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Festa della Donna a teatro! L’inferno e la fanciulla a Poggio Torriana

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Serena Balivo, L'inferno e la fanciulla - foto di Jan Chmelik

 

Serena Balivo, L'inferno e la fanciulla - foto di Jan Chmelik
Serena Balivo, L’inferno e la fanciulla – foto di Jan Chmelik

 

C’era una volta una bambina.

L’inferno e la fanciulla è un monologo con drammaturgia originale composta da Mariano Dammacco insieme all’interprete Serena Balivo.

I linguaggi scelti sono quelli dell’allegoria e dell’umorismo, affiancati da una lingua altra, poetica, a fare da contrappunto.

L’attrice interpreta una surreale bambina, la Fanciulla, che conduce gli spettatori in un viaggio all’inferno, «non quello delle anime dannate, ma quello che a volte sembra di vivere nella quotidianità. Si tratta, in realtà, di un viaggio alla ricerca di una propria dimensione di adulto». In scena le aspettative e le speranze riguardo la vita futura, le difficoltà e le delusioni legate alla ricerca di qualcuno di affine.

Questa Fanciulla appare attraverso la figura di un personaggio a metà tra Alice del Paese delle Meraviglie e Dorothy del Mago di Oz.  Tra clowns e cartoons, la Fanciulla intraprende il proprio viaggio. Le ombre sullo sfondo sono proiezione olografica di ciò che forse sarà.

Lo spettacolo della Piccola Compagnia Dammacco, vincitore del Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro, verrà presentato nell’ambito della rassegna Mentre Vivevo, a cura di quotidiana.com e La Mulnela.

Al termine è previsto un incontro fra artisti e pubblico, allo scopo di svelare alcuni retroscena e meccanismi del lavoro.

A seguire sarà offerto un dolce ristoro.

Nutriamo non solo la mente: per non dimenticare che la crisi non è affatto alle nostre spalle, i curatori della rassegna hanno deciso di fare un dono agli spettatori. Domenica 24 aprile uno dei biglietti emessi nei vari appuntamenti, estratto a sorte, si aggiudicherà un buono spesa del valore di trecento euro da spendere presso un supermercato Coop.

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8 marzo, ore 21 – Poggio Torriana (RN), Centro Sociale, via Costa del  Macello 10 (traversa di Via Santarcangiolese all’altezza del civico 4603) – ingresso unico 7 € – info e prenotazioni: 347 9353371, quotidiana@alice.it

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Le insidie di Martusciello, Grieco e Lepore

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martusciello grieco e leporeIn contesto di improvvisazione radicale il trio formato da due contrabbassi (Renato Grieco e Umberto Lepore) e l’elettronica del napoletano Elio Martuscello, autore di musiche sperimentali, si immerge in una profonda meditazione all’interno del suono. Si tratta di una combinazione strumentale inedita che va ad esplorare sentieri mai percorsi.

“La natura di questo territorio sconosciuto nasconde molte insidie, ma come spesso accade la musica (come l’arte tutta) può trasformare pericoli e rischi in opportunità per sperimentazioni ardite, sfide estreme.  – spiega il gruppo – Questo perché l’arte è una “zona franca” in cui si posso esperire sul piano delle emozioni le esperienze più graffianti dell’esistenza umana. Quindi, in questo contesto, l’insidia si configura come una geografia di seduzione, attrazione, incanto”.

 

Suonano a Forlì all’Area Sismica, domenica 6 marzo, alle 18.

 

6 marzo, Forlì, Area Sismica, Ravaldino in Monte, via le Selve 23, ore 18, info: 346 4104884

 

 

A lezione di rock con Gino Castaldo ed Ernesto Assante: i Rolling Stone

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Continuano le lezioni di rock al teatro Il Celebrazioni di Bologna intitolate “Una produzione elastica” e tenute da due note firme del giornalismo musicale: Ernesto Assante e Gino Castaldo.  Il 4 marzo è la la volta dei Rolling Stone “Il diavolo probabilmente”.  Negli ultimi quattro decenni i due critici hanno seguito le cronache musicali intervistando i protagonisti, italiani e non, recensendo dischi, concerti e raduni epocali e anticipando le tendenze della scena nostrana e internazionale. Storia e cronaca si mescolano in percorsi guidati caratterizzati dall’ascolto di memorabili hit e da video e parole che immergeono il pubblico nella storia musicale fatta di sogni, passione, idee, progetti, immagini e stimoli che hanno alimentato diverse generazioni.
Non c’è nulla da scrivere sui Rolling Stone. Sono la band più longeva, simbolican ed eccessiva della storia del rock. Un’autentica pietra miliare nell’evoluzione della musica rock che con i propri brani ha portato sotto i riflettori il malcontento e la protesta di una generazione intera. Nel loro cinquantenario, la serata ripercorrerà la loro storia attraverso capolavori senza tempo che hanno segnato lo scorrere del nostro tempo.

