparano creando conoscenza, e la situazione cade talmente tanto nell’informalità forense che offrono anche a me e ad alcuni amici piccone e palette, per portare alla luce un antico muro crollato.

Ma di quei giorni, a distanza di oltre due mesi, che cosa resta? Una lunga serie di articoli, di cui questo è essenzialmente l’ultimo. Un paio di tesi di laurea, forse qualche testo scientifico di difficile reperibilità. Resta l’esperienza e i muri scoperti da secoli di pioggia, vento e terremoti. Ma più di ogni altra cosa resta un grande dubbio: dove e come lavoreranno questi ragazzi, nati nel Paese con più siti Unesco al mondo? Riusciranno a vincere la sfida contro il barcamenarsi di governi e amministrazioni disinteressate, che non riescono a valorizzare i centri storici, figuriamoci siti archeologici a mezz’ora di macchina dalla città? Ai postumi – del Campari economico di Marzeno – l’ardua sentenza.

Di Alex Bertozzi

Dialogo con il medico di base

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La diuturna battaglia condotta dall’Ipocondriaco contro le malattie e la metafisica produce un’ecatombe di danni collaterali. All’ombra del Nostro vivono farmacisti ammorbati ma abbienti, amici sorridenti e alcolisti, congiunti affettuosi che sopravvivono grazie alle fantasie omicide: l’ossimoro è una forma di resistenza all’Orda. La vicinanza all’Ipocondriaco è un dramma troppo spesso taciuto. Ma nulla, neppure il Trittico delle Delizie di Bosch, può descrivere l’esistenza dell’interlocutore principale: il Medico di Base. Egli è vissuto dall’Acchiappamalattie come una sposa morganatica, come un San Paolo non ancora folgorato, come un Sancho Panza ignaro dell’esercito dei Mori, come un Siddharta prima dell’Illuminazione (la straordinaria maestria nell’utilizzo delle similitudini dell’Ipocondriaco è dovuta a decenni di esercizio nella descrizione dei sintomi, (ndr.).

Di seguito diamo conto di un dialogo di fantasia fra l’Ipocondriaco e il Medico di Base.

DIALOGO TRA L’IPOCONDRIACO E IL SUO MEDICO DI BASE

(Bozza di sceneggiatura per un cortometraggio)

Interno giorno, mattinata uggiosa.

L’Ipocondriaco entra, il Medico di Base sbianca e, d’istinto, porta la mano allo stetoscopio.

– Dottore buongiorno, come lei sa sono un po’ ipocondriaco e…

– Guardi, lo so bene viene tutte le settimane in ambulatorio…

– Bene, volevo capire come venirne fuori… chiedevo se lei poteva darmi qualche consiglio perché…

– Intanto, per la prima volta non è venuto con la diagnosi e la cura. Anzi, un vero ipocondriaco non ammetterebbe mai di esserlo…

– Infatti, anche se non è necessario offendere così, io sono veramente ammalato, lo dimostra il fatto che non sono riuscito a farmi una diagnosi…

Dinanzi a questa ammissione di debolezza, il Medico di Base affonda il colpo. Con lo sguardo vagamente sadico, saccheggia nozioni di psicologia apprese sui libri qualche decennio prima

– Cercherò di spiegarle, ascolti bene… l’ipocondria è l’ansia del persecutore… di più, è l’internalizzazione del persecutore e quando il persecutore è dentro… non c’è scampo, lei dall’ipocondria non guarirà mai perché ha un persecutore interiorizzato…

– Questa roba del persecutore sembra semplice, ma io non l’ho capita…

– Signor Mura mettiamola così, cercherò di essere più semplice… Lei ha compreso che sta vivendo la sua condizione come una minaccia interna?

– Sì…

– La sua angoscia è interna e si detenderà solo quando sarà definita…

– Aveva promesso che parlava facile…

– Lei ha letto più libri di me, con Lei non ho bisogno di parlare facile, sa benissimo che Lei si rassicurerà solo di fronte ad una malattia grave… Se mai le diagnosticherò il cancro, spero per lei di no, si rasserenerà… Perché secondo lei?

– Se mi viene il cancro non mi rassereno, lei non ha capito… Ho avuto un blocco renale per dodici volte e non sono mai stato sereno nessuna della dodici volte, mi creda…

– Ecco vede, era un leggero affaticamento renale…

– Cosa vedo?

– Ma le sembra… Io le ho parlato con franchezza, adesso sta a lei capire… Le faccio un ultimo esempio così non lasciamo spazi a interpretazioni: so che ha la passione per i romanzi, che legge, proviamo con la letteratura. Conrad ne “I Duellanti” parla della tensione vitale di fronte ad un persecutore e a un nemico; bene, il Persecutore può rappresentare una tensione esistenziale, una motivazione alla vita, nel suo caso il nemico è interno, lei non ha vie di fuga, mi dispiace, non guarirà… Arrivederci…

– Arrivederci e grazie mille per gli spunti, cercherò di farne tesoro…

L’Ipocondriaco è quasi fuori dall’uscio, il Medico di Base respira a pieni polmoni. Un attimo prima di chiudere la porta, il nostro torna sui suoi passi. Indossasse l’impermeabile, sarebbe uguale al tenente Colombo. Si rivolge al suo Sancho Panza.

– Un’ultima cosa…

– Mi dica…

– Dottore, ho notato che ha una leggera zoppia sulla gamba destra…

– Già (sbianca), un piccolo infortunio a calcetto…

– Ah, beato lei che non è ipocondriaco, un po’ di Voltaren e passa tutto giusto?

– Sì…

– Però…

– Però cosa? (il Medico di Base deglutisce).

– Niente, come dice lei: ho letto troppi libri e…

– E…

– Fossimo in un libro, sarebbe sicuramente gotta. Arrivederci…

– …Arrivederci, grazie…

(Dissolvenza in nero…)

NdA: l’utilizzo compulsivo dei puntini di sospensione è una dichiarata citazione di Louis Ferdinand Céline, scrittore e medico. La sua tesi di laurea dibatteva sull’importanza di lavarsi le mani per prevenire le infezioni…

Everyday Design: il primo tapis roulant come strumento punitivo nelle carceri

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Certamente qualcuno commenterà che non c’è niente di strano, ma pare davvero che il primo tapis roulant  sia stato concepito come strumento punitivo, nelle carceri di Bury St Edmunds, nel Regno Unito.

Secondo lo storico britannico Vybarr Cregan-Reid era il 1817, esattamente 200 anni fa, quando Sir William Cubitt, ingegnere figlio di un mugnaio, pensò di sfruttare la forza muscolare dei prigionieri per realizzare lavoro utile. E progettò una grande ruota di legno, camminando sulla quale, i carcerati azionavano una macina per il grano…

L’idea si diffuse rapidamente, anche oltreoceano, e fino a metà dell’800 in molte carceri si usò il lavoro dei prigionieri, ottenuto in questo modo, anche per pompare acqua o far circolare l’aria nelle miniere.

