Home Blog Page 259

Le forme del sacro: un piccolo atlante visivo da Torino a Napoli, passando per Reggio Emilia

0
MAO Torino - Giardino zen

 

Qualche pensiero su opere viste e da vedere. Accompagnati da un bel libro di John Berger.

Breve premessa, minime indicazioni.

Desideriamo dar conto -e al contempo calorosamente suggerire- tre visite e una lettura delle ultime settimane:  il commovente Museo d’Arte Orientale di Torino, l’edizione 2019 di Fotografia Europea a Reggio Emilia (manifestazione che sempre fa scoprire autori sorprendenti), il vitalissimo Museo Madre di Napoli. E Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità di John Berger (edizioni Il Saggiatore, Milano, 2015).

 

 

Lo stimolante volume del critico d’arte, scrittore e pittore britannico si pone un esplicito obiettivo: «sollevare dubbi e porre domande».

Analogamente, in queste inevitabilmente parziali notarelle (ciascuno degli artisti e delle culture incontrati merita intere bibliografie) non vi è pretesa di esaustività alcuna. Piuttosto, del tutto arbitrariamente, verranno «utilizzati» questi artisti e questi sistemi di significati come semplice e concreta occasione di interrogazione allo sguardo.

Lo si farà in forma di atlante visivo. Anche in questo senso siamo debitori al libro di Berger: composto da sette saggi, tre si servono unicamente di immagini.

Articoleremo un breve percorso, nel quale le note sotto a ciascuna immagine avranno funzione anti-didascalica: lungi dal voler spiegare (né tanto meno, evidentemente, esaurire) l’argomento, esse cercheranno unicamente di portare a emersione alcuni dei molti interrogativi possibili.

 

Anish Kapoor, Dark Brother, 2005. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli. Foto © Amedeo Benestante

 

«Nell’incavo sul pavimento della sua sala al Madre, Anish Kapoor con un grande effetto di spiazzamento veicola lo sguardo dello spettatore verso l’infinito e verso le viscere della madre terra»: ha forse senso iniziare questo proteiforme attraversamento con un’opera radicale, incontrata negli spazi affollati di persone di ogni tipologia ed età dell’attivissimo museo napoletano.

Se è vero, come riflette John Berger, che «ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste fra noi e le cose», quanto per noi l’esperienza dell’arte (e dunque, per estensione, del mondo) ha a che fare con il mistero?

Quanto siamo disposti a perderci, in ciò che vediamo?

 

MAO Torino – Galleria Asia meridionale – foto di Ida Bassi

 

«All’origine le immagini furono prodotte per evocare ciò che era assente» (ancora John Berger): in bilico tra Plinio il Vecchio e Walter Benjamin, la (facilità della) riproduzione delle immagini de-sacralizza l’esperienza del trascendente? O, al contrario, rende il nostro rapporto con il sacro più quotidiano, accessibile, dunque naturale?

«I Buddha vanno sopra i comodini» cantava Battiato quarant’anni fa. «Dentro ai telefonini» potremmo dire oggi, in rima.

 

MAO Torino – Galleria Asia meridionale

 

Ancora. Rispetto al rapporto con il sacro.

Al di là di ogni valutazione storica, nella nostra personale percezione con ogni probabilità un’opera che rimanda a qualcosa di comunemente riconducibile alla spiritualità ha più valore rispetto a una che ha per oggetto un gesto quotidiano (come ad esempio sbucciare alcune cipolle, ancorché «sante»).

Perché?

Cosa ha informato tale convinzione?

 

Fotografia Europea 019 > Motoyuki Daifu, Holy Onion, 2019

 

Ancora: sul valore.

«L’arte gode di maggior considerazione del commercio – si dice che il suo prezzo di mercato è un riflesso del suo valore spirituale» (John Berger, ancora).

Nella nostra percezione quale merita maggiore apprezzamento sul piano artistico, fra queste due immagini di Horst P. Horst (entrambe in mostra a Palazzo Magnani, Reggio Emilia)?

 

Fotografia Europea 019 > Horst P. Horst, Mainbocher corset, Paris 1939, cm 40,5×50,5 cs. Courtesy Paci contemporary gallery (Brescia – Porto Cervo, IT)

 

e

 

Fotografie Europea 019 > 2. Horst P. Horst, Lisa Fonnsagrives-Penn, Vogue, June 1940, cm 80×105 cs. Courtesy Paci contemporary gallery (Brescia – Porto Cervo, IT)

Perché?

 

Jan Fabre, The Man Who Measures the Clouds / L’uomo che misura le nuvole, 2018. Courtesy l’artista; Studio Trisorio, Napoli. Veduta dell’installazione al museo Madre, Napoli, nell’ambito della mostra Jan Fabre. Oro Rosso, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli (30.03.19-30.09.19). Foto © Amedeo Benestante

 

Dalle stelle alla stalle, si potrebbe brutalmente sintetizzare.

«Desiderare»: dall’accezione etimologica medioevale dell’«interrogare le stelle» fino ad altre più prosaiche, carnali, finanche grevi significazioni.

Il poliedrico Jan Fabre, si sa, è stato oggetto negli ultimi tempi di pesanti accuse, in tal senso, rivoltegli da alcune persone che hanno collaborato con lui.

Se si pensa al «legame tra arte e vita» da molti portato come indice di qualità, la biografia di un creatore d’arte può essere disgiunta dall’incontro con le opere da lui prodotte?

 

Robert Mapplethorpe, Phillip, 1979. © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission – mostra Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra / Choreography for an Exhibition al museo Madre di Napoli

 

e

 

Fotografia Europea 019 > Pixy Liao – It’s never been easy to carry you, 2013

 

Ancora. Nella nostra percezione, l’arte come espressione della propria biografia, se non dei propri sentimenti, è un plusvalore?

Perché?

[qui sopra: la proteiforme sessualità del celeberrimo Robert Mapplethorpe (in merito al quale davvero non occorrono spiegazioni) in mostra a Napoli e il legame di coppia della cinese Pixy Liao, oggetto della personale Experimental Relationship (2007 to now) ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia]

 

Fotografia Europea 019 > 14. Jacopo Benassi, Untitled-8

 

«Il fotografo sembra premere l’acceleratore sull’impietosa decadenza in agguato tanto per il corpo umano che per un corpo artificiale (come quello di una statua antica)»: quale idea di bello sottende al nostro sguardo?

Più precisamente: quale rapporto tra il corpo e la sua rappresentazione rende un’opera d’arte pregevole?

La sua esatta riproduzione (il «sembra vero!» che normalmente certifica la comunemente percepita qualità, ad esempio di un ritratto)?

Oppure qualcosa di altro, non formale?

Questo eventuale altro è definibile a parole?

E mediante quale capriola del pensiero (o dell’esperienza) questo altro, carnale e incarnato, potrebbe avvicinare la nostra idea di sacro?

 

Giovanni Anselmo, Invisibile, 2007. Courtesy Archivio Anselmo & Tucci Russo Gallery, Torino. In comodato a Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante. | Giovanni Anselmo, Invisibile / Invisible, 2007. Courtesy Archivio Anselmo & Tucci Russo Gallery, Turin. On loan to Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Naples. Photo © Amedeo Benestante

 

Tornando dunque al punto di partenza: quanto l’arte ha a che fare con l’invisibile?

E quanto per farne esperienza occorre «ancorarsi» al suo opposto, cioè a qualcosa percepibile con i sensi?

È compito di uno spazio museale, per dirla con Michel De Certeau, «farsi luogo» di tale esperienza (si veda l’immagine del Giardino zen in apertura) piuttosto che mero contenitore di oggetti «da ammirare»?

È, infine, sopprimibile lo iato fra la forma dell’opera, il luogo che la contiene e ciò a cui essi rimandano?

 

opera di Emilio Isgrò

 

Il Belpaese si manifesta ancora una volta intriso di diverse forme, o meglio idee, di bellezza.

A ciascuno la sua.

(invito esplicito: prender su e andare a vedere)

 

MICHELE PASCARELLA

 

Info: https://www.maotorino.it/it, https://www.fotografiaeuropea.it/fe2019/, http://www.madrenapoli.it/, https://www.ilsaggiatore.com/libro/questione-di-sguardi-2/

 

The Go-Devils: il primo live all’Hana-Bi

0

Lunedì 22 aprile alle ore 18 le giapponesi The Go-Devils inaugurano per la stagione di quest’anno il palco dell’Hana-Bi.

Giunte per l’occasione la prima volta in Italia, le tre ragazze di Osaka esordirono nel lontano 1996 per Dionysus Records con la cover classica degli Outcasts “I’m In Pittsburgh (And It’s Raining)”. A questo esordio, seguirono altri due singoli registrati in Giappone, tra cui il secondo, con la cover dei Del-Vetts, “Last Time Around”, e un cd, “Super Stuff”, abbastanza riepilogativo della produzione non certamente doviziosa nell’arco di più di vent’anni, uscito nel 2016. Il trio si caratterizza fin dalle sue origini per un grande look e propongono un sixties garage punk attualizzato con una dose di fuzz.