4 marzo, Una Produzione Elastica, Ernesto Assante e Gino Castaldo in Lezioni di Rock: Rolling Stones, Bologna, Tetaro Il Celebrazioni, Via Saragozza 234, ore22, info: 051 4399123

 

Il nuovo inizio di Carmen Consoli

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consoli cesena1E’ ormai il lontano 1996 quando Carmen Consoli, giovane e promettente cantautrice di Catania, produce “Due parole”, il suo esordio discografico. Venti anni dopo, con più di dieci dischi e una serie sterminata di concerti in tutto il mondo alle spalle, quella cantautrice è conosciuta da tutti come “la cantantessa”. “L’abitudine di tornare” è il suo ultimo disco, uscito dopo cinque anni di silenzio e ora in tour con uno spettacolo concepito per i teatri. In questa lunga pausa l’artista ha osservato la società dall’interno e vissuto l’intima esperienza della maternità tornando momentaneamente ad essere una comune cittadina nella sua ridente Catania. Con “L’abitudine di tornare” la Consoli propone dieci canzoni attraverso le quali racconta realtà di vita differenti e profondamente attuali, passando dal femminicidio e dall’omertà fino ad arrivare alle triste e note tragedie dei migranti. Ma l’abitudine – o la tentazione – più forte per una cantante viscerale e passionale come lei, è quella del rapporto con il suo pubblico.
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con lei in occasione di uno dei suoi concerti in Romagna, al Carisport di Cesena.
Sei tornata sul palco dopo cinque anni di assenza. E’ prevalsa la voglia o la paura?
«Avevo voglia di tornare a suonare dal vivo. In realtà non ho mai smesso di farlo, ma per amici e in contesti ridotti. Per me è sempre una festa suonare, il momento di celebrazione massimo del mio essere musicista, sia sopra che dietro il palco. Non solo per la parte musicale ma anche per il valore umano che ricerco con i membri della band e i collaboratori, insieme ai quali costruiamo per il tour una sorta di famiglia allargata. Ho sempre vissuto il momento del tour come qualcosa di totale, molto più di un girare sale, club o palazzotti per suonare. È il terminale di ogni mio disco, un momento di festa e allo stesso tempo l’occasione per fare quello che in fondo per un musicista è la ragione più profonda del suo lavoro, l’incontro con un pubblico, con il tuo pubblico».
Come lo hai trovato?
«Un pubblico sempre attento che non ha accusato questa assenza. Anzi, è come se lo avessi lasciato ieri, anche se ovviamente lo vedo con occhi diversi, è inevitabile. Sono cresciuta e maturata e non è scontato avere negli anni lo stesso rapporto con il pubblico, forse non è neanche giusto. Ciò che non cambia mai è l’empatia e lo scambio emotivo, il rispetto istintivo con persone che hanno sempre creduto in te, ritrovandosi nelle tue canzoni e sostenendoti spesso dai primi tour. Il rapporto con il pubblico è parte viva e vibrante dei miei spettacoli».
Venti anni fa usciva il tuo primo disco, a che punto della tua carriera artistica ti senti oggi?
«Mi sento in un nuovo inizio. Ho voglia di sperimentare anche cose nuove, concentrami sulle orchestrazioni, sulla parte musicale e non solo sulla scrittura. Anche nella preparazione di questo tour mi sono concentrata e divertita a lavorare su orchestrazioni di brani vecchi in modo da proporli fedeli alla loro natura ma con una natura diversa, senza stravolgerli. Sono contenta di essermi fermata e aver ritrovato la stessa voglia e le stesse motivazioni dell’inizio, Non ho mai vissuto questa mia carriera come fosse un lavoro. Mi sono sempre detto che se non avessi avuto ispirazione, mi sarei ritirata, l’essenziale non sono io ma le canzoni, se ci sono bene, altrimenti posso fare anche altro. A Catania, a casa mia, sto benissimo. Fortunatamente sento ancora le motivazioni e l’ispirazione giusta per continuare, la passione, la voglia, l’amore per la musica».
Come hai trascorso questori ultimi anni lontano dalla luci della ribalta?
«Sono stati anni densi di avvenimenti , la maternità, gli impegni in famiglia, la quotidianità con le sue piccole grandi incombenze, ho dato una mano alla madre nelle attività di famiglia. Sono stati anche cinque anni bellissimi di incontri, di nuove amicizie. Mi sono goduta la mia città. Ho recuperato un po’ di tempo per me stessa. Per me la musica è una cosa di amore e cuore, non ci vivo. La faccio quando mi va, con libertà».
Lavori anche come produttrice per giovani gruppi. Come consideri il panorama della musica emergente italiana?
«Molto più a imbuto rispetto ai miei esordi, con meno spazi e meno alternativa. Negli anni novanta potevi crearti una carriera trasversale anche fuori dal mainstream. Facevi dischi e sopratutto tanti concerti in club pieni di gente, anche senza passaggi in radio. Per rimanere dalle vostri parti mi vengono in mente il Velvet di Rimini, il Vidia di Cesena, il Fillmore di Piacenza, per citarne alcuni, posti dove si ritrovava un pubblico numeroso, trasversale e alternativo. In tanti siamo cresciuti così, pensa a Max Gazzè, agli Afterhours, ai Marlene Kuntz, per citarne anche qui solo alcuni, oggi queste possibilità non ci sono o si sono atrofizzate. Non esiste, nei fatti, l’alternativa a talent show e Sanremo e, anche in quei casi, diventa tutto veloce, effimero, sopravvivono in pochi. Artisti buoni ce ne sono, musicisti validi anche, forse mancano i posti o il pubblico interessato a una certa offerta. Venti anni di vuoto culturale e politico sicuramente non hanno aiutato in questo».
“L’abitudine di tornare”…in Romagna, che rapporto hai, da siciliana, con questi luoghi?
«In Romagna mi sento sempre a casa. Il cibo, la generosità, l’abitudine al sorriso e all’incontro, l’essere su un confine da cui riuscite a prendere il meglio del sud -la solarità e l’accoglienza – e quello del nord -il dinamismo – senza mai dimenticare la condivisione e l’importanza dello stare insieme. È un posto dove si vive bene e dove certi valori sono ancora alla base del modo di intendere, costruire e vivere la società».