Combinazione dei numeri, 100 anni dopo, nel 1917, il newyorchese Claude Lauraine Lagen depositò il primo brevetto di un tapis roulant a scopo sportivo. Lo battezzò training machine: consisteva di rulli montati su una base in legno e ricoperti da un nastro antiscivolo.

Negli anni ’50 del XX secolo un cardiologo americano, Robert A. Bruce, pensò di utilizzare il tapis roulant per sviluppare un protocollo diagnostico per pazienti cardiopatici. Attraverso elettrodi fissati sul torace dei pazienti, Bruce monitorava le loro pulsazioni e la respirazione, mentre li sottoponeva all’esercizio fisico.

Ma il grande successo di pubblico per il tapis roulant esplose negli anni ’70, dopo che il dottor Kenneth H. Cooper pubblicò la sua famosa ricerca sui benefici dell’esercizio aerobico. Un ingegnere originario della Pennsylvania, William Staub, colpito dalle idee di Cooper, produsse un modello economico del tapis roulant, accessibile a tutti, ottenendo un tale successo che lasciò il suo lavoro di ingegnere aerospaziale per dedicarsi a tempo pieno alla nuova attività.

Finalmente era possibile praticare la corsa in qualsiasi momento, senza più la scusa del cattivo tempo…

Roberto Ossani, docente di Design della Comunicazione – ISIA Faenza

Gli appetiti della Wanda: trattoria Da Savino a Cavallino (Rimini)

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L’estate è stata lunga ma la voglia che finisca non arriva. E allora, se settembre ci viene incontro, ma anche ottobre – perché no? – è bello tornarci al mare, verso Rimini, a guardarla da lontano, a respirarne la storia salmastra, da sopra i colli bruciati da questa estate impietosa, e a bersi tutto d’un fiato il panorama luccicante della notte. A Coriano, in località CavallinoSavino Olivieri, tornato con 11 anni di guerra in India nello zaino, dopo averlo visto, girato e conosciuto un po’ tutto il mondo, nel 1950 rilevò il piccolo alimentari che da tempo se ne stava lì placido a pascolare tra i prati. Le strade allora erano tutte ancora in ghiaino, e col boom economico si cominciò ad asfaltare, a costruire e a dover sfamare decine di operai intenti alla ricostruzione di un’Italia sbrecciata dalla guerra. «E allora nonna Pasquina faceva un piatto di tagliatelle per l’uno, poi per l’altro, poi la gente cominciò a voler venire a festeggiare i matrimoni qui. Pian piano nonno Savino ha messo su questa trattoria. Poi è toccato a mio babbo Ettore e adesso a me». La storia ce la racconta così, Marco Olivieri, che gestisce questa trattoria romagnola fino al midollo, dove anche la lavapiatti è di Rimini, oltre alle materie prime, al vino e all’olio in tavola che sono tutti di Coriano. Nella veranda riesce a stringerci fino a 55 persone e, se riempie anche dentro – ma non lo fa! – di buongustai ne potrebbe soddisfare fino a 90 o anche 100. Sono in otto a lavorarci. Il venerdì ci trovi il baccalà, fritto, mantecato, con le patate o in risotto, il mercoledì ti fanno un menù di pesce che varia di volta in volta.

La Cristina, la cuoca, se ne sta in cucina, a custodire i segreti che punteggiano i piatti clou, quelli che hanno una sbruffata di innovazione, in mezzo ai tanti tradizionali, immancabili e tipici di queste terre. Non te lo dice proprio con che cosa sfuma il soffritto di tropea e pasta di salsiccia che andrà a condire gli strozzapreti, fatti di acqua e farina in purezza. Io direi che li sfuma con la grappa, ma è una mia illazione. Poi ci aggiunge ceci, di cui alcuni passati, un trito di rosmarino, condisce e porta in tavola. Una delizia!

La zucca mantovana, invece, la cuoce in forno con olio e sale poi la passa allo schiacciapatate, la mescola con del mascarpone e del rosmarino tritato finissimo e ne ricava dei ravioletti piccoli con la sfoglia all’uovo. Poi la Cristina fa due ragù. Il soffritto tradizionale, sedano, carote, cipolla e alloro, mescolato al pollo e al coniglio tritati, sfumato col Marsala – stavolta le è scappato! – cuoce un’oretta. Per l’altro ragù, in padella ci finiscono fegatini e magatelli di pollo sempre sfumati con Marsala e colorati con una cucchiaiata abbondante di conserva di pomodoro. I raviolini e i due ragù poi vengono mantecati con burro e parmigiano, prima di finire in tavola.

La seppia, la Cristina la fa coi fagioli. La lessa prima un pochino, poi la taglia sottile e la butta in un trito di scalogno, acciughine e olio, ci aggiunge un po’ di cannellini interi e un bel po’ passati, un niente di salsa di pomodoro, peperoncino e fa cuocere un’oretta. Poi la serve con un filo d’olio, prezzemolo e dei crostini di pane. Anche i dolci li fanno loro, sia quelli secchi che arrivano al tavolo senza bisogno di chiederli, con un po’ di Albana dolce, sia quelli al cucchiaio. E allora non ci resta che sperare che dopo una buona dose di pioggia, acqua benedetta per queste terre asciugate da un’estate eccezionale, si possa godere di un autunno fresco e mite in cui venire a placare la nostra arsura con un altrettanto desiderabile e rinfrescante e ottimo vino dei colli romagnoli.

Trattoria Da Savino, via Cavallino, 32, 47853 Cavallino RN. Tel. 0541 656206

Merenda con la torta di mele della nonna

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Prepariamoci alla merenda con una buonissima torta di mele della nonna. La ricetta è vegan: senza uova e burro!

Seguite il video di Maria Pia Timo e Andrea Pozzi.

Ingredienti

500 gr di mele

150 gr di zucchero

150 gr di farina

buccia di un limone

un pizzico di sale

cannella

rum

 

Coronaworking

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PROLOGO

L’Italia entra in piena emergenza sanitaria. Il Governo autorizza tutte le aziende al telelavoro ma quelle tradizionali come la mia non sono attrezzate a dovere, escluso per chi è spesso in trasferta. Risultato, i primi arrivati si accaparrano i pochi portatili rimasti, gli altri si devono arrangiare alla bell’e meglio. Ingenuamente penso di poter risolvere collegandomi da un portatile personale e il giorno dopo lo porto in azienda per farlo configurare. Scopro però che serve un programma speciale, non basta il classico pacchetto che normalmente si installa sul computer di casa. Comincia così la mia lunga odissea.