Lunedì 22 aprile, The Go-Devils, Hana-Bi Ravenna, ore 18 – info: 333/2097141, bronsonproduzioni.com

Vince Vallicelli e Rebel Cats: blues e rockabilly al Naima Club

0

Venerdì 19 aprile alle ore 22 sul palco del Naima Club di Forlì blues e rockabilly si incontrano nelle sonorità proposte da Vince Vallicelli, uno dei più apprezzati batteristi della scena musicale italiana, unite a quelle frizzanti e frenetiche dei Rebel Cats, la storica band che col  festival internazionale “Mister Rock and Roll”, nel 1985, ha dato il via ad un fenomeno divenuto il Jamboree Festival.

La serata avrà inizio con un brano storico del Rebels, ovvero “Good morning fest“, che mette in campo sonorità roots che richiamano quelle dei film di Quentin Tarantino. Si continua poi con la musica di Carl Perkins, Richie Valens, Jimi Hendrix, Elvis Presley,  Dale Hawkins, e tanti brani originali, con Vince Vallicelli che guida i Rebels in territori a loro sconosciuti sulle dodici battute del blues.

Dopo la collaborazione con Gianna Nannini, Eugenio Finardi e tanti altri,  Vallicelli un giorno incontra Andy J. Forest e viene rapito dal blues: con lui partecipa a tutti i maggiori blues festival europei e americani e comincia a suonare con grandi nomi del genere musicale fino a formare una band tutta sua, la “Vince Vallicelli Band”.

Il tour con i Rebel Cats lo conduce verso nuove sonorità: non è stato facile trovare una sinergia e un’empatia, tra Paolo Domenico, front man dei Rebels, e Vallicelli, ma la professionalità e la passione ha fatto scattare la scintilla.

Venerdì 19 aprile, Vince Vanicelli e Rebel Cats, Naima Club Forlì, ore 22 

DAN STUART E SID GRIFFIN: LA PAISLEY UNDERGROUND AL BROnson

0
foto di Darren Andrews

Si conclude al Bronson di Marina di Ravenna il tour europeo di Dan Stuart, ex leader dei Green on Red. Un lungo viaggio partito dall’Olanda, tra Inghilterra, Spagna, Italia fino all’Europa orientale attraverso Slovenia, Serbia, Kosovo e Grecia. Al suo fianco la fedelissima chitarra di Don Antonio Gramentieri. Il concerto sarà in apertura dei Long Ryders, fondati all’inizio degli anni ’80 da Sid Griffin. Stuart e Griffin insieme a Steve Wynn (Dream Syndicate) hanno contribuito a creare una nuova scena musicale – definita Paisley Underground – nella Los Angeles di quegli anni, recuperando in chiave contemporanea stilemi del folk e il rock della tradizione americana. L’ultimo disco di Stuart, The unfortunate demise of Marlowe Billings è uscito alla fine del 2018 per la Cadiz Music ed è stato prodotto da Danny Amis dei celebri rocker mascherati Los Straitjackets. È l’ultimo di una trilogia, iniziata nel 2012 con The deliverance of Marlowe Billings (Cadiz Music) e seguita nel 2016 da Marlowe’s Revenge (Fluff and Gravy) che, tra autoironia, atmosfere cupe e surreali, racconta in prima persona le considerazioni di Marlowe Billings, alter ego di Dan Stuart, che dopo il fallimento del suo matrimonio fugge in Messico con l’unico obiettivo di scomparire. L’uscita di The unfortunate demise of Marlowe Billings – come il primo disco della trilogia – è completata dalla pubblicazione di un romanzo anonimo, che si sviluppa come un noir e racconta, tra spunti autobiografici e molta invenzione, la misteriosa scomparsa di Marlowe Billings. Impossibile non apprezzare la scrittura colta di Dan Stuart e la sua raffinata capacità di invenzione letteraria, la stessa che utilizza nei testi delle sue canzoni. In questo concerto Dan Stuart, in forma più che mai, propone una sorta di antologia delle sue canzoni, con una selezione dalla trilogia, senza dimenticare i pezzi più celebri dei Green on Red. Una sorta di racconto autobiografico, buio, ironico e ricco di pathos, assolutamente da non perdere.

21 aprile, Madonna dell’Albero, Ravenna, Bronson, via cella 50, ore 21.30. Info: 333 209 7141

CATHERINE BIOCCA, LO SPETTATORE È PROTAGONISTA

0

You are Hired (Sei assunto), è il titolo dell’installazione di Catherine Biocca, giovane artista italo tedesca, che ha trascorso tre settimane a Bologna nell’ambito del programma di residenza artistica ROSE, promosso dal MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna con l’obiettivo di realizzare un progetto inedito per Villa delle Rose. La personale, a cura di Giulia Pezzoli, che inaugura venerdì 19 aprile alle 18, si sviluppa su tutto il piano terra della sede espositiva di origine settecentesca e le sue opere – come succede in quasi tutti i suoi lavori – giocano tra realtà e finzione con gli elementi strutturali degli ambienti creando delle illusioni spazio temporali che reinterpretano l’identità passata e presente dell’edificio. Catherine accede all’immaginario digitale e pop dei cartoon e dei fumetti mescolando un po’ tutte le pratiche: video, audio, scultura animata, grafica, loop, immagini rubate alla rete in bassa risoluzione per realizzare degli ambienti intenzionalmente finti in cui viene rappresentato il quotidiano tra ironia, ricordi di infanzia, violenza e assurdità. Spesso la sua è «una riflessione sulla sovrapproduzione di immagini nella sfera mediatica e nell’arte contemporanea; sulla difficile definizione di un’identità e sulla negoziazione di un equilibrio tra competizione e collaborazione con gli altri; sulla ricerca di una catarsi escatologica da uno stato fisico e psicologico di sfinimento o di minaccia». A Villa delle Rose l’artista ha sviluppato, attraverso tecniche multimediali, la ricerca sull’interattività con l’introduzione di interventi performativi in grado di coinvolgere i visitatori come parte integrante del processo artistico.

19 aprile – 26 maggio, Bologna, Villa delle Rose, via Saragozza 230. Info: 051 436818, 051 6496611

Il restyling della Tenuta Masselina

0

Nel cuore di una delle sottozone più vocate per la viticoltura Romagnola – quella della Serra – Tenuta Masselina, azienda proprietà Terre Cevico, ha dato vita ad uno dei più importanti restyling architettonici del territorio. Al posto di un antico fienile sorgono ora un’affascinante bottaia, una sala di affinamento per spumante metodo classico e nuovi spazi per degustazioni, realizzando un progetto ecosostenibile che parla di vino e di enoturismo di alta qualità per l’intero territorio regionale.

La nuova struttura è interamente creata con gli standard di Casaclima ed è contornata da 16 ettari di vigneti interamente biologici e 6 di bosco. Per l’acqua calda e il riscaldamento viene utilizzato il calore captato da 14 pozzi geotermici e buona parte dell’energia elettrica è generata da pannelli fotovoltaici.

“Il vino di alta qualità, con posizionamenti importanti, ha bisogno anche di essere raccontato, degustato e vissuto sul luogo di produzione – afferma Marco Nannetti, Presidente di Terre Cevico – Un progetto quindi che ambisce a sviluppare in Romagna sinergie e collegamenti forti e strutturati con i settori del turismo, della cultura e della gastronomia. Vogliamo ulteriormente contribuire affinché in Italia e nel mondo alla Romagna del vino venga riconosciuto quel valore aggiunto che merita”.

L’enoturista, dunque, potrà recarsi in tenuta per degustare i vini, visitare i vigneti e la cantina. Sarà possibile fruire dei servizi anche su prenotazione utilizzando l’apposito link dal sito www.masselina.it.

OCCHIO A OLIVIERO

0

Chi mi ama mi segua. Chi ha più di quarant’anni leggendo queste parole forse avrà subito avuto in mente un’immagine precisa, decisamente fuori dai retaggi evangelici. A queste parole, infatti, è indissolubilmente legato l’iconico fondoschiena di una giovane donna – al secolo l’attrice e modella americana Donna Jordan, simbolo della cultura pop tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta – posto in primissimo piano per pubblicizzare un paio di jeans hot-pants della marca Jesus (chi li ricorda?).

Corre il 1973, e siamo nell’Italia piccolo borghese che vive il pieno dell’era democristiana. La polemica monta veloce – al riguardo interviene perfino Pier Paolo Pasolini sulla prima pagina de Il Corriere della Sera – e il manifesto pubblicitario fa il giro del mondo in poco tempo. Fu questo il primo di una lunga serie di successi ma anche di scandali e provocazioni che hanno segnato la carriera di Oliviero Toscani. Allora trentunenne, Oliviero è figlio d’arte, nato da Fedele Toscani, primo fotoreporter per Il Corriere della Sera, nonché cognato di Aldo Ballo, affermato fotografo del design milanese. Nonostante queste influenze, si avvicina alla fotografia non subito, solo dopo una laurea in geografia, perfezionandosi alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, allora tra le più importanti scuole del Vecchio Continente.