Fabbri, Coscia e Trovesi a Rimini per Umberto Eco

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Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia

 

Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia
Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia

 

La dedica del Festival itinerante organizzato da Jazz Network e dall’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia Romagna non è casuale: tra i protagonisti della serata spicca infatti il semiologo riminese Paolo Fabbri, che sarà affiancato dalla fisarmonica di Gianni Coscia in Innocue armi letali, giochi di parole e note a piede libero. Collega di Eco, Fabbri ne è stato personalissimo amico, così come lo era anche Gianni Coscia, che con Eco condivideva anche le origini (entrambi nati ad Alessandria).

La serata proseguirà poi col concerto del duo formato da Gianluigi Trovesi (clarinetti) e Gianni Coscia: una formazione che ha lasciato un segno indelebile nel panorama del jazz italiano degli ultimi 20 anni. Con loro la musica improvvisata si apre alla fantasia del racconto sonoro folklorico.

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4 marzo, ore 21.15 – Rimini, Teatro degli Atti, Via Cairoli 42 – info: 0544 405666, 0541 704293, teatroermetenovelli.it, crossroads-it.org, erjn.it

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L’arte allo stato urbano

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Street art sì, street art no. Mancano ormai davvero pochi giorni all’inaugurazione della mostra più discussa di questo 2016: “Street Art. Banksy & Co – L’Arte allo Stato Urbano”, che apre al pubblico venerdì 18 marzo, allestita in Palazzo Pepoli. Il Museo della Storia di Bologna, infatti, è al centro di un animato dibattito che da mesi impazza su social network e giornali specializzati, non solo bolognesi. Il motivo? Tra le 250 opere presenti in mostra, alcune sono state oggetto di un intervento forzato di rimozione dai muri della città, dichiarato a sorpresa dagli ideatori della mostra a cose ormai fatte. Non si tratta di certo di un primo esperimento in tal senso. Lo stesso Banksy citato nel titolo ha visto spesso coinvolte le sue opere in operazioni analoghe, la più famosa quella organizzata da Sotheby’s poco tempo fa a Londra. Giusto o sbagliato? Si tratta di una scelta che in sé infrange uno dei più importanti taboo del graffitismo: la presenza in un museo, ossia in un luogo istituzionalizzato, di opere nate come interventi effimeri e transitori, nonché rigorosamente anonimi e clandestini, con la conseguente riapertura dell’eterno dibattito sulla relazione tra l’opera d’arte e il suo contesto d’origine.