Trascorro il giovedì lavorando normalmente e sentendomi anche un po’ pirla. Comincio a pensare che ci sia un complotto per tenermi in azienda e decido di prendere un giorno di ferie per riavermi dallo stress che questa situazione mi causa. Dal venerdì alla domenica assaporo la quarantena vera e allora via a lavare per terra, sbattere tappeti e riordinare armadietti e dispense. Potrei fare il pane penso potrei cominciare Guerra e Pace. Quando ancora si poteva uscire, il moroso che vive con me ha preventivamente comprato la Playstation per sopravvivere all’emergenza, dice lui. Mi faccio coinvolgere in qualche gara di go-kart e in men che non si dica è subito sabato sera. Un breve aperitivo con gli amici in videochiamata, ognuno con il suo bicchiere, noi che per connetterci al WiFi del piano di sopra dobbiamo andare in bagno. Poco male, cerco almeno di non inquadrare il gabinetto. Cuciniamo, ceniamo e cominciamo una lunghissima serie Netflix, ben quattro stagioni che di sicuro avremo il tempo di vedere prima che termini la quarantena. Ci addormentiamo entrambi a metà della seconda puntata. Il pane, ovviamente, non l’ho fatto. Anche la domenica se ne va piuttosto in fretta tra una cosa e l’altra, mi concedo pure l’ora d’aria sul terrazzo come qualsiasi carcerato che si rispetti. Scopro troppo tardi la diretta della lezione di yoga, quella di Pilates, quella di un amico dj. Sto per farmi di nuovo prendere dall’ansia…ma non si era detto di rilassarsi un po’? Vuoi vedere che questo #iorestoacasa si rivelerà più stressante del previsto?

GIORNO UNO

In un batter d’occhio è già lunedì mattina e mi rendo conto che non avrò tutto questo tempo libero. Pazienza. Esco di casa e sembra domenica, in giro ci sono pochissime persone. Se incontri qualcuno che cammina verso di te, uno dei due spontaneamente attraversa la strada per camminare sull’altro marciapiede. Salgo in macchina, entro in autostrada. Qualcuno c’è ma sembra un giorno lavorativo in agosto, non in marzo. Forse a causa del traffico ridotto, scopro cose che prima non avevo notato, mi sembra di vedere addirittura una specie di foresta tra i campi di peschi. Forse è solo la suggestione. Di questo passo mi apparirà anche la Madonna. Tra una traveggola e l’altra, arrivo all’uscita di Castel San Pietro Terme, una volta ridente cittadina ma ora zona in bilico tra un focolaio e l’altro. L’adrenalina sale. Ci saranno i carabinieri? I carrarmati? I sanitari che mi misureranno la febbre con il termometro a distanza? Niente. Sono un po’ delusa. Non incontro anima viva e svolto verso la zona industriale.

Arrivo in azienda dove apparentemente nulla è cambiato. Macchine parcheggiate, magazzinieri che caricano, un camion di materia prima che attende il suo turno per scaricare. Tutti a debita distanza e con indosso mascherina e guanti. Ora anche l’ingresso principale è regolato da badge, per evitare contaminazioni tra i reparti. Me l’avevano detto ma mi viene in mente solo dopo aver tirato la maniglia come una dannata per un minuto. Un collega della produzione tenta di avvicinarsi per salutare ma viene allontanato in malo modo. Se una cosa è certa è che questo coronavirus ha ripristinato le classi sociali: nessun contatto tra operai e impiegati fino a nuovo ordine. Entro. Silenzio. La mensa è chiusa, le porte tagliafuoco sono aperte per evitare di contagiarsi toccando tutti le stesse maniglie. Speriamo che non scoppi un incendio, altrimenti siamo spacciati. I miei colleghi sono stati confinati uno per ufficio. Lavorano con i guanti monouso e hanno l’obbligo di sanificare tutto, dalla tastiera al telefono, alla fine della giornata. Alternano la loro presenza sfruttando i giorni di ferie accumulati l’anno precedente. Io invece sono stata inserita nel gruppo del telelavoro. Mi sento una privilegiata. Alla domanda ma come faccio a lavorare da casa dato che non riesco a collegarmi dal mio PC personale e non ci sono più portatili aziendali disponibili mi viene però risposto arrangiati. Molto bene. Decido di copiare l’idea delle colleghe lombarde e faccio scattare l’operazione recupero del PC fisso aziendale.

Chiamo il responsabile informatico ma scopro che non è venuto al lavoro. La città di Medicina dove abita è appena diventata la zona rossa della zona rossa. Nessuno esce e nessuno entra. Passa il responsabile di stabilimento. Siccome sono in azienda, come da nuove disposizioni mi deve misurare la temperatura con il termometro a distanza. Sono un po’ emozionata, mentre lui legge il risultato mi batte il cuore. E se ho la febbre che fanno? Mi mandano semplicemente a casa oppure mi arrestano e mi consegnano agli operatori sanitari vestiti con le tute protettive da palombaro che mi sbatteranno in isolamento dentro una stanza di ospedale e getteranno la chiave? Per fortuna ho solo 36,6. Perfetto mi dice il responsabile sorridendo. Viene dalla provincia di Bergamo e solitamente vive in azienda dal lunedì al venerdì in un appartamento all’interno dello stabilimento dove prima alloggiava il custode. Bergamo, dove, ha detto ieri il TG, le pagine dei necrologi giornalieri sono passate da una a dieci. Dieci pagine di morti. Non ho il coraggio di chiedergli se tra loro c’è qualcuno che conosceva. Ormai non rientra a casa da almeno tre settimane e si è caricato sulle spalle la gestione dello stabilimento in questo periodo tanto delicato. Oggi, oltre al responsabile informatico, mancano all’appello l’addetto alla manutenzione, una collega del reparto commerciale e quattro capiturno, tutti bloccati in zona rossa. Ma lui non molla. Ha recuperato delle vecchie taniche da alcuni contadini dei dintorni e ci ha fatto dei mezzi di sanificazione di fortuna. Si vede che è provato ma va avanti, mi sembra solo un po’ più ossuto del solito e, considerato che parliamo di una persona che nel proprio tempo libero fa il maratoneta, comincia ad essere letteralmente magro come un bacchetto come si dice in Romagna.

Ma torniamo a noi. Il mio primo privilegio in quanto smart worker è accucciarmi sotto la scrivania per staccare cavi e prese che stanno lì dal Medioevo. Faccio molti incontri durante questa operazione: svariati gatti di polvere, uno scarafaggio morto, un pezzo di merendina che ancora un po’ prende vita propria. Forse non prenderò il coronavirus ma sto rischiando il tetano. Mi sento davvero molto fortunata. In un modo o nell’altro, porto a termine l’operazione. Devo assolutamente fare il telelavoro altrimenti, al di là dei rischi evitati, come farò a scrivere post su Facebook con l’hashtag #iorestoacasa? Diventerei una reietta, sarei esclusa dalla società. In questo periodo, se non fai il telelavoro non sei nessuno e io ci riuscirò. Fotografo la disposizione dei cavi prima di staccarli per ricordarmela a casa. Carico tutto in macchina: la torretta per terra adagiata su uno dei tappetini, la tastiera sul sedile. Il monitor è piuttosto imponente e costoso. Lo appoggio su uno dei sedili posteriori e gli metto pure la cintura di sicurezza. Non si sa mai.