Arrivano quindi gli incarichi per le grandi testate internazionali tra cui Esquire, Elle, Vogue, Harper’s Bazar. Nel 1982 prende il via il sodalizio con la casa di moda di Luciano Benetton, durato fino al 2000, che consacra la fama di Toscani definitivamente al grande pubblico con una serie di campagne pubblicitarie – e, possiamo dirlo! – entrate nel mito. In occasione della XIV edizione del Festival di Fotografia Europea, il MAR – Museo d’arte della Città di Ravenna, assieme al Comune di Ravenna-Assessorato alla Cultura, presentano Oliviero Toscani. Più di 50 anni di magnifici fallimenti, una mostra a cura di Nicolas Ballario e organizzata dal gruppo Arthemisia.

Non potevamo quindi farci sfuggire l’occasione per fare qualche domanda al grande fotografo milanese, partendo subito da una prima e importante curiosità. Oliviero Toscani. Più di 50 anni di magnifici fallimenti è stata presentata come la sua prima antologica in un museo italiano e mi chiedo il perché di questo grande ritardo: una scelta precisa da parte sua (o di altri)? «Questa mostra non è mia, ma delle persone che hanno voluto organizzarla. È una vita che faccio mostre sui muri e i giornali del mondo, perché credo che la fotografia vada mostrata così, e sono molto curioso di sapere cosa gli altri fanno delle mie foto ora che sono inutili. Forse quando le foto diventano inutilizzabili, diventano foto d’arte».

Crede che questo ritardo sia dovuto a una precisa volontà o mancanza da parte della critica italiana? Ci sono aspetti che sente sottovalutati della sua ricerca? «Non mi interessa criticare la critica».

A proposito del fallimento, che è poi il tema attorno a cui ruota questa mostra, qual è il significato che riveste nel suo lavoro? «Il fallimento è energia per fare meglio. È inteso come critica per andare avanti».

Nelle oltre 150 opere che ripercorrono i cinquant’anni della sua carriera come fotografo, il confine tra arte e moda è spesso oltrepassato, confuso, quanto meno reso molto labile. Qual è il rapporto tra questi due linguaggi espressivi? «Penso che quando la moda è fatta in modo qualitativo può essere arte. L’arte è l’eccellenza della comunicazione».

I libri ci insegnano che l’avanguardia passa sempre attraverso una rottura, una provocazione. Lei si sente un po’ come l’ultimo artista realmente d’avanguardia rimasto nel nostro Paese? «Non saprei fare una classifica e definire quanti provocatori ci siano in circolazione. È indubbio che per cercare nuove espressioni occorre provocare. La parola provocare stranamente ha una connotazione negativa, mentre io trovo sia estremamente positiva: si può provocare un pensiero, l’amore, la pace, la cultura e tante cose stupende».

I recenti fatti di Verona, lo spettro del decreto Pillon, le morti nel Mediterraneo, la xenofobia che cresce, una politica nazionale sempre più becera e qualunquista, ci parlano di quarant’anni di diritti e conquiste civili che oggi sono sempre più minacciati nel loro insieme e rischiano di far piombare l’Italia in un nuovo periodo oscurantista e razzista. Lei che ha sempre giocato su perbenismi e contraddizioni della società italiana impegnandosi in prima persona anche politicamente, che opinione ha del nostro Paese oggi? «Siamo un Paese mediamente ignorante. Il razzismo viene da lì. Non siamo razzisti, siamo ignoranti. D’altronde più una civiltà progredisce e più è richiesta una cultura elevata. Una volta si poteva essere bravi contadini anche essendo analfabeti, oggi non basta più. Il paradosso è che oggi è pieno di analfabeti persino in politica».

A questo punto non posso esimermi da farle una domanda più specifica: secondo lei l’arte ha una precisa responsabilità politica? «È soprattutto un’espressione socio-politica. Se non contiene questo aspetto non è arte, ma compiacimento estetico».

Lei ha descritto con il candore dell’arte la ferocia della società contemporanea, le sue contraddizioni e la sua violenza. Ha parlato di guerra, razzismo, AIDS, pena di morte, anoressia e ogni volta l’ha fatto senza compromessi e perbenismi, riuscendo a scuotere le coscienze anche grazie a una divulgazione di massa del suo lavoro che pochi altri artisti possono vantare. Penso ad alcuni dei lavori in particolare, oggi ritenuti iconici, alcuni dei quali presenti nella mostra al Mar di Ravenna, come il Bacio tra prete e suora del 1992, i Tre Cuori White/Black/Yellow del 1996, e il più recente No-Anorexia del 2007. Tutte opere accompagnate da feroci polemiche. Mi sono sempre chiesto, qual è, per lei, il senso della censura? Una sfida o una conferma del suo valore? «La censura è per me la paura delle nuove espressioni. È la conseguenza di un potere, quello di un gruppo di persone che non vogliono affrontare l’evoluzione. Qualunque essa sia».

Oltre al lato impegnato e politico, il suo lavoro ha anche un aspetto importante legato appunto alla moda e al glamour. Davanti al suo obiettivo sono passati decine di uomini, tra i più grandi personaggi e i protagonisti della cultura del XX secolo. Tra tutti, chi ricorda con maggiore entusiasmo?  «Muhammad Ali e Bob Dylan».

In conclusione del nostro incontro le faccio una domanda, un po’ retorica, ma che credo possa avere un senso soprattutto perché è lei a rispondere. Quale consiglio darebbe a un giovane che oggi si avvicina alla fotografia? «Ormai siamo tutti vicini alla fotografia. Fotografare è come guidare l’automobile: tutti abbiamo la patente e un mezzo a disposizione, poi ci sono gli autisti della domenica e i piloti di Formula 1. Il primo consiglio è: qualunque sia la vostra strada, cercate di non sbandare».

Il lato oscuro della costa presenta la sesta edizione di Under Fest

0

Giovedì 18 aprile alle ore 17 presso il Palazzo dei Congressi di Ravenna prende il via la sesta edizione di Under Fest, il festival di hip hop underground prodotto e organizzato dall’Associazione Culturale Il lato oscuro della costa. Il Festival si sviluppa tra incontri, live e ospiti internazionali.

Alle ore 17.30 verrà inaugurata ma mostra “Under anno per anno“, che documenta le precedenti edizioni del festival con fotografie, video e installazioni. Il Festival prende poi ufficialmente il via con un primo open cypher animato dai freestyler Hydra, Reiven e Kenzie, a cui seguiranno due incontri con protagonisti tre personaggi attivi fin dalle origini dell’hip hop italiano. Il primo, dal titolo “Superfly talk”, sarà in compagnia del giornalista, musicista, produttore, dj, digger e conduttore radiofonico David Nerattini. Attivo fin dalla prima metà degli anni 80, ha fondato insieme a Riccardo Sinigallia la band 6 Suoi Ex, è stato componente del progetto La Comitiva, degli I.H.C. ed attualmente è componente della band La Batteria. Ha prodotto e arrangiato brani per molti musicisti famosi e dal 2009 lavora per Flipper Music, per la quale ha inciso molti album di sonorizzazioni e ricopre il ruolo di produttore ed a&r. Come giornalista ha scritto per numerosissime testate e nel 2003 ha fondato con Silvia Volpato la rivista Superfly. Come conduttore ed ideatore di programmi radio ha lavorato per StereoRai, Radio 2 Rai, Radio Città Futura e Radio Rock. Dal 2004 è parte del team della Red Bull Music Academy e conduce dal 2005 uno show mensile chiamato Extrafly su Red Bull Radio.

Alle ore 21 invece, i due artisti Ice One e The NextOne, personaggi che hanno segnato la storia dell’hip hop italiano dai suoi albori, fino a conquistare il panorama internazionale guideranno l’incontro dal titolo “Legends”. Ice One inizia la sua attività di dj nel 1982, conquistandosi il titolo di pioniere dell’hip hop italiano. Nel 1994 con Il Danno, Masito Fresco e Piotta, forma Taverna Ottavo Colle, poi divenuto Colle der Fomento, coi quali, nel 1995, pubblica l’album d’esordio Odio pieno. Ha collaborato con numerosi artisti nella sua carriera e alcune sue canzoni sono state utilizzate come colonne sonore.

Il programma continua venerdì 19 aprile al Bronson Cafè con un secondo open cypher, alle 17, cui seguirà il talk con il giornalista culturale Federico Sardo, attualmente impegnato nelle testate di Esquire e VICE. Alle 21 avranno inizio i live che vedranno salire sul palco del Bronson rispettivamente Armata del Tronto, File Toy, Reiven, Limon Willis e Dj Dima. Seguirà poi il live showcase di Lil’ Pin & Gionni Gioielli, ideatore di ‘Make Rap Great Again’, una serie discografica che promuove un rap crudo. Subito dopo, toccherà allo special showcase di Johnny Marsiglia, uno dei rapper italiani più apprezzati dalla scena e dalla critica per le sue abilità tecniche, autore di “Memory”, realizzato insieme al producer Big Joe. A chiudere la serata sarà il producer Apollo Brown, attivo dal 1996, oggi considerato uno dei maggiori produttori hip hop a livello mondiale e particolarmente apprezzato per la ripresa contemporanea del suono della golden era. Sul palco con lui ci sarà Rapper Big Pooh (Little Brother) con cui, nel 2015, ha realizzato l’album “Words Paint Pictures“.