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Al riguardo, il Presidente di Genus Bononiae Fabio Roversi Monaco difende questa mostra definendo le azioni di rimozione come interventi utili per la salvaguardia di questi lavori, ormai datati e a rischio di cancellazione. Qui già il nostro primo dubbio: la street, di certo, non nasce come intervento eterno. È un’arte aperta, se vogliamo definirla così, destinata anche a contaminarsi con l’azione esterna di altri artisti, e a legarsi inesorabilmente al contesto, fino a scomparire con esso. Certo, in particolari casi – per esempio il murales di Keith Haring realizzato a Pisa – queste opere assumono un’importanza per la collettività che non va sottovalutata e che giustifica un’operazione di recupero, anche se eticamente scorretta. Ma per la mostra bolognese la questione è un’altra. E parliamo della violazione del diritto d’autore, che non può mai essere sottovalutata. Se i writer operano spesso nella clandestinità, nascosti dietro pseudonimi, questo non vuol dire che le loro opere siano prive di autorialità e questa non debba essere tutelata in una qualche maniera. Non sfugge al riguardo il silenzio di Blu o l’invettiva di EricailCane che definisce ironicamente i promotori della mostra come “tombaroli, ladri di beni comuni”.

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Ma non tutti gli artisti coinvolti sono stati contrari all’operazione promossa da Genus Bononiae e dall’Arthemisa Group. Purché se ne parli, si dice. E di street art, forse, non se parla mai abbastanza (al pubblico generico, s’intende) se si considera la sua capillare diffusione sul territorio urbano. C’è ancora oggi chi la confonde con un semplice atto di vandalismo da reprimere e punire. Per questo un’operazione come questa a cura di Luca Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran può aver un senso e di sicuro ha un valore morale ed educativo che si spera i tre curatori abbiano messo ben in evidenza.

Ma d’altro canto – particolare non da poco – la street è un’arte libera e gratuita, e tale deve rimanere. Pagare oggi 13 euro per un biglietto di ingresso a un museo per vedere opere che prima erano di libera fruizione è forse un’azione non così condivisibile. Quindi se mostra dev’essere, che sia almeno gratuita.

 

 

LEONARDO REGANO

Dallo spazio Lilies on Mars arrivano a Forlì

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Lilies on Mars è il progetto di Lisa Masia e Marina Cristofalo.

Sono due giovani musiciste polistrumentiste che abitano a Londra. Hanno pubblicato al momento solo due album Lilies on Mars, Wish You Were a Pony, ma sono diventate famose per la collaborazione con Franco Battiato e Christian Fennesz.

Il loro è un suono che, come indica il titolo dell’album, sembra essere ricevuto dallo spazio. Atmosfere galleggianti arricchite da rumori quasi impercettibili e da elementi sonori rubati alla natura.

Suonano stasera a Forlì al Diagonal Loft Club

 

2 marzo, Forlì Diagonal Loft Club, Viale Salinatore 101, ore 22, info: diagonaloftclub.it

Il reale bisogno di raccontare la vita: David è morto di Babilonia Teatri

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Babilonia Teatri, David è morto - foto di Eleonora Cavallo
Babilonia Teatri, David è morto - foto di Eleonora Cavallo
Babilonia Teatri, David è morto – foto di Eleonora Cavallo

 

David, Iris, i loro genitori e Alex sono tutti personaggi d’immaginazione che appartengono a uno stesso microcosmo reale. Ciò che li accomuna è innanzitutto la lingua frammentata, spezzettata, aggettivante, ipotattica come quelle delle comunicazioni di massa oggi. É pronunciata con voce scandita, urlata, precisa, dettagliata, variabile nelle tonalità e sfumature, per porre l’accento sulle loro esistenze di dolori, disperazioni, sconfitte, rabbia e insoddisfazioni.

Questo è l’elemento linguistico primario su cui Valeria Raimondi e Enrico Castellani hanno scritto e diretto David è morto, spettacolo di Babilonia Teatri.

Sulla scena, quindi, persone comuni raccontano le loro esistenze, presentate con elementi linguistici specifici e singoli. Una canzone accompagna ogni personaggio. Per David (Filippo Quezel) è stata scelta Tender dei Blur; per Iris (Chiara Bersani) The bitter end dei Placebo; Alex (Emiliano Brioschi) canta la sua canzone, perché lui è il re del pop. David, inoltre, si caratterizza perché muove tra le mani un pallone da basket; Iris perché propone il suo fisico; Alex ha la sua chitarra; i due genitori hanno loro stessi e il loro parlare in sincronia. Tutto sono tesi e determinati nelle esposizioni. Appaiono pervasi da un’aggressività linguistica e corporea dettata dalla necessità di azzannare quell’ultimo atto di vita.