Giungo a casa, ormai si sono fatte le 11.30. Decido che mi merito una pausa caffè sul terrazzo, per assaporare uno dei privilegi di questa mia nuova condizione lavorativa. Preparo la postazione su una scrivania in noce nello studio. Collego tutto. Il PC si accende. Perfetto. La postazione è davvero elegante e funzionale, peccato che non funzioni nulla. Ho collegato il cavo di rete al modem ma non c’è connessione. Scopro che i tecnici non saranno disponibili per aiutarmi fino a domani mattina perché hanno già troppe chiamate. Ottimo. Continuo a lavorare su documenti offline e tramite Smartphone per il resto della giornata, cercando di non farmi prendere dallo sconforto.

GIORNO DUE

Scopro altri privilegi di questa nuova situazione. Ho a disposizione un’ora di sonno in più e posso evitare di fare 30 km all’andata e 30 km al ritorno tutti i giorni per andare in ufficio. Mi basterà fare dieci passi. Vado in cucina a preparare la colazione passando dal soggiorno e scopro uno dei lati negativi più significativi di questa esperienza. A quest’ora di solito sono già in macchina e il sole ancora non è spuntato da dietro la casa di fronte. Alle 8.00 invece riempie il soggiorno in tutto il suo splendore. È una bellissima luce, un momento fantastico che di solito mi sfugge e che apprezzo davvero…finché guardo la parete. Quando invece rivolgo lo sguardo al giardino mi accorgo della sporcizia che si è accumulata durante l’inverno sul vetro della porta finestra e capisco a malincuore che per pulirlo dovrò aspettare il sabato, come in qualsiasi altra settimana lavorativa. Sospiro. Sento un rumore sinistro e scopro ormai di convivere con un orso che russa come se non ci fosse un domani. Credo si sia ormai trasferito definitivamente sul divano in compagnia della sua nuova fidanzata: la Playstation. Sul tavolino si accumulano bicchieri e piatti. L’azienda per la quale lavora per il momento l’ha messo in ferie, poi si vedrà. Già intuisco che la quarantena metterà a dura prova la nostra convivenza. Decido di rimandare la ramanzina alla pausa pranzo. Mi preparo la colazione e aggiungo eccezionalmente un bel caffè lungo all’americana da versare nella mia tazza preferita che appoggerò sulla mia nuova scrivania. Un caffè che sembra acqua sporca e che sorseggerò appena perché mi fa schifo, ma che mi farà sentire molto smart.

Ore 8.30, accendo il PC che sono finalmente riuscita a collegare a Internet. Accedere al server aziendale invece è un’operazione un po’ più complessa. Il responsabile informatico ha inviato a tutti una e-mail con una dettagliata quanto incomprensibile spiegazione su come collegarsi da casa. Provo e naturalmente non funziona. Sospiro di nuovo. Decido di lasciar perdere la ramanzina casalinga almeno per oggi e di concentrare tutta la mia pazienza sul lavoro. Passo un’ora tra chiamate e collegamenti per tentare di risolvere il problema in remoto ma con scarsi risultati. Si rimanda a domani. Continuo a lavorare su programmi ai quali posso accedere via Internet. Ore 10.30 pausa caffè sul terrazzo, ore 12.30 pranzo. Ormai sto entrando in una nuova routine. Alle 13.30 si ricomincia. Passo il pomeriggio a organizzare la newsletter di questo mese. Ridimensiono le foto che per fortuna avevo salvato su una chiavetta, preparo i testi li traduco in inglese. Ricevo aggiornamenti sulle prossime fiere in programma, che sono quasi tutte rimandate. Bene o male, arrivano le 17.30 anche oggi.

Per la cena, decidiamo per una botta di mondanità e la ordiniamo al telefono in uno dei pochi ristoranti che hanno deciso di rimanere aperti offrendo l’unico servizio possibile in questo momento. Puliamo casa e apparecchiamo la tavola come se dovessimo ospitare la Regina d’Inghilterra. Che, scopriamo nel frattempo, è anche lei in isolamento ma nel castello di Windsor. Noblesse oblige. Mentre attendiamo mi assalgono mille dubbi: il servizio sarà sicuro? Il virus può esser trasmesso tramite il cibo? Decido di fidarmi e di non entrare in paranoia, se hanno deciso di farlo sarà di sicuro nella massima sicurezza. Alle ore 20 arriva il fattorino con mascherina e guanti e lascia tutto a distanza per evitare il contatto. Il pagamento ovviamente è tramite App e l’ho già effettuato nel pomeriggio, così tutto si risolve nel giro di pochi secondi. Mangiamo di gusto, questa parvenza di normalità ci tira un po’ su di morale.

GIORNO TRE

Sveglia, colazione. L’orso che russa, il vetro da lavare. Il caffè all’americana oggi non lo faccio, meglio una classica tisana italiana. Un po’ di patriottismo in questi tempi difficili, per la miseria. Alle 8.30 sono di nuovo pronta. Riusciamo a risolvere i problemi di collegamento e adesso sono pienamente operativa. Alle 11 mi aspetta una videoconferenza con il mio capo e le colleghe. Vado in bagno a truccarmi e a cambiarmi. Almeno il sopra, per il sotto invece decido di continuare a indossare i pantaloni del pigiama e le ciabatte. Alle 10.50 mi arriva un messaggio, qualcuno ha problemi di collegamento e la riunione è rimandata. Pazienza. Il resto della mattina passa abbastanza in fretta, il tempo per il pranzo non è molto, per fortuna l’orso prepara da mangiare seguendo le mie indicazioni specifiche: tutto pronto alle 12.30 perché alle 13.30 mi devo riconnettere. Prima di sedermi a tavola, siccome per oggi sono già truccata e vestita a metà, decido di approfittarne per uscire un momento a buttare la spazzatura, il momento più mondano della giornata. Indosso pantaloni, scarpe e giubbotto, tutti indumenti che non metto da un po’ e scendo, con la mia bella autocertificazione in tasca. Per strada non c’è quasi nessuno e si respira un’aria così pulita che sembra di stare in montagna. Davanti a me ho una persona che sta facendo la stessa operazione e attendo il mio turno a debita distanza. Ormai tocca fare la fila anche davanti al cassonetto. Il caffè del dopo pranzo lo prendiamo con i vicini, nel senso che ognuno lo beve affacciato alla propria finestra sul giardino comune mentre scambiamo due chiacchiere. Il pomeriggio passa un po’ meno in fretta del mattino e mi accorgo delle tante tentazioni che ci sono quando si lavora da casa. Dovrei proprio riordinare la libreria. Abbiamo riempito la lavastoviglie ieri sera? Quando hanno detto che esce la terza stagione di La Casa di Carta? Il vetro del soggiorno…e via così. Concentrarsi non è semplice ma faccio del mio meglio. Alle 17 arriva una e-mail che avvisa dell’arrivo di una circolare per tutti gli smart workers. Due pagine di indicazioni su modalità contrattuali, orari e regole da rispettare. Il messaggio si conclude con la frase Confidiamo in una gestione seria e responsabile visto il periodo di emergenza in cui operiamo. Sulle prime mi offendo un po’. Non abbiamo cinque anni, saremo capaci di gestire il lavoro da casa, no? Poi però capisco: siamo in Italia e se fino a poco tempo fa c’erano i furbetti del cartellino, figuriamoci se non ci sono quelli del telelavoro. Dopo poco arriva un’altra e-mail che dice che tutte le persone in lavoro agile devono prendere un giorno di ferie a settimana. Sono quasi emozionata. Un giorno di ferie. Devo solo decidere se trascorrerlo in terrazzo, in cucina o in soggiorno. Ci penserò su.