Entrambe le serate termineranno con un dj set a cura di The NextOne, al secolo Maurizio Cannavò, considerato uno dei più importanti esponenti italiani della cultura hip hop mondiale. Debutta sulla scena nel 1985, vincendo il primo posto del Break-Dance World Championships della I.D.O. (International Dance Organization). Questo diede inizio ad importanti collaborazioni con grandi artisti, tra cui Afrika Bambaataa che lo accoglie nel gruppo per ballare nelle sue tournee italiane, entrando a far parte della “Universal Zulu Nation”. Nel 1991, trasferitosi a New York, incontra i “Rock Steady Crew”, il più famoso gruppo di breakdance del panorama internazionale, e tra i responsabili della diffusione della danza hip hop nel mondo. The NextOne oggi è riconosciuto come uno dei migliori collezionisti di vinili e specialisti in Italia di black music e suoi derivati.

Il Festival continuerà anche nella giornata di sabato 20 aprile al Bronson Café. Come nelle giornate precedenti, alle ore 17 avranno inizio i Open Cypher insieme a Hydra, Reiven,  Kenzie, Drimer, Mattak, Funky Nano e Limon Willis. Alle ore 18 si terrà invece l’incontro dal titolo La cassa, il rullante, eccetera insieme ai producer Dj Fastcut, Bosca from Real Talk e Frank Sativa. Alle ore 21 ci si sposta al Bronson per dare il via al DEAD POETS 2 Special Edition con DJ FASTCUT, Sgravo, Wiser, V’aniss, Vashish, Kiave, Easy One, Cui Prodest, Hyst, Atpc, 16 Barre, Phedra, Leslie, Tmhh, Ape, Zampa, Lord Madness, Drimer, William Pascal, Mattak & Funky Nano (Poche Spanne), Brenno, Royal Damn & Danny Beatz, per concludere con Alien Dee e Inoki Ness

Giovedì 18, venerdì 19 aprile e sabato 20 aprile, Under Festival, Bronson – informazioni: cisim.lidoadriano@gmail.com / 3896697082 / ccisim.it

A Ravenna torna il Loose Festival

0

Dal 20 al 22 aprile arriva a Ravenna la quinta edizione del Loose Festival, il festival internazionale del Club Adriatico, che quest’anno espande i suoi spazi aggiungendo all’Almagià e alla Darsena Pop Up anche la Rocca Brancaleone e la spiaggia Boca Barranca.

Tre giornate, diciotto artisti, tra techno, bass music, house, reggaeton, avanguardie e sperimentazioni, sempre nell’ottica della contaminazione e delle connessioni non convenzionali. Il Festival si aprirà alle ore 18 presso la Darsena Pop Up con i djset di Piezo e Rosa Caliz, mentre a partire dalle 23, dopo i djset di Dj Marcelle e Ploy, avranno inizio di live di The Modern Institute, Nkisi e Dewey Dell. Domenica 21 aprile si inizia invece alle ore 17 presso la Rossa Brancaleone con una lunga serie di djset: da Low Jack a Amazon Prim, da Serena Butler a Club Adriatico Dj’s. Ci si sposta poi all’Almagià con i djset di Flabvio Vecchi, Batu e M.E.S.H e a seguire i live di Clara! Y Maoupa e Primitive Art.  A chiudere le tre giornate di Festival saranno, a partire dalle ore 14 presso la spiaggia Boca Barranca i djset di Still b2b Jackie, Bangutot e Club Adriatico Dj’s.

Loose 2019 segna quattro ritorni: il primo, quello di Batu, dj e producer simbolo della scena elettronica underground di Bristol, che ha presenziato alla serata d’apertura della stagione 2016. Dopo diverse uscite sulla sua influente labelTimedance e sulla Hessle Audio della triade Ben Ufo/Pearson Sound/Pangaea, ha pubblicato l’EP “Rebuilt“ su XL Recordings spingendo le sue inconfondibili pulsioni bass in scenari techno inesplorati.Un altro ritorno è quello di M.E.S.H., producer innovativo ed eclettico, che ha chiuso l’edizione 2017 e che quest’anno torna al Festival con le sue selezioni spiazzanti, avvolgenti e inarrestabili. Anche per producer belga NKISI si tratta di un ritorno dopo Loose 2017, ma per questa edizione si esibirà per la prima volta in Italia con il set live del nuovo LP “7 Directions”. Per ultimi, tornano anche i Primitive Art, l’ambient duo dub “post-apocalittico” formato Matteo Pit e Jim C. Nedd dopo la pubblicazione dell’EP “Arcola”.

Assoluta novità di quest’anno è invece il collettivo cesenate di danza, performance e sperimentazione sonora dei Dewey Dell: cresciuti nella compagnia teatrale d’avanguardia Socìetas Raffaello Sanzio, i fratelli Teodora, Demetrio e Agata Castelucci ed Eugenio Resta, con questo progetto d’arte traversale hanno costruito un nuovo linguaggio esplorativo che connette performance, musica elettronica, luce e animazione.

Le più stravaganti connessioni del Festival iniziano con Flavio Vecchi, icona della “oldskool” house della Riviera e resident di club come l’Ethos Mama Club e Echoes e afterparty come il Vae Victis e il Diabolika che hanno fatto la storia del clubbing italiano e la dirompente performance figlia delle avanguardie post-punk di quell’epoca rivisitato in chiave contemporanea dal collettivo di Glasgow The Modern Institute (formato da Laurie Pitt e Richard McMaster già Golden Teacher). A questi si aggiungono la madrilena Clara! e il suo progetto tra reggaeton e industrial della madrilena, nonché il compositore sperimentale belpa Maoupa Mazzocchetti e l’Olanda della stravagante dj Marcelle Van Hoofaka Dj Marcelle che, dopo aver sperimentato il glam e il punk degli anni Settanta, si è espansa verso orizzonti house, techno, dub, hip hop, world e caraibici.

Altre novità di Loose 2019 sono rappresentate dalle presenze di Low Jack, il dj parigino di origini honduregne fondatore di EditionsGravats, tra i più ispirati producer di techno sperimentale del giro L.I.E.S. Records e In Paradisum; di Ploy, il producer londinese con la sua bass convulsa e percussiva, insieme a Piezo, producer milanese con release su altre etichette iconiche della capitale-epicentro del genere. A chiudere il Festival sarà la dj portoghese Jackie con Simone Trabucchi aka STILL, fondatore di Hundebiss, famoso per la sua dance hall digitale in “I”.

Dal 20 al 22 aprile, Loose Festival, Ravenna – info: www.facebook.com/loosefestival

Ultimi giorni per partecipare alla call over 65 lanciata da Lenz Fondazione per il Festival Natura Dèi Teatri 2019

0

 

La Direzione Artistica accoglie proposte di Visual & Performing Arts per la sezione autunnale, che si svolgerà a Parma dall’1 al 30 novembre. I progetti saranno connessi al tema concettuale Liscio/Striato, nell’ambito del triennio 2018-2020 Toccare. Ispirazioni da Jean-Luc Nancy.

C’è tempo fino al 30 aprile per presentare proposte, afferenti alle Visual & Performing Arts, che la Direzione Artistica di Lenz Fondazione valuterà in vista della XXIV edizione del Festival Natura Dèi Teatri, la cui sezione autunnale avrà luogo a Parma dall’1 al 30 novembre 2019.

Il tema concettuale del triennio 2018-2020 è Toccare. Ispirazioni da Jean-Luc Nancy, con la tripartizione Tenero nel 2018, Liscio/Striato nel 2019 e Sforzo nel 2020: «Nessun vivente al mondo può sopravvivere un solo istante senza il tatto, cioè senza essere toccato» scrive Jacques Derrida in Le toucher. Jean-Luc Nancy «Non necessariamente da un altro vivente, ma da qualcosa = x. Si può vivere senza vedere, udire, gustare, “sentire” (almeno nel senso olfattivo), ma non si sopravviverà un solo istante senza essere a contatto, in contatto […] È per questo che, al di qua o al di là di qualsiasi concetto della “sensibilità”, il tatto significa “essere al mondo” per un vivente finito».

Alla call sono invitati specificamente artisti over 65 o formazioni in cui l’età media dei componenti sia superiore ai sessantacinque anni.

Le proposte andranno presentate inviando entro il 30 aprile 2019 all’indirizzo natura@lenzfondazione.it un unico documento (word o pdf) contenente titolo, data di nascita e nota biografica degli artisti coinvolti, presentazione/sinossi del progetto, link a video (sia trailer che, ove possibile, integrale), n. 6 immagini, esigenze tecniche, recapiti utili.

I referenti dei progetti selezionati saranno contattati entro il 31 maggio 2019.

Per i lavori selezionati sono previsti compenso e assistenza tecnica.