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Babilonia Teatri, David è morto - foto di Eleonora Cavallo
Babilonia Teatri, David è morto – foto di Eleonora Cavallo

 

É questo l’elemento che trasforma David è morto da un’apparente narrazione singolare, in una corale. Sul palco sono descritte delle vite già morte, vissute da condannati in attesa di compiere il grande passo a cui però prima è concesso di raggiungere il punto più alto della loro esistenza, il momento più entusiasmante, il ricordo più sentito e vero. David, infatti, si taglia le vene e si mostra sanguinante al padre, sempre odiato, in segno di provocazione, come a volergli dire che lui stesso ha voluto la morte del figlio. Iris si impicca il giorno seguente la morte del fratello dopo aver soddisfatto la sua irrazionale voglia di lussuria. Alex si spara sul palco durante un’esibizione dopo aver raggiunto con la sua canzone il primo posto nelle classifiche di vendita.

C’è un altro elemento che tiene assieme tutte le storie e che permette a David, Iris, Alex e ai genitori di continuare a vivere. É il grande cuore al neon che domina la scena. Vuoto all’interno, descritto solo nel suo contorno, emette una luce fioca e poco riscaldata. Questo oggetto è il grande simbolo delle vite di tutti, è l’amore che non sono mai riusciti a provare.

Narrato in questi termini, dunque, la più recente produzione di Babilonia sembra più una storia di cronaca. L’esigenza narrativa di Raimondi e Castellani è infatti, trasformare la realtà in rappresentazione, portare sulla scena della finzione una percentuale di verità, una storia esistente che per essere manifestata ha bisogno della parola urlata in faccia di chi ascolta. Così facendo, quindi, i due registi veronesi propongono una forma che si compone di dettagli, di immagini, di un linguaggio che è reale e a volte è appositamente non in dizione, perché comune alle chiacchiere di tutti i giorni. I personaggi, infatti, sono innanzitutto attori, come precisa la voce fuori campo la quale nella presentazione precisa il nome dell’attore che successivamente si impossessa del personaggio ripetendo meccanicamente i suoi gesti più caratteristici. Per gli attori è, quindi, un inoltrarsi all’interno di una realtà altra da sé attraverso una consuetudine comune.

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Babilonia Teatri, David è morto - foto di Eleonora Cavallo
Babilonia Teatri, David è morto – foto di Eleonora Cavallo

 

L’immedesimazione da parte del pubblico è totale. Musiche, gesti, parole arrivano direttamente al cuore e al cervello di chi ascolta. Drammaturgicamente, inoltre, lo spettacolo non presenta momenti di distrazione anche perché l’attenzione è tenuta alta a comprendere da parte del pubblico gli intrecci di vita dei personaggi.

É l’apparato linguistico che lascia un po’ di insoddisfazione. L’uso delle canzoni, della voce fuori scena, degli elenchi, l’uso della voce stentorea caratterizzano il teatro di Raimondi e Castellani il quale, probabilmente, avrebbe bisogno di un’evoluzione linguistica così da proporre lo studio della realtà in maniera ancora più diretta.

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DAVIDE PARPINEL

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Visto presso il Teatro Arena del Sole di Bologna il 14 febbario 2016 – info: babiloniateatri.it, arenadelsole.it

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Big Action Money: Illusioni di Ivan Vyrypaev al Teatro degli Atti di Rimini

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foto di Davide Silvi
foto di Davide Silvi

 

Quattro anziani di 84 anni scoprono di non sapere chi sia la persona con la quale hanno vissuto tutta la vita. All’illusione dei personaggi corrisponde quella degli spettatori, che continuano a inseguire un filo logico non cronologico. Allo stesso modo gli attori sono ridotti a corpi, dentro i quali i personaggi rimbalzano. In tale compresenza di funzioni, dove i personaggi sono vivi e gli attori sacchi vuoti, lo spettatore si attiva a sua volta come se quei fatti lo riguardassero.