Questa sera niente cena a domicilio ma, visto il fiorire di tanti registi improvvisati, vogliamo anche noi lanciarci nella creazione di qualche video casalingo. L’orso ha un’idea brillante, ovvero sfruttare i soldatini dello Schiaccianoci comprati per Natale che sono arrivati dalla Cina a metà gennaio e hanno trascorso la loro quarantena su un mobile del soggiorno. Li disponiamo sul tavolo e organizziamo un canto a cappella che riprendiamo e pubblichiamo su Facebook. Il video riscuote un certo successo e decidiamo di realizzarne altri. Lo facciamo soprattutto per tenere alto il morale perché, come consigliato da un articolo autorevole, se si trova una forte motivazione, uno scopo ben definito, sarà più facile trascorrere serenamente questo periodo. In un modo o nell’altro, facciamo sera anche oggi.

GIORNO QUATTRO

Sveglia, colazione. L’orso che russa, il vetro da lavare. Il caffè all’americana l’ho definitivamente lasciato perdere, inutile prendersi in giro. Oggi sono finalmente operativa al 100% fin dall’inizio della mattina e posso lavorare come se fossi in ufficio. O meglio, quasi. I colleghi un po’ mi mancano e sperimento il senso di solitudine che il telelavoro può causare. Certo, riesco a fare quasi le stesse cose ma mi sento scollegata dagli altri, un po’ ai margini. Capisco l’importanza di mantenere una routine. In azienda mi occupo di comunicazione e in questo periodo il mio lavoro mi sembra un po’ inutile. Chi avrà voglia di sapere del nuovo reparto di produzione che abbiamo appena completato nella sede aziendale in South Carolina? O della sponsorizzazione della corsa con i cani da slitta in Alaska? Forse saranno pochi quelli che abbandoneranno anche solo per cinque minuti le notizie sul coronavirus per leggerle ma per quei pochi ci dobbiamo essere. Non per far finta di niente e andare avanti come se nulla fosse, ma perché dobbiamo attaccarci a un certo livello di normalità per non perdere il senno e pensare solo alla crisi economica e sociale che questa emergenza sanitaria trascinerà con sé.

Le mie giornate in telelavoro o lavoro agile o smart working sono ormai scandite con una certa regolarità ed è un bene, quantomeno per mantenere il più possibile inalterata la mia sanità mentale. Domani sono in ferie, chissà cosa farò. Forse, laverò il benedetto vetro del soggiorno.

Open Border, il disco di Forlì Open Musica 2018

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Open Border, il disco edito da Catalytic Sound e frutto del progetto ideato e realizzato da Area Sismica per l’edizione 2018 del Forlì Open Music, è fresco di pubblicazione ed è attualmente disponibile in vinile 12″ e digital download.

Il progetto vede coinvolta la formazione composta da Luigi Ceccarelli alla regia del suono, Gianni Trovalusci ai flauti, Hamid Drake alla batteria e percussioni e da Ken Vandermark ai sax. Il disco altro non è che la registrazione di quel concerto avvenuto nel 2018 e la sua masterizzazione è stata resa possibile dal produttore, musicista e ingegnere del suono Bob Weston ai Chicago Mastering Service.

Era il 14 ottobre 2018. La Chiesa di San Giacomo di Forlì era gremita di spettatori, tutti impazienti di poter finalmente sentire dal vivo due dei più importanti esponenti della musica contemporanea, vale a dire Gianni Trovalusci e Luigi Ceccarelli, e due dei più noti esponenti della musica jazz attuale, Hamid Drake e Ken Vandermark. Una formazione unica che mette insieme la musica cosiddetta “colta”, apertasi a partire dalla seconda metà del Novecento alla composizione istantanea, e il free jazz che predilige invece da qualche anno gli stilemi della musica strutturata. Insomma, due opposti che si attraggono e che danno vita a una fusione senza precedenti, lasciando inevitabilmente una traccia indelebile sul percorso musicale futuro.

Oggi, grazie al progetto Open Border questa esperienza musicale può entrare in tutte le case: qui, come accaduto presso la Chiesa di San Giacomo quel 14 ottobre, il gruppo si appresta a mandare in frantumi ogni tipo di convenzione musicale e ogni confine con lo scopo di alimentare una ricerca libera e infinita, priva di categorie e aperta all’improvvisazione.

info e acquisto: areasismica.it, vandermark1.bandcamp.com/album/open-border, catalyticsound.com

Yes we CAN-CAN, lo dice Offenbach

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Matteo Parmeggiani - Orchestra Senzaspine_ph Orchestra Senzaspine

Si intitola Yes we CAN-CAN il divertentissimo video musicale realizzato dallo staff dell’Associazione Senzaspine, con l’obiettivo di alleggerire le lunghe giornate casalinghe e tenerci compagnia grazie all’aiuto della musica.

Yes we CAN-CAN: divertirsi in quarantena SI PUÒ è questo il leit motiv con cui i talenti, strumentisti, coristi, collaboratori, tecnici della comunicazione e amministrativi da casa propria – hanno interpretato, ballato, suonato e cantato il travolgente Can-can del compositore Jacques Offenbach: momenti di “condivisione a distanza”, resi possibili grazie alla tecnologia, per non perdersi d’animo e non arrendersi, aderendo alla campagna #iorestoacasa.

Prosegue, inoltre, la programmazione #SULTUOSCHERMO, che l’Orchestra Senzaspine propone sul proprio canale YouTube, durante questo momento di sospensione delle attività, per allietare il pubblico che potrà prendere visione dei concerti sinfonici eseguiti nelle scorse stagioni ogni lunedì e ogni giovedì con inizio alle ore 21 ancora per le prossime due settimane.