Info sul Festival Natura Dèi Teatri: http://lenzfondazione.it/natura-dei-teatri/.

Info su Lenz Teatro, lo spazio che accoglierà i lavori (con immagini e planimetrie):
http://lenzfondazione.it/spazio/lenz-teatro/.

Lenz Teatro si trova in via Pasubio 3/e a Parma. Tel. 0521 270141, 335 6096220. Email: info@lenzfondazione.it. Web: www.lenzfondazione.it.

Il Reggio Film Festival diventa maggiorenne e lancia una call internazionale

0
Reggio Film Festival 2019 - foto di Alessandro Scillitani

 

C’è tempo fino al 15 maggio per inviare proposte per l’edizione numero 18, che avrà luogo a Reggio Emilia dall’8 al 18 novembre. Il Festival 2019, che ha ottenuto il patrocinio del Consiglio d’Europa, ha per titolo/tema Terra.

«In un’epoca in cui tutto il dibattito politico sembra concentrarsi sulla difesa dei confini e sulle paure, pochissima attenzione viene posta al tema dei cambiamenti climatici. Abbiamo quindi immaginato di dare spazio a riflessioni sul mondo, sull’ambiente e sulle trasformazioni in atto»: Alessandro Scillitani, ideatore e Direttore Artistico del Reggio Film Festival introduce la call internazionale lanciata in vista dell’edizione numero 18, che avrà luogo a Reggio Emilia dall’8 al 18 novembre 2019 e che avrà per titolo/tema Terra «Anche quest’anno sarà inoltre presente la sezione speciale Città Mondo, riservata ai corti dedicati al dialogo interculturale e, d’intesa con l’Associazione Iniziativa Laica, verrà riproposta la sezione speciale Laicità. Torneranno, come ogni anno, la sezione Family per i corti dedicati a bambini e famiglie e la sezione Spazio Libero, per esprimere al meglio la propria creatività. Continuerà l’attività di workshop e formazione, per stimolare le opportunità di crescita e programmeremo numerosi forum, incontri, approfondimenti».

 

workshop realizzazione corto 2017

 

Per inviare proposte di cortometraggi per l’edizione 2019 del Reggio Film Festival, che ha ottenuto il patrocinio del Consiglio d’Europa per la lunghissima attività di «sensibilizzazione del pubblico e promozione della diversità culturale», c’è tempo fino al 15 maggio 2019.

Info sul Reggio Film Festival: http://www.reggiofilmfestival.it/.

Link per iscrivere il proprio cortometraggio: http://www.reggiofilmfestival.com/iscrizioni.asp?operazione=iscrivicorto&lingua=ita.

 

Bologna riscopre i sui tesori. Le Collezioni Comunali d’Arte di Palazzo d’Accursio riaprono al pubblico

0
Collezioni_Comunali_Arte_Bologna_foto_Giorgio_Bianchi

Terminati i lavori di restauro e di consolidamento strutturale, da giovedì 18 aprile, le Collezioni Comunali d’Arte di Palazzo d’Accursio riaprono definitivamente al pubblico per svelare e rendere nuovamente fruibili al visitatore le sale espositive, custodi di opere uniche e rappresentative della città felsinea, e della Galleria Vidoniana che, grazie all’intervento di ripristino, raggiunge l’apice dello splendore.

La visita è un viaggio nella storia dell’arte che si snoda tra le varie epoche, non solo della tradizione bolognese, dove è ben rappresentata l’eccellenza dei grandi artisti con i manufatti dei mestieri: vasi, arredi, dipinti, sete alle pareti, stoffe negli arredi, statue nelle sale e negli appartamenti, gli affreschi e le decorazioni nei soffitti ed alle pareti. Ovunque si guardi si trova la bellezza, a due passi da noi, in quelle stanze un tempo adibite a residenza privata dei cardinali legati, i rappresentanti dello Stato Pontificio che dal XIII al XVIII ressero il governo della città.

E’ così, grazie all’importante opera di ripristino e di restauro conservativo è possibile ammirare la Galleria Vidoniana nell’Appartamento del Legato e la Sala Urbana dove vi è conservata la straordinaria serie di 18 dipinti realizzati da Donato Creti per Marcantonio Collina Sbaraglia, donati al governo cittadino nel 1744.

Collezioni_Comunali_Arte_Bologna_foto_Giorgio_Bianchi

Inoltre, il magistrale e complesso intervento estetico e funzionale condotto da Manuela Farinelli ha permesso di recuperare le tappezzerie bolognesi in prezioso damasco di seta, che rivestono interamente le cosiddette tre Sale Rusconi (11, 12, 13) ricreando la dimensione privata delle dimore aristocratiche del XVIII secolo.

C’è di più, due progetti espositivi, organizzati dai Musei Civici d’Arte Antica con la curatela di Silvia Battistini e Massimo Medica hanno rivisitato l’ordinamento originario della maggior parte delle opere attraverso prospettive interpretative rinnovate, proponendo accostamenti inediti, prestiti da collezioni private e opere sino a ieri conservate nei depositi museali.

Un imperdibile visita per riscoprire un patrimonio artistico e culturale restituito alla città: La piccola Versailles nel cuore di Bologna che guarda Piazza Maggiore e strizza l’occhio al Nettuno.

Per scoprire gli affreschi della Galleria Vidoniana restituiti al loro splendore sabato 20 aprile alle ore 10,30 si svolgerà la visita guidata La Galleria ritrovata: i restauri della volta della sala Vidoniana.

Collezioni Comunali d’Arte
Palazzo d’Accursio, Piazza Maggiore 6 | 40121 Bologna

Inaugurazione mercoledì 17 aprile h 17.30

www.museibologna.it/arteantica

Nuove Figure in un interno: fotografia protagonista allo CSAC di Parma

0
Gianni Berengo Gardin, Umbria, 1977, stampa fotografica in bianco e nero, 202x305 mm

È stata inaugurata sabato 13 aprile, nell’ambito della XIV edizione di Fotografia Europea, la mostra Nuove figure in un interno  allestita ella Sala delle Colonne dell’Abbazia di Valserena, sede dello CSAC Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma.  La mostra, interamente costruita con opere provenienti dagli archivi dello CSAC di autori quali Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Luciano D’Alessandro, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Marzia Malli, Paola Mattioli, Giovanna Nuvoletti, ruota attorno alla trasformazione – che avviene nel corso degli anni Settanta – del racconto della dimensione intima degli individui, la cui identità sociale risulta profondamente modificata dai mutamenti di visione che le ‘rivoluzioni’ del decennio precedente hanno portato con sé.

Si impongono, dunque, anche in ambiti fotografici non espressamente caratterizzati da intenzionalità di denuncia, gli esiti del reportage militante e l’interesse per particolari temi: la liberazione sessuale, le lotte di genere, il rovesciamento degli schemi tradizionali del modo di intendere la famiglia e le relazioni, la messa in discussione delle gerarchie sociali e il conseguente emergere, con ruoli di protagonisti, di nuovi gruppi sociali. Sono tematiche che incidono in modo evidente sulla produzione fotografica ed editoriale, cioè in spazi all’interno dei quali gli elementi tradizionali (interni domestici, momenti di vita quotidiana, oggetti di uso comune, quadri di vita familiare e di comunità ristrette) si combinano in composizioni rette da un linguaggio profondamente trasformato, anche in virtù di riflessioni che in quel periodo erano parallelamente condotte in ambito artistico e fotografico.

Carla Cerati, Donne di ringhiera, Milano 1975, stampa fotografica in bianco e nero, 238×308 mm

Attraverso il lavoro di numerosi autori si approfondiscono dunque alcuni capitoli di quella particolare stagione, nella quale l’identità personale e collettiva, anche relativamente alla dimensione intima ed affettiva, viene ridisegnata alla luce di nuove consapevolezze, raggiunte anche grazie alle indagini di artisti e fotografi.

Fino al 19 maggio

Parma, CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Abbazia di Valserena, Strada Viazza di Pardigna 1. Info: www.csacparma.it

L’arte e donna. Incontri tra libri e opere nei musei di Bologna

0

Ha preso il via lo scorso martedì 9 aprile con un focus dedicato a Lica Covo Steiner, figura innovativa della grafica italiana del dopoguerra e al volume di Anna Steiner che la racconta (Edizioni Corraini), L’arte è donna. Incontri tra libri e opere nei musei di Bologna un progetto promosso dall’Istituzione Bologna Musei. Tra aprile e dicembre scrittrici, storiche dell’arte, giornaliste e studiose si confronteranno sul tema dello specifico femminile nell’arte, nella fotografia e nel design, narrando in una serie di incontri molteplici vicende di vita, evidenziando differenti pratiche, analizzando una varietà di modalità espressive.

La dimensione estetica, nella narrazione e nel dibattito, si intreccerà ai contesti storici, culturali e politici in cui le celebri donne di cui si parlerà sono state protagoniste.