Scritto nel 2012 e rappresentato per la prima volta al Teatro Praktika di Mosca, Illusioni è uno dei più bei testi del 42enne drammaturgo e regista russo Ivan Vyrypaev, già noto in paesi come Inghilterra, Polonia e Stati Uniti. A farlo conoscere in Italia ci prova la compagnia Big Action Money che dal 2013 ha avviato un vero e proprio “Cantiere Vyrypaev” assieme a L’arboreto teatro dimora di Mondaino. 

Illusioni, frutto di questo progetto di approfondimento, è un testo che solleva quesiti che riguardano il tempo e lo spazio in cui fluttuano le nostre vite. Uno spettacolo da ascoltare e da immaginare, un gioco di scatole cinesi che coinvolge attivamente il pubblico in un match di scambi di personaggi, rimbalzi e ribaltamenti di punti di vista.

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2 marzo, ore 21 – Rimini, Teatro degli Atti, via Cairoli – info:  0541 793811, teatroermetenovelli.it

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Clara Sanchez a Ravenna per l’anteprima di ScrittuRa festival

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Sanchez......

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L’autrice, che dialogherà con Matteo Cavezzali, ha venduto oltre un milione di copie ed è tradotta in tutto il mondo. In Italia con il suo primo libro Il profumo delle foglie di limone è da anni in classifica. In Spagna è l’unica ad aver vinto i tre più importanti premi letterari spagnoli: Alfaguara, Nadal e Planeta. I lettori e la stampa più prestigiosa la adorano. Con Garzanti ha pubblicato anche La voce invisibile del ventoEntra nella mia vitaLe cose che sai di meLe mille luci del mattinoLa meraviglia degli anni imperfetti, il suo ultimo romanzo, uscito in italiano il 25 febbraio.

La storia de La meraviglia degli anni imperfetti è ambientata nel piccolo sobborgo di Madrid in cui è cresciuto passa le sue giornate con l’amico Eduardo e sua sorella Tania di cui è perdutamente innamorato. I due ragazzi non potrebbero essere più diversi da lui. Figli di una famiglia benestante frequentano le scuole e gli ambienti più esclusivi. Eppure  Fran sente che dietro quell’apparenza dorata si nasconde qualcosa. Sente che non sono mai stati del tutto sinceri. Quando Tania sposa all’improvviso un uomo dal passato oscuro, i dubbi si trasformano in certezze. Il fratello comincia a lavorare per lui e da quel momento non è più lo stesso. Fran ha bisogno di sapere come stanno veramente le cose. E una risposta può arrivare solo dalle persone che ha sempre creduto vicine e ora sembrano le più lontane. Ma Eduardo ha bisogno del suo aiuto: gli consegna una chiave misteriosa da custodire chiedendogli di non parlarne con nessuno. Pochi giorni dopo il ragazzo scompare. Da quel momento Fran ha un solo obiettivo: deve sapere cosa è successo. Deve scoprire cosa apre quella chiave. Il suo amico si è fidato di lui. La ricerca lo porta a svelare segreti inaspettati. Lo porta su una strada in cui è sempre più difficile trovare tracce di Eduardo. Perché ci sono indizi che devono rimanere celati e a volte il silenzio dice molto più di tante parole.

La meraviglia degli anni imperfetti è un romanzo sulla forza e il coraggio di un ragazzo che scopre come tutto intorno a lui stia cambiando.

Crescere vuol dire anche accettare che non esistono verità assoulte e che la vita mette sempre davanti all’imprevisto. Ma non bisogna mai perdere la voglia di sapere, di scoprire, di domandare.

Anche se può far paura.

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4 marzo, ore 18.30 – Ravenna, Palazzo Rasponi – info: scritturafestival.com 

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L’inatteso di Fabrice Melquiot con Anna Amadori a Scena Contemporanea

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Anna Amadori
Anna Amadori

 