Dopo il successo di visualizzazioni della Sinfonia n. 9 in mi minore “Dal Nuovo Mondo” op. 95 di Antonín Dvořák diretta da Matteo Parmeggiani, della Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 di Ludwig van Beethoven diretta da Tommaso Ussardi e del Concerto per violoncello e orchestra op. 104, b. 191 di Dvořák diretto da Matteo Parmeggiani e interpretato dal grande violoncellista torinese Enrico Dindo, trasmesse rispettivamente lunedì 16, giovedì 19 e lunedì 23 marzo

Altra protagonista sarà la giovane pianista Margherita Santi che sotto la direzione di Tommaso Ussardi eseguirà giovedì 26 marzo il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 di Sergei Rachmaninov.

Chiude l’ultima settimana la musica di Tchaikovsky con il Concerto per pianoforte e orchestra n.1 op. 23, interpretato dalla solista Sofya Gulyak e sotto la direzione di Matteo Parmeggiani che verrà trasmesso lunedì 30 marzo, e la Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36 diretta da Tommaso Ussardi giovedì 2 aprile.

Prossimi appuntamenti #SULTUOSCHERMO con l’Orchestra Senzaspine
Giovedì 26 marzo, ore 21.00 – canale YouTube dell’Orchestra Senzaspine
Sergei Rachmaninov, Concerto per pianoforte e orchestra n. 2
Tommaso Ussardi direttore
Margherita Santi pianoforte
Orchestra Senzaspine

Lunedì 30 marzo, ore 21.00 – canale YouTube dell’Orchestra Senzaspine
Pyotr Ilyich Tchaikovsky, Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 op. 23
Matteo Parmeggiani direttore
Sofya Gulyak pianoforte
Orchestra Senzaspine

Giovedì 2 aprile, ore 21.00 – canale YouTube dell’Orchestra Senzaspine
Pyotr Ilyich Tchaikovsky, Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36
Tommaso Ussardi direttore
Orchestra Senzaspine

#iorestoacasa
www.senzaspine.com

Everyday Design: la paper clip, in italiano graffetta

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Se esistesse l’Oscar per la semplicità e l’eleganza, io lo assegnerei alla paper clip, la graffetta ferma fogli.

Se ne svolgete una, scoprirete che è costituita solamente da pochi centimetri di filo di acciaio piegato tre volte, e che la sua flessibilità e la sua memoria di forma sono le chiavi del suo funzionamento.

In realtà il problema non era mica semplice. Immaginiamo che la graffetta non esista. E che vi venga chiesto di ideare uno strumento per tenere insieme un po’ di fogli di carta, con alcuni vincoli. Tanto per cominciare, questo strumento dovrebbe esercitare una presa adeguata sulla carta. Ma non si vogliono stropicciamenti sui fogli, e tantomeno fori o tagli. Il suo uso dev’essere intuitivo, dev’essere facile da inserire e da estrarre. Non vogliamo macchie di ruggine sulla carta, né colla, ovviamente. Dev’essere un oggetto molto economico, facile da produrre, riutilizzabile all’infinito. Ah, dimenticavo: niente aggrovigliamenti nella scatola.

Forse adesso cominciamo a capire perché, quasi fino alla fine dell’800, per tenere insieme i fogli di carta, si usassero nastri o cordicelle. Il problema non era affatto facile.

Il primo brevetto registrato per una graffetta risale al 1867, a nome dell’americano Samuel B. Fay. In realtà il suo scopo era il fissaggio di biglietti su tessuti (non si poteva rovinare la seta…), ma il brevetto citava la possibilità di tenere insieme anche fogli di carta. In effetti il disegno era molto diverso dalla clip come la conosciamo noi, diciamo più simile a quelle che troviamo oggi sulle camicie vendute piegate.

Nei decenni successivi furono registrati diversi modelli di graffette (i più importanti furono quelli di Erlman J. Wright nel 1877 e di Frank Angell nel 1889), ma anche questi erano piuttosto lontani dalla forma più diffusa attualmente.

La prima apparizione della clip evoluta, nella configurazione odierna, risale al 1899, in un brevetto intestato a William Middlebrook.

Il problema è che il brevetto non riguardava la graffetta. Middlebrook brevettò una macchina per produrre le graffette.

E, in un angolo del suo disegno, c’era la clip che la sua macchina poteva produrre.

Qualche storico ha dimostrato che quella forma era già in commercio, in quegli anni. Quindi, sostanzialmente, il progetto della paper clip è anonimo.

Dal brevetto di Middlebrook la graffetta fu chiamata Gem clip, perché la macchina fu progettata su incarico della Gem Company, in Inghilterra.

Da allora ne sono state prodotte centinaia di tipologie, in infiniti colori e forme, ma la Gem clip originale è nel primo cassetto di ogni scrivania. E rimane inalterato il fascino di questo sottilissimo tondino di acciaio piegato, senza saldature, senza viti, senza batteria, che noi tutti utilizziamo quotidianamente senza pensare all’intelligenza che c’è, dietro a un oggetto così piccolo e umile…

Roberto Ossani, Docente di Design della Comunicazione, ISIA Faenza

“L’occhio del lupo” di Daniel Pennac

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Chiudere un occhio

Gli occhi. Negli occhi c’è già tutto. Nei suoi occhi c’è la vita, c’è l’amore… ma c’è anche la morte, l’odio, il dolore. Negli occhi c’è tutta la vita, negli occhi si può vedere la storia dell’altro. Bisogna saperli osservare, bisogna saperci guardare. Non basta strabuzzare i propri in piennellesca maniera da venditore di spazzole. Non ci si può accontentare di un’occhiata fugace. Bisogna saper leggere, anche gli occhi. E ci vuole il suo tempo per capire cosa ci stanno raccontando. Non parlo di quei fenomeni da baraccone che para clinicamente guardando gli occhi di una persona sanno dirle se la sera prima ha fatto sesso (questa la buttano sempre là, soprattutto se hanno di fronte una donna) o se la mattina ha fatto la cacca.

Cacca, una parola che fa sempre ridere i bambini.

Quel demonio del Pennacchioni (Daniel Pennac) mi frega quasi sempre. Anche quando scrive un libro per bambini, L’occhio del lupo. Bisogna saper leggere, non accontentarsi di una lettura superficiale, non è un libro per bambini, dice parecchio anche ai cosiddetti adulti. È un racconto che parla dell’amicizia, di amici perduti, di amici ritrovati e di nuovi amici. Racconta il rapporto che nasce tra un bambino e un lupo.

Il lupo è ferito, ha un occhio chiuso, è un lupo vero non una di quelle persone che si comportano con le altre persone come lo stereotipo del lupo. Il lupo è in una gabbia, dell’uomo ormai non si fida, non si fida di chi lo ha ferito, di chi lo usa come spauracchio senza conoscerlo, senza conoscere la sua storia. E non lascia leggere la sua storia a nessuno.