Nella storia dell’arte, il profilo delle donne resta spesso sfocato, le loro storie oscure. I nomi delle artiste sono, per così dire, scritti in piccolo. Di recente però di queste storie si è cominciato a raccontare, discutere, scrivere sempre di più. Un ampio pubblico legge e si appassiona al racconto dell’arte attraverso la ricostruzione delle vicende personali, come dimostrano numerosi successi editoriali degli ultimi anni, e i musei offrono il contesto ideale in cui presentare tali biografie accompagnandole a un percorso di visita pensato ad hoc.

Va in questa direzione la rassegna promossa dall’Istituzione Bologna Musei. Incontri tra libri e opere nei musei di Bologna che porta nelle sale museali autrici di biografie e studiose per approfondire le storie dirompenti di donne che hanno fatto dell’arte un mestiere, una passione e una ragione di vita.

Ogni incontro, da aprile a giugno e da settembre a dicembre, affianca una visita guidata alle collezioni permanenti o alle mostre temporanee in corso nei musei alla presentazione di un libro con discussione aperta al pubblico. Sono coinvolti non solo l’autrice o l’autore del libro ma figure di studiose/i esperti dell’artista o del periodo di volta in volta preso in considerazione. All’interno del museo la biografia del personaggio si arricchirà del racconto del periodo storico e artistico in cui è vissuto, con la realizzazione di percorsi ideati appositamente che, attraverso le opere esposte nelle sale, ne inquadrano la vicenda.
La conduzione degli incontri è affidata alla giornalista Lara Crinò, curatrice della rassegna.

Per maggiori informazioni e per conoscere date e tematiche dei prossimi incontri: museibologna.it

Dal 9 aprile al 4 giugno 2019
Settembre – Dicembre 2019

Istituzione Bologna Musei | varie sedi

Planet or Plastic? In mostra le foto shock di National Geographic

0
Planet or Plastic?_ph Jordi Chias - National Geographic

Inaugura oggi a Bologna, sabato 13 aprile, la mostra Planet or Plastic , nell’ambito dell’omonima campagna internazionale lanciata da National Geographic nata per sensibilizzare a un uso consapevole e responsabile della plastica. Allestita nel complesso museale di Santa Maria della Vite, organizzata in collaborazione con Genus Bononiae. Musei nella Città e la Fondazione Carisbo, sarà visibile al pubblico sino al 22 settembre.

Mrs Mandy Barker, Prof Fabio Roversi Monaco_Planet or Plastic?_ph, Lara Congiu

La mostra vuole sensibilizzare e mettere in evidenza i pericoli per l’ambiente derivanti dalle materie plastiche sino ad oggi prodotte, non smaltite e solo in minima parte riciclate. Dal giorno della sua invenzione i dati stimano che sono stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, di cui 6,3 sono diventati rifiuti che possono rimanere nell’ambiente anche per 400 anni o più. Perché le materie plastiche non sono biodegradabili.

La plastica che finisce in mare mette in pericolo la vita degli animali marini, si accumula in grandi isole galleggianti, e con il tempo si rompe in pezzi sempre più piccoli che vengono ingeriti da pesci, cetacei, uccelli.

Plastic or Planet?_ph, Mandy_Barker_SOUP_BIRDS NEST_National Geographic

Il percorso della mostra – curata da Marco Cattaneo, Direttore di National Geographic Italia, e dalla redazione, con la collaborazione della scrittrice e documentarista Alessandra Viola – alternerà le fotografie dei grandi reporter di National Geographic all’originale lavoro artistico di Mandy Barker, che ha scelto di raccogliere rifiuti di plastica da tutto il mondo per un progetto fotografico di eccezionale valore estetico e al tempo stesso di grande impatto emotivo. All’interno della mostra l’installazione Iceberg, di Francesca Pasquali, artista nota per rivalutare oggetti d’uso comune, come delle semplici cannucce di plastica per farne delle vere e proprie opere d’arte. “Le cannucce si trasformano in presenze plastiche vibranti affondate in un mare riflettente che cattura la nostra stessa immagine e ci rende compartecipanti dell’opera stessa” (Ilaria Bignotti).

Planet or Plastic?_ph, Shawn Miller_National Geographic

Completa il percorso la proiezione del documentario di National Geographic “Punto di non ritorno” del regista premio Oscar Fisher Stevens e dell’attore premio Oscar e Messaggero della Pace per conto dell’ONU Leonardo Di Caprio: un affascinante resoconto sui drammatici mutamenti che si verificano oggi in tutto il mondo a causa dei cambiamenti climatici.

L’esposizione accompagna lo spettatore in un coinvolgente percorso articolato in una quarantina di foto shock e due video-installazioni volte a provocare una riflessione sul materiale che è diventato ormai sinonimo di degrado e distruzione del pianeta. Otto i grandi temi in mostra, dalla quantità di plastica prodotta nel mondo all’impatto sull’ambiente e sulla catena alimentare, dal riuso all’educazione individuale e collettiva.

Planet or Plastic?_ph, Randy Olson_National Geographic

La mostra rende anche partecipe il visitatore di un grande progetto collettivo. Ai visitatori è richiesto di portare in mostra e lasciare in un grande contenitore le loro bottiglie di plastica, una per ciascuno di loro. Quelle bottiglie troveranno nuova vita in una installazione architettonica itinerante che sarà l’oggetto del concorso internazionale di idee Plastic Monument – Architectural Design Competition.

Parallelo a Planet or Plastic?, il concorso, bandito da YAC – Young Architects Competitions, vedrà giovani architetti sfidarsi per realizzare un’installazione destinata a farsi ambasciatrice internazionale dei valori di tutela e sensibilità ambientale propri della mostra.

Planet or Plastic?_ph, John Stanmeyer_National Geographic

“La plastica – come ha dichiarato Andreas Riehemann, Presidente e Amministratore Delegato di BASF Italia – è una grande invenzione ma occorre gestirla in modo corretto, valorizzandone le proprietà e rispettando l’ambiente, perciò è necessario che ognuno, nel suo piccolo, faccia la propria parte”. E’ così che grandi aziende come BASF hanno avviato lo studio di processi di riciclo molecolare per le plastiche destinate a discarica o incenerimento. Da gennaio, è tra i fondatori dell’Alliance to End of Plastic Waste, un’organizzazione che riunisce 30 tra le più importanti aziende al mondo impegnate nella lotta al marine littering. A questo si aggiunge la proposta rivoluzionaria di Skywell, il generatore in grado di trasformare l’aria circostante in acqua potabile, ha l’obiettivo di eliminare definitivamente l’utilizzo delle bottiglie di plastica nelle aziende e nelle istituzioni, perché, come dichiarato dai vertici, “la quantità di plastica nel pianeta diminuirà solo quando adotteremo soluzioni alternative e concrete”.

Chiesa Santa Maria della Vite
Via Clavature, 8-10, 40124 Bologna

Ingresso a pagamento: Intero 10 euro, ridotto 5 euro

www.genusbononiae.it

 

“Gli occhi di Vivian Maier. I’m a camera”, intervista a Roberto Carlone

0

Si chiude sabato 13 aprile la stagione del Cinema Teatro Moderno di Savignano sul Rubicone con lo spettacolo Gli occhi di Vivian Maier. I’m a camera, di e con Roberto Carlone. Per l’occasione, abbiamo parlato dello spettacolo con il regista.

Come è nata l’idea di fare uno spettacolo su Vivian Maier?

L’idea di questo spettacolo nasce dalla mia passione per la fotografia, che negli ultimi cinque anni mi ha coinvolto, un po’ come fotografo e un po’ come appassionato e curioso. Ad un certo punto mi sono imbattuto nel fenomeno di Vivian Maier che ha sorpreso tutti quanti. Le sue fotografie mi hanno toccato in maniera particolare perché ho trovato una sorta di corrispondenza con quello che era il mio modo di fotografare. È difficile da spiegare, però è una sensazione molto personale, una sorta di fratellanza, che consiste nello scoprire di sentire allo stesso modo le persone, i soggetti da fotografare, ma anche tecnicamente i bianchi e neri, che mi hanno sempre emozionato molto di più di altre fotografie. L’idea era quella di preparare una sorta di conferenza che poi poco alla volta si è trasformata in spettacolo, perché sono successi un po’ di fatti strani. Il primo è stato quando mi sono recato a Milano per andare a vedere la mostra di Vivian Maier e ho scoperto che la stavano smontando e il materiale era già rinchiuso in casse da portare via. Dicono che Vivian Maier amasse molto giocare con le persone, scherzare, prenderle in giro e questo evento a distanza di dieci anni si può interpretare un po’ come un suo scherzo. La stessa cosa è successa quando sono andato a visitare il paesino dove lei ha trascorso l’età scolare in Francia: era il primo di maggio ed è arrivata una nevicata e siamo rimasti bloccati nel giro di 10 minuti da mezzo metro di neve. Questo è stato il secondo scherzo di Vivian Maier che in qualche modo stava dicendo “Non mi toccate”. Allora mi sono detto “Se allora deve essere una sfida, io questo spettacolo lo porterò avanti e lo farò al meglio”.

Come si è svolta la ricerca di informazioni per la sua realizzazione?