Lungo addio in versi, L’inatteso ha l’andamento di un melodramma: Liane parla al suo uomo scomparso, inghiottito dal fiume in una guerra indefinita. Le sue parole sono azione, corpo a corpo con la mancanza, ribellione alla scomparsa di un amore, resa alla forza del mondo e del tempo. La sua storia affiora in un gioco della memoria dove, quasi un fantasy, il viaggio è segnato da bottiglie colorate, lampade magiche dei ricordi. La musica in scena è la forma che contiene l’erompere di Liane ed è la sua Eco, il controcanto delle parole, la seconda voce. Il “luogo” de “L’inatteso”, è la soglia che divide il presente e il passato nella sospensione della memoria, una scena fatta di oggetti concreti e visionari, un regno di carta dove Liane è regina in un dramma barocco contemporaneo. Nel 2012 si avvia un dialogo artistico tra la scrittura del drammaturgo francese Fabrice Melquiot e l’attrice Anna Amadori, con l’allestimento, per la prima volta in Italia, de L’inatteso, nell’ambito di Focus Melquiot ideato e curato da Elena Di Gioia e realizzato nell’ambito di Face à Face – Parole di Francia per Scene d’Italia. Scrittura di grande suggestione, spazio del possibile e del sogno, grammatiche poetiche per il teatro di uno tra gli autori più interessanti della scena teatrale europea. Anna Amadori, interprete e regista, con la collaborazione importante del musicista Guido Sodo e realizzato per il Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Dopo lo spettacolo si terrà un incontro su Melquiot con Elena Di Gioia, ideatrice, curatrice e produttrice indipendente di progetti teatrali tra quali il focus Melquiot e il focus Jelinek. Elena Di Gioia, l’attrice Anna Amadori e la docente dell’Università di Bologna Marie-Line Zucchiatti, che ha tradotto il testo, hanno incontrato anche le classi di francese EsaBac dell’ITE Ginanni.

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4 marzo, ore 21 – Ravenna, Teatro Rasi, via di Roma 39 – info: 0544 36239, ravennateatro.com

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Al Teatro Petrella di Longiano I vicini di Fausto Paravidino

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© TUTTI I DIRITTI RISERVATI ©

 

© TUTTI I DIRITTI RISERVATI ©

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Con lo spettacolo I vicini, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e messo in scena per la prima volta nel 2014, Paravidino affronta il tema delle nostre paure. Quelle immaginarie e quelle reali. Le paure reali che sono le nostre paure immaginarie. I vicini è una pièce su noi stessi, sugli altri, su noi stessi e gli altri, sui vicini lontani, sulla guerra, su quello che è reale, su quello che è immaginato, su quello che è reale perché è immaginato. Un po’ come certi fantasmi, un po’ come certo teatro. E’ un commedia che si sviluppa su due binari: quello irrazionale (forse kafkiano) che risponde al desiderio di scavare nell’incubo e quello concreto (un po’ alla Eduardo o alla Woody Allen) connesso al modo di stare in scena che più piace all’autore.

I protagonisti principali sono marito e moglie. Lui sente dei rumori provenire dal pianerottolo. Cercando di non farsi sentire va a guardare dallo spioncino. I rumori cessano. Ritorna al suo posto. Quando Greta torna a casa glielo dice: mentre lei non c’era lui ha visto i vicini. Com’erano? Lui non sa dire, vedere non è capire, però ne ha paura. Perché? E chi lo sa, se sapessimo esattamente di cosa abbiamo paura, probabilmente paura non ne avremmo.

Il cast sarà composto da: Iris Fusetti, Davide Lorino, Fausto Paravidino, Sara Putignano, Barbara Moselli.

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3 marzo, ore 21 – Longiano (FC), Teatro Petrella, piazza San Girolamo 3 – info: 0547 666008, teatropetrella.it

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Le umanissime Crocifissioni di Francis Bacon, Hermann Nitsch e Concetto Pozzati

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Concetto Pozzati, De-posizione, 2006
Francis Bacon
Francis Bacon

 

Intrighi del mondo dell’arte.

Oltre seicento lavori su carta attribuiti a Francis Bacon: tra il 1977 e il 1992 li avrebbe regalati a Cristiano Lovatelli Ravarino.

Sull’autenticità di queste opere è in corso una complessa battaglia legale.

Non abbiamo le competenze per (né l’interesse di) addentrarci nel merito di questa articolata questione, qui accennata solo per dovere di cronaca.

Ciò che desideriamo proporre ora è, semplicemente, il resoconto di una breve visita a una mostra del tutto affascinante.

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Francis Bacon
Francis Bacon

 

Arriviamo a Bologna in un freddo pomeriggio di febbraio, percorriamo a passo svelto via Galliera fino al civico 8, là dove si trova l’imponente Palazzo Montanari. In alcune sale di questo storico edificio è allestita la mostra Crocifissioni/Crucifixions. 

Ad accoglierci, oltre ad alcune gentilissime assistenti, ci sono la responsabile dell’esposizione Antonella D’Andrea e il suo ideatore Umberto Guerini (anche avvocato di Cristiano Lovatelli Ravarino per le questioni di riconoscimento dell’autenticità sopra tratteggiate).