Il bambino è ferito dentro, fuori non si vede, e con la semplicità di un bambino osserva il lupo, sta lì fermo e cerca il suo sguardo, perché vuole leggere, vuole conoscere la storia del lupo. È un bambino che racconta storie, storie meravigliose, che incantano. Sa che è importante la storia dell’altro, e sa dove leggerla, proprio negli occhi.

Come fa il lupo a fidarsi dell’uomo che si dimostra meno umano delle bestie? Di chi usa, sbrana e lascia morenti i propri simili per ricavarne un profitto?

È qui la chiave di svolta, di lettura, il bambino sa che per poter leggere l’occhio del lupo deve fare un passo indietro, deve rinunciare a qualcosa perché l’occhio del lupo possa raccontare. E chiude un occhio.

Chiudere un occhio, fingere di non notare qualcosa per convenienza. Un modo di dire che è un modo di fare. Costume che probabilmente ha rovinato anche il nostro Paese. Pennac ne ribalta il significato, non è volgere lo sguardo altrove ma è rinunciare a qualcosa di prezioso per mettersi nei panni dell’altro, spalancando una possibilità di relazione che va oltre l’umano e il bestiale. Un passo indietro rispetto al proprio orgoglio, un passo in avanti verso l’amicizia. È il momento in cui un adulto finalmente capisce che per relazionarsi ad un bambino deve sedersi per terra, i suoi occhi ad altezza dei suoi occhi, e non guardarlo e parlargli dall’alto in basso.

Ed è così che l’occhio ferito si riapre alla conoscenza, di sé e dell’altro. È così che l’occhio dell’adulto può tornare bambino. È così che si raccontano le storie.

Il Polittico Griffoni in aiuto del Policlinico Sant’Orsola

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È una delle mostre più attese di questa primavera a Bologna e non solo, bloccata come tutte le altre iniziative culturali dalla pandemia del COVID19 che continua la sua tragica diffusione.

“La Riscoperta di un Capolavoro” , la mostra-evento che ha riunito a Palazzo Fava per la prima volta dopo più di trecento anni l’intero Polittico Griffoni, capolavoro rinascimentale della Scuola Bolognese realizzato da Francesco del Cossa ed Ercole de’Roberti e oggi sembrato in 16 tavole sparse nei più grandi musei del mondo, continua a far parlare di sé anche se chiusa al pubblico grazie a una lodevole iniziativa voluta da Genus Bononiae: a partire dallo scorso 12 marzo, infatti, chiunque acquisti on line dai rivenditori autorizzati il biglietto open per visitare la mostra sostiene anche l’Unità Operativa di Malattie Infettive del Policlinico bolognese Sant’Orsola.

Ogni biglietto open venduto al prezzo di 18 euro, permette infatti di devolverne 5 in favore della lotta contro il coronavirus.

Al riguardo, Fabio Roversi-Monaco, Presidente di Genus Bononiae, ha dichiarato: “Lo stop alle aperture dei Musei su tutto il territorio nazionale è arrivato ad allestimento già pressoché completato. Un provvedimento doveroso quanto doloroso per noi e per tutto il mondo della cultura. Difficile nascondere il nostro stato d’animo: eravamo ansiosi di condividere la bellezza della quale abbiamo avuto il privilegio di riempirci gli occhi in questi giorni di allestimento. Siamo però, oggi, anche orgogliosi di poter fare la nostra parte in un momento così delicato, e abbiamo deciso di tradurre in un gesto concreto la gratitudine che sentiamo nei confronti delle nostre strutture sanitarie. Chiediamo a tutti quelli che aspettavano questa mostra con ansia e interesse un atto di fiducia e di speranza, attraverso l’acquisto del biglietto, che diventa anche un gesto di solidarietà.”

Per maggiori informazioni: genusbononiae.it

FMAV InsideOut: Il nuovo palinsesto online della Fondazione Modena Arti Visive

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Come ormai sappiamo, il prorogarsi delle misure contenitive per il diffondersi del Covid-19, sta portando sempre più le istituzioni culturali e museali a potenziare la loro presenza online, con campagne di promozione culturale che cercano di sopperire alla chiusura forzata richiesta dal governo.

Dopo i “2 Minuti del MAMbo”, parliamo di FMAV InsideOut, il nuovo palinsesto di nuovi contenuti culturali online della Fondazione Modena Arti Visive suddiviso in tre sezioni. 

Come ha dichiarato Daniele Pittèri, direttore generale di Fondazione Modena Arti Visive: “FMAV InsideOut è il contributo di Fondazione Modena Arti Visive alla collettività in questa situazione straordinaria, per continuare a diffondere la cultura come azione di trasformazione e cambiamento attraverso nuove modalità di diffusione, ragionando in maniera diversa e stimolando il legame profondo e dinamico che ci lega al nostro pubblico”.

Iniziamo con le Mostre in pillole in cui artisti e curatori ci portano a visitare  in pochi minuti le numerose iniziative in essere in questi giorni come Upgrade in Progress nella sede della Palazzina dei Giardini, la prima personale in Italia dell’artista coreana Geumhyung Jeong – e di cui vi abbiamo già dato notizia – e la nuova Bici davvero! Velocipedi, figurine e altre storie al Museo della Figurina che racconta le storie di donne e uomini che hanno fatto delle due ruote un mezzo di trasporto rivoluzionario; continuano poi ad essere visibili  Requiem for Pompei del fotografo giapponese Kenro Izu e le video installazioni dell’artista israeliana Yael Bartana raccolte nella mostra Cast Off. 

Seguono poi gli  Esercizi di visione: fotografie e video per scoprire i capolavori delle collezioni FMAV, accompagnati da mini-esercizi che grandi e piccoli possono svolgere tranquillamente a casa propria, e la Didattica a distanza: contenuti frivolti a insegnanti, studenti e famiglie sulla traccia dei laboratori proposti abitualmente da FMAV, come stimolo per proseguire nel percorso di studi e stimolare l’apprendimento.

Sul canale Youtube di FMAV è inoltre possibile, rivivere le mostre dei primi due anni di Fondazione Modena Arti Visive attraverso brevi video di documentazione.

Per maggior informazioni su #fmavinsideout e per partecipare a questi incontri (virtuali) ci si può collegarsi al sito fmav.org o ai canali social YoutubeIstagram e Facebook.

 

Il consiglio per l’aperitivo : il gattò di patate di nonno Gennaro

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E’ pur sempre sabato e siamo pronti per l’aperitivo.

Il consiglio di casa Pozzi Timo per accompagnare un buon bicchiere di vino o uno spritz è il gattò di patate di nonno Gennaro napoletano.