Ho cominciato a scrivere e a documentarmi. Ho fatto un viaggio a Chicago per visitare i luoghi in cui lei era stata e in questo percorso ho conosciuto delle persone, prima di tutti Caterina Cavallari che è anche l’aiuto regista e la persona che mi ha seguito in questa ricerca. Poi ho conosciuto le persone dell’Associazione Vivian Maier et le Champsaur, un’associazione francese di questo piccolo paesino di 300 abitanti dove lei ha abitato negli anni Cinquanta, che mi hanno aiutato soprattutto facendomi scoprire il lato più umano di Vivian Maier. Di solito lei viene presentata come una maniaca, un’accumulatrice seriale, una schizofrenica, una persona insopportabile e invece io sono convinto che non lo fosse, perlomeno non principalmente.

Quindi è proprio un ritratto umano di donna e di artista che emerge dallo spettacolo?

Si esatto. Vivian Maier era soprattutto una donna e una fotografa che faceva la bambinaia per cercare di stare un po’ al di fuori dei meccanismi della fotografia. Lei è sempre stata libera sostanzialmente: non avendola mai fatta diventare una professione, non ha mai avuto un editore o un agente che le diceva cosa fare. È sempre stata molto libera, per cui si è sempre scatenata. È un personaggio molto complesso, molto particolare. Nella realizzazione dello spettacolo mi accompagnano molte donne, come Françoise Perron, Sara Munari, Caterina Cavallari e tante altre e perciò si tratta di lavoro in particolare sull’anima femminile della fotografia. In fondo, è stata proprio la fotografia che ha permesso alle donne di avvicinarsi a un’arte, sviluppandosi proprio nel periodo in cui le donne cominciavano a prendere un po’ più di libertà e diventare quello che desideravano. Lo spettacolo testimoni anche questa nuova scoperta sulle donne.

Lei interpreta più personaggi all’interno dell’opera. Perché questa scelta?

L’idea dei quattro personaggi è soprattutto nata per alleggerire lo spettacolo ed evitare di trasformarlo in una conferenza dove io parlavo per un’ora e mezza e facevo vedere le fotografie. Poi perché, ad un certo punto, mentre stavo scrivendo, mi è venuta come un’illuminazione: per riuscire a capire bene le fotografie di Vivian Maier dovevo entrarci dentro. Questo mi ha aperto un ampio ventaglio espressivo: infatti io entro dentro le fotografie e interagisco con loro. Ad esempio, nella fotografia dell’edicolante addormentato, mi sono messo al posto dell’edicolante, indovinando i pensieri che si potrebbe esser fatto quest’uomo, improvvisamente svegliatosi, come mi piace immaginare, dopo che lei gli ha scattato la fotografia. In questo lavoro mi ha aiutato molto la mia passione per la tecnologia, quella semplice e di tipo umano, che mi ha aperto delle possibilità sul modo di raccontare, vale a dire quello appunto di entrare dentro le fotografie. Inoltre, Vivian Maier amava tantissimo farsi gli autoritratti, quelli che adesso corrisponderebbero – anche se un po’ diversi – al selfie, e spesso lei fotografava la sua ombra: allora ho pensato di cancellare la sua ombra dalle fotografie e metterci un’animazione che la rendesse viva, la facesse muovere, chiacchierare e dialogare con me. Ad esempio, tra le sue fotografie ce n’è una scattata nel suo laboratorio di fotografia, nella camera oscura che aveva creato in bagno, dove io inserisco l’ombra di Vivian Maier che sviluppa una sua fotografia. Insomma, la animo e le do vita. Un altro personaggio che interpreto è realizzato in cinema d’animazione e fa le veci di Jeffrey Goldstein, quello che ha scoperto e ha commercializzato le fotografie di Vivian Maier in maniera massiccia: una persona a cui dobbiamo dire grazie perché ha lavorato tantissimo sulla diffusione, anche se forse ha esagerato un po’ commettendo parecchie violenze nei confronti di Vivian Maier. Infine, c’è un altro personaggio, quello del fotografo che si pone domande sulla fotografia, sulla luce, fin dove ci si può spingere a fare fotografie, quanto si può entrare nelle vite delle altre persone, come ha fatto Vivian Maier, che arrivava in maniera empatica addosso a queste persone quasi come per abbracciarle. In tutto questo, sul palco ho una testiera, che suono per commentare le fotografie.

A proposito di questo, essendo lei  anche un musicista, che ruolo ricopre la musica in questo spettacolo?

Ho penato un po’ tutto lo spettacolo come se fosse un film: il montaggio è molto cinematografico perciò si passa da una scena a un’altra e poi ci sono tanti salti temporali, come al cinema, per entrare e uscire da una scena all’altra, da un personaggio all’altro. La musica diventa in certi momenti il collante e in altri momenti accompagna proprio, come se fossi il pianista di un film muto, le immagini e le animazioni.

Per concludere, qual è dunque l’obiettivo ultimo dello spettacolo?

Il grande lavoro che stiamo facendo è quello di rivalutare. Vivian Maier è piuttosto conosciuta, ma l’obiettivo non è tanto quello di rimarcare l’aspetto più scandalistico della sua vita – e la storia delle sue 150 mila foto mai sviluppate, quanto quello di rivalutare l’aspetto della fotografa. Lo spettacolo invita a cercare di considerare Vivian Maier come una fotografa e una donna, con tutta la sua sensibilità decisamente molto più avanti di quello che era la fotografia commerciale dell’epoca. Si tratta anche di un discorso sul tempo: le foto da lei scattate vanno fatte risalire principalmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, ma vengono scoperte solo nel 2010 dopo la sua morte. Così, questo tempo passato che viene riportato in vita diventa un po’ il protagonista. A pensarci bene in effetti, la fotografia è un’arte fatta con il tempo, che ferma un momento. Quindi lo spettacolo cerca di attraversare questo tempo in maniera trasversale.

Joelle Leandre & Pascal Contet all’Area Sismica

0

Continuano gli appuntamenti con la Rassegna Musiche Extra Ordinarie all’Area Sismica di Forlì: domenica 14 aprile alle ore 18.00 saranno protagonisti della serata Joelle Leandre, al contrabbasso, e Pascal Contet, alla fisarmonica. Un duo che mette insieme due figure storiche della musica del presente.

Joëlle Léandre è una contrabbassista, compositrice e improvvisatrice francese. Dopo aver collaborato per un anno con Morton Feldman, è stata anche visiting professor di composizione e improvvisazione al Mills College di Oakland. Le sue attività creative e performative l’hanno portata nelle più prestigiose scene europee, americane e asiatiche. Inoltre, ha anche collaborato con i più grandi nomi del jazz e dell’improvvisazione e si è distinta nella danza contemporanea, avvicinata da coreografi e danzatori come Yano, Dominique Boivin, Mathilde Monnier, Elsa Wolliaston e Josef Nadj. Ha registrato più di 180 album.

La carriera musicale di Pascal Contet è contraddistinta da collaborazioni sorprendenti, sia che si tratti di musica classica, contemporanea o improvvisata, come con Barre Philipps, Pauline Oliveros, Carlos Zingaro, Wu Wei, Andy Emler, Sonia Wieder-Atherton, Tom Mays. Ha anche lavorato con direttori come Pierre Boulez, François-Xavier Roth e si esibisce come solista con le orchestre di Chambre de Lausanne, Brastislava, Timisoara, Philharmonique de Radio France, Philharmoniescher Freiburg e molte altre. Il suo talento è testimoniato anche da numerosi riconoscimenti quali la vittoria del Victoire de la musique classique e la nomination come artista dell’anno ai Victoires de jazz Awards. Dopo l’esperienza al Conservatorio di musica e teatro di Berna, attualmente insegna fisarmonica all’Académie Supérieure de Musique de Strasbourg ed è anche insegnante presso il Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e di Danza di Parigi.

Domenica 14 aprile, Joelle Leandre & Pascal Contet, Area Sismica Forlì, ore 18 – info:346 4104884, info@areasismica.it, www.areasismica.it

“Thelma e Louise” chiude in anteprima la stagione al Salone Snaporaz

0
Angela Baraldi

Venerdì 12 aprile alle ore 21.15 si chiude ufficialmente la stagione teatrale del Salone Snaporaz con lo spettacolo inedito Thelma e Louise, nato e interamente allestito a Cattolica, distribuito da Ater – Associazione teatrale Emilia Romagna.

Ispirato all’omonimo film di Ridley Scott, Thelma e Louise vede sul palco tre attrici e musiciste, Angela Baraldi e Francesca Mazza (voce e recitazione) e Rita Marcotulli (pianoforte) che hanno il compito di raccontare in teatro e musica la storia di due donne e del loro desiderio di libertà. Thelma e Louise sono due donne che, cantando in macchina con i finestrini abbassati, cercano in qualche modo di affermare la propria indipendenza e il coraggio di voler affermare se stesse. Attraverso la storia di queste due figure, lo spettacolo cercherà di restituire al pubblico una storia di coraggio che mostra lo sforzo delle donne di riappropiarsi delle proprie vite.