Il percorso si apre con  alcune opere recenti di Concetto Pozzati, tele di medie e grandi dimensioni dai cupi e al contempo vividi cromatismi che l’artista ottantenne introduce: «Sevizie brutali e crudeli. Un giovane urla bendato… cani e belve che si agitano vicino al corpo… un uomo nudo incappucciato anche lui mascherato. Le sevizie continuano. Sto disegnando (provo a farlo) lo scempio. Tutto color terra, viola la figura centrale, nero il torturato. Grande forbice sulla testa. Forse troppo “letterario”, troppo descrittivo… Non posso più aggrapparmi né all’ironia né all’eleganza… è catastrofico, inquietante, tragico e le figure nascono da un nero ferroso».

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Concetto Pozzati, De-posizione, 2006
Concetto Pozzati, De-posizione, 2006

 

L’approccio laico, intriso di umanissima pietās suggerito da Pozzati è ciò che accomuna le Crocifissioni di questi tre grandi autori.

Il nucleo centrale della mostra è costituito da una ventina di lavori su carta di Francis Bacon: «So che per le persone religiose, per i cristiani, la Crocifissione riveste un significato totalmente diverso. Ma per me, non credente, è solo un atto del comportamento umano, un modo di comportarsi nei confronti dell’altro».

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Francis Bacon
Francis Bacon

 

Le opere su carta del pittore inglese presenti a Palazzo Montanari riprendono e rilanciano il funzionamento delle sue (più note) tele. Risulta evidente un analogo procedimento di isolamento: se nei quadri ciò avviene immettendo le Figure in un cubo, in un parallelepipedo, su una rotaia, su una barra tesa o in poltrone svasate e arcuate, qui ciò si sostanzia attraverso il rapporto fra le Figure e vivaci campiture monocrome ottenute tramite collage di disegni su carta e cartoncini. Così come nei dipinti, anche in questo caso il procedimento di isolamento è messo in atto per esorcizzare il carattere figurativo, illustrativo di queste magnetiche Figure aggettanti.

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Francis Bacon
Francis Bacon

 

Anche in questi lavori su carta Bacon ricorre a due tecniche per lui consuete, allo scopo di tendere al «figurale» (per stare con la definizione di Jean-François Lyotard) e scongiurare il carattere narrativo, figurativo della pittura: pulitura locale (soprattutto dei volti) e inserimento di tratti asignificanti.

Risultato: manifestare Figure il cui corpo è oggetto dell’azione di forze invisibili.

E presentare corpi che ci vengono incontro «senza organi», si potrebbe dire evocando Artaud.

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Hermann Nitsch, Deposizione nel sepolcro, serigrafia su relitto, 2007 - Courtesy Boxart, Verona
Hermann Nitsch, Deposizione nel sepolcro, serigrafia su relitto, 2007 – Courtesy Boxart, Verona

 

Ed è proprio pensando a uno dei più furiosi Padri Fondatori delle rivoluzioni teatrali del Novecento che entriamo nell’ultimo grande salone della mostra, quello che accoglie una solida installazione di Hermann Nitsch: «Otto grandi tele (due metri per tre ciascuna), disposte a formare un parallelepipedo, una “cella” al centro della stanza, in cui i colori di varia consistenza sono schizzati, spalmati, sgocciolati e versati dall’alto».

Il fondatore dell’Azionismo viennese e ideatore del Das Orgien Mysterien Theater (Teatro delle Orge e dei Misteri) ha personalmente allestito a Palazzo Montanari anche due dei suoi disegni più importanti: Ultima Cena (1976-79) e Deposizione nel Sepolcro (2007), «due momenti fondamentali della vita di Cristo, in cui è l’umanità del figlio del Dio a prevalere».

Significativamente, queste due opere sono classificate come «serigrafia su relitto»: il medium è il messaggio.

Umanissima pietà, crocifissioni feriali. Lingua di ferro, Figure aggettanti. Perfetto.

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MICHELE PASCARELLA

 

Info: francisbaconcollection.com

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E’ uscito da pochi giorni ‘Teatro nelle fibre del corpo’, il primo libro di poesia di Franco Acquaviva

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Scrive il poeta Andrea Temporelli (Il cielo di Marte, Einaudi, 2005) nella prefazione al volume:

Franco Acquaviva è giunto a queste terre, immaginiamo, ripercorrendo “sentieri di capre” non troppo dissimili da quelli su cui lo stesso Dante, nel mirabile discorso di Mandel’štam, ha dovuto mettere alla prova la propria andatura, umana e prosodica. Malgrado l’improvvisa, straziante bellezza della natura che ancora straripa in questi luoghi, non c’è idillio in quelli che si rivelano essere un “cantiere perenne, ostile…