Ingredienti:

Patate

1 Uovo

Prosciutto cotto

Salame

Mozzarella

Pangrattato

Burro

 

Lotta al terrore di CapoTrave. Note a una tragicommedia

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Lotta al terrore - foto di Luca Del Pia

 

Parlare di Lotta al terrore della compagnia CapoTrave diretta da Luca Ricci e Lucia Franchi nei giorni di quarantena da Coronavirus fa un’impressione strana. Il lavoro che fino a qualche settimana fa poteva ancora raccontare uno scenario astratto, o una situazione di pericolo lontana anni luce da noi, risulta adesso essere uno specchio che riflette in piccolo le reazioni di fronte a un grande pericolo reale.

Lotta al terrore catapulta il pubblico subito dentro il vivo della situazione. Un uomo non identificato – ma di chiara etnia egiziana – sequestra con un fucile i clienti di un supermercato posto in una cittadina il cui nome resta a sua volta ignoto, minacciando di uccidere tutti i presenti se non verrà il Sindaco ad ascoltarlo. All’interno dell’Ufficio del Comune, intanto, il Vicesindaco, un segretario e un impiegato cercano di chiamare il loro capo, che si trova fuori a sciare in montagna. Tra una chiamata infruttuosa e l’altra, i tre personaggi si trovano istericamente a riflettere sulla situazione. Essi alternano litigi sulle cause scatenanti del pericolo, adducendo motivazioni banali e acritiche (vi è chi come l’impiegato la rintraccia in un’eccessiva apertura verso la straniero, o chi come il segretario invoca la minaccia del terrorismo), a tentativi di accampare scuse per non assumersi la responsabilità di intervenire. L’apice dello “scaricabarile” sarà raggiunto quando i personaggi lasceranno a un’estrazione a sorte la decisione di chi sostituirà il Sindaco per cercare di fermare la carneficina. Infine, accade quanto nessuno aveva potuto immaginare e che distrugge tutti i luoghi comuni finora invocati. Lungi dall’essere un terrorista o uno straniero che ruba i soldi / il lavoro, il sequestratore si rivela essere il figlio del fruttivendolo del paese, ossia una persona onesta e che compie la strage per ragioni che restano ignote. Alla fine la carneficina ha luogo e i tre membri del Comune riceveranno – troppo tardi – la chiamata del Sindaco, che ridacchiando li ammonisce dalla segreteria telefonica di non lavorare mai e di essere sempre irreperibili.

 

Lotta al terrore – foto di Elisa Nocentini

 

Questa sintesi del contenuto dello spettacolo è sufficiente per isolare due piani dell’azione di Lotta al terrore. Fuori c’è lo spazio della tragedia e degli eventi foschi: le persone sequestrate e uccise, il potere che si bea irresponsabilmente in vacanza nel momento di maggiore bisogno, un disperato col fucile che fa una strage per motivi misteriosi, lo spettro del terrorismo. Dentro il Comune, invece, che è anche il solo piano dell’azione che il pubblico vede rappresentato direttamente e grazie ai tre attori in scena (Simone Faloppa, Gabriele Paolocà, Gioa Salvatori), c’è la commedia, o meglio il grottesco. Il Vicesindaco, l’impiegato, il segretario agiscono e parlano il più delle volte senza serietà, nel senso che le loro parole e le loro azioni risultano buffe perché del tutto inadeguate a comprendere o reagire al complesso avvenimento. Il risultato è così una tragicommedia. La tragedia del “terrore” è solo raccontata e sullo sfondo, mentre la commedia o la “lotta” che ha luogo dentro il Comune diventa il fulcro portante della rappresentazione, così come l’oggetto primo della riflessione degli spettatori.

Si comprende così che i luoghi comuni e in generale i gesti compiuti dai tre personaggi sono assolutamente voluti. La strategia di Lotta al terrore è infatti amplificare il contrasto tra la serietà della circostanza tragica e la ridicolezza della reazione, portando a far dominare sulla scena l’atmosfera di inadeguatezza. Non ci sono eroi buoni, né per converso un grande malvagio su cui si può almeno riversare odio e frustrazione. Il “male” è qui incarnato da una macchietta, un povero ragazzo spaurito e confuso. Queste indicazioni rivelano così qualcosa sulla natura umana, o almeno sui comportamenti che essa assume nelle circostanze eccezionali, mostrando la pochezza che in fondo è. La conoscenza di sé apre qui alla miseria morale e istituzionale. Laddove ci si aspetterebbe che gli esseri umani siano pronti, eroici e reattivi alle emergenze, si vede invece che il meglio che essi riescono a tirar fuori è l’abbandono allo scherzo involontario e alla risata consolatoria.

Non mancano certo momenti in cui anche la banalità, la tragedia e la comica inadeguatezza lasciano spazio a qualcosa di più alto. Capita infatti, soprattutto al personaggio del segretario, di abbandonarsi ad alcuni slanci lirici, o ad abbozzare ragionamenti che cercano di tenere conto della complessità dell’esistenza. È ciò che accade, ad esempio, quando il personaggio riflette che la verità «è sempre complicata. Più della sua e più di quella del Vicesindaco. Non è mai assoluta. È approssimativa. Mescola i buoni e i cattivi». Sarebbe perciò semplicistico pensare che l’umanità sia totalmente misera. Se anche le persone più banali e grette sono capaci di coraggio e intelligenza, è il segno promettente che la banalità e la comica isteria sia solo una faccia della natura umana, benché forse quella che si manifesta più spesso.

 

Lotta al terrore – foto di Luca Del Pia

 

Resta comunque il fatto che almeno Lotta al terrore mette più in evidenza il lato fragile e anti-eroico dell’umanità. Le parole conclusive dell’opera sono del resto quelle dell’impiegato, che al termine della tragicommedia riesce solo a sussurrare di aver paura di morire. L’agnizione che ha luogo dopo tutti gli eventi è soltanto un altro riconoscimento della propria debolezza.

Oggi che il Coronavirus imperversa le reazioni alla tragedia sembrano essere altrettanto inadeguate. Il pericolo è anzi stavolta rappresentato da una figura ancora più modesta rispetto al figlio del fruttivendolo: un microbo che si propaga senza aver coscienza del disastro che sta procurando alla nostra specie. Il “terrore” che esso arreca è ancora più tragico, la nostra “lotta” non meno ridicola.

ENRICO PIERGIACOMI

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Lotta al terrore, ideazione e drammaturgia Lucia Franchi e Luca Ricci. Con Simone Faloppa, Gabriele Paolocà, Gioia Salvatori. Voci off Massimo Boncompagni, Andrea Merendelli, Irene Splendorini. Costumi Lucia Franchi. Organizzazione Massimo Dottorini. Scena e regia Luca Ricci. Produzione CapoTrave/Kilowatt – visto allo Spazio Off di Trento, il 25 gennaio 2020 – per approfondire: http://www.capotrave.com/it/portfolios/la-lotta-al-terrore/