Francesca Mazza, diplomatasi alla Scuola di teatro di Bologna, inizia la sua carriera artistica nel 1982 debuttando nello spettacolo Il bugiardo di Carlo Goldoni, regia di Alvaro Piccardi, nella compagnia di Ugo Pagliai e Paola Gassman. Da allora, è stata protagonista di innumerevoli spettacoli, sia in Italia, sia all’estero, con numerose segnalazioni e riconoscimenti, quali il premio Ubu, come migliore attrice non protagonista in Aquamarina e protagonista in West.

Rita Marcotulli comincia a suonare professionalmente il pianoforte all’interno di piccoli gruppi negli anni ’70 e successivamente inizia a collaborare con numerosi artisti internazionali. Più recentemente ha partecipato alla realizzazione del film Basilicata coast to coast, per il quale si è occupata della colonna sonora che le è valsa il Ciak d’oro e il Nastro d’argento alla migliore colonna sonora, nonché il David di Donatello per il miglior musicista.

Angela Baraldi esordisce come musicista negli anni ’80 nei club underground di Bologna, collaborando come corista per Luca Carboni, Ron e Lucio Dalla, con il quale nel 1986 intraprende il tour americano Dallamerica. Dalla musica passa anche al cinema con il videoclip Chiedi chi erano i Beatles (1984) degli Stadio. Nel 1990 pubblica il suo album d’esordio Viva e nel 1993 partecipa al Festival di Sanremo con il brano A piedi nudi, che le vale il premio della critica. Attualmente, lavora sia a teatro sia nel cinema, non dimenticando di portare avanti anche la sua attività musicale.

Venerdì 12 aprile, Thelma e Louise, Salone Snaporaz Cattolica, ore 21.15 – info: 0541/966778, 0541/96663, www.teatrodellaregina.it, facebook.com/teatrodellaregina

La mano, il colore, la libertà. 3 maestri per 3 domande. Intervista a Fiorenza Pancino

1
Fiorenza Pancino © Chiara Casanova

Domenica 14 aprile alle ore 18 presso la Galleria Comunale D’Arte Faenza si terrà il finissage e la presentazione del catalogo della mostra La buttero’ sul surreale di Fiorenza Pancino a cura di Irene Biolchini. A seguire, l’intervista fra la curatrice e l’artista.

Miró diceva che disegnando una stella mille volte arrivava a svuotare la mente fino a che la stella non si disegnava da sola. Quanto hai lasciato la mano libera nella preparazione di questa mostra?

La mia mano segue il flusso, non ubbidisce alla testa, anche se tutto parte da lì, sempre.
Molte delle opere di questa mostra sono un lavoro sull’inconscio, era questa la mia intenzione.
Ho ascoltato la musica che amo, Nada, Paolo Conte e Ravel tra gli altri, volevo lavorare in modo netto sul colore e quindi ho cercato e letto tutto quello potevo sul tema del nero, rosso, bianco, verde, giallo, rosa, grigio e turchese (consultando sempre la mia “bibbia “: Il dizionario dei simboli).Ho lasciato decantare il tutto è poi ho lavorato senza pensare, con gioia, come immagino facesse Miró, un vecchio bambino che si diverte, lasciando arrivare immagini e pensieri apparentemente senza logica, entrando nel “luogo dell’arte” , che amo così tanto. Ho seguito una forte, gioiosa e consapevole dissociazione.

Klein diceva di avere capito l’immensità del blu quando aveva visitato Assisi e visto la pittura di Giotto e il suo cielo trascendentale. Per te Giotto è stato un arcobaleno. Posso chiederti come è nato il lavoro e l’accostamento tra calcografie e colori sgargianti?

Il colore da sempre fa parte del mio immaginario, la mia parte veneta ce l’ha nella storia.
La scorsa estate con i miei uomini – figlio e marito – abbiamo fatto un breve viaggio a Padova. Le nostre tappe erano l’orto botanico e Cappella degli Scrovegni di Giotto.
Una folgorazione. Ero molto concentrata (dato anche il tempo di visita è limitato) ed estasiata.Il giudizio universale è poetico, surreale, grandioso, pieno di ogni colore, un opera che racconta molto dell’arte di Giotto.
Ho pensato ad un omaggio che fosse anche una traduzione in termini contemporanei e ho riguardato un libricino che avevo acquistato dopo la visita, con le 14 strepitose immagini dei 7 vizi (Stoltezza, Incostanza, Ira, Ingiustizia, Paganesimo o idolatria, Invidia e Disperazione) e delle 7 virtù (Prudenza, Fortezza, Temperanza, Giustizia, Carità, Speranza).Spegnendo la mente ho visto tutti i colori, e non so come ho associato questo approccio ad un esperimento di fisica legato alla teoria della luce di Isaac Newton – che fu fisico, teologo, matematico ed anche alchimista: tutti i colori, disposti in circolo e fatti ruotare velocemente restituiscono solo il bianco, meravigliosa sintesi.
Ho immaginato un grande pannello in cui poter mescolare una serie di formelle rettangolari diseguali, composte da tutti i colori dell’arcobaleno e le 14 immagini di Giotto riprodotte a decalcomania. Ho mescolato e disposto tutte le formelle, seguendo un apparente ordine casuale anche se io non credo al caso. Penso invece che tutto nella vita abbia un senso ed una logica, che però a noi imperfetti esseri umani appare sconosciuta e misteriosa.

Louise Bourgeois descrivendo la sua infanzia dice: ‘Fantasie, ma talvolta la fantasia è vissuto’. Posso chiederti dove inizia e dove finisce il vissuto nelle fantasie che presenti a Faenza?

La libertà penso sia un concetto importante per un artista, un’opera deve essere profondamente sincera per essere definita tale, quindi se ti conosci bene accedi liberamente, senza censura, al luogo della fantasia.In questo luogo io credo ci sia tutto: i tuoi ricordi, i pensieri , le emozioni, il tuo vissuto famigliare, il desiderio, la musica e gli artisti che ami, il cinema e letture che hai fatto, la natura con la sua bellezza, tutte le paure e le gioie della tua vita, il sogno e l’immaginazione.Non saprei dire dove inizia o finisce il mio vissuto, o quanto sia fantasia. So che non è importante che tu sia in grado di creare consapevolmente, l’importante è essere profondamente sinceri e liberi quando fai Arte.

Happy New Ears. Brevi note su ‘Silenzio’ di John Cage

0
John Cage

 

Il Saggiatore ha appena pubblicato, in traduzione riveduta e con una prefazione inedita in Italia, il mitologico volume. Un libro davvero per tutti, non certo un manuale ad uso esclusivo di musicisti e appassionati d’arte.

Anno pazzesco, il 1961.

Esce Silenzio, rivoluzionaria raccolta di articoli, conferenze e saggi di John Cage.

E, per rimanere nell’ambito delle arti, Allan Kaprow riempie di copertoni gli spazi antistanti alcuni musei, obbligando i visitatori a inusuali esperienze estetiche, dunque conoscitive.

 

Piero Manzoni, Base magica – Scultura vivente, 1961

 

Altrettanto fa, con piglio più concettuale, Piero Manzoni con le Basi Magiche, piedistalli in cui persone comuni son nominate Sculture viventi, e con Socle du monde, monolitico cubo rovesciato che pone l’intero pianeta nella condizione di opera d’arte.

Ancora: Yoko Ono, da molti considerata unicamente la moglie antipatica di John Lennon, propone in puro spirito Fluxus il dipinto su cui piantare chiodi (sideralmente lontano dal «guardare e non toccare» a cui siamo stati abituati) e, più smaterializzata forma di attivazione di uno sguardo altro, il rettangolo di plexiglass portatile mediante il quale ogni frammento di mondo è considerabile opera d’arte.

 

Yoko Ono, Painting to let the evening light go through, 1961

 

A lungo si potrebbe continuare, ma forse questi pochi esempi sono sufficienti a dar conto di come gli scritti di John Cage nascano, si alimentino e al contempo nutrano un milieu vivacemente curioso e inclusivo.

I testi dei saggi e delle conferenze-performance spaziano dai discorsi sulla musica (propria e di altri), alla danza, la pittura, lo zen.

Ed è proprio la filosofia di origine indiana -che intride ogni parola di Silenzio– col suo avvolgere le cose di questa terra in un valore di sacralità incarnata al fine di assaporare l’irripetibilità inestimabile di ogni istante (anche e soprattutto il più apparentemente insignificante) a rendere il volume appena ripubblicato da il Saggiatore un libro davvero per tutti, non certo un manuale ad uso esclusivo di musicisti e appassionati d’arte.

 

 

Tra indimenticabili aneddoti, illuminanti riflessioni e sublime ironia, Cage incoraggia ad incontrare il mondo, i suoi innumerevoli ready made acustici (Marcel Duchamp docet) e le cose che semplicemente vi accadono: un silenzio tutt’altro che muto.

 

MICHELE PASCARELLA 

 

John Cage, Silenzio. Edizioni il Saggiatore, Milano, 2019. ISBN 9788842825470. pagine 320. € 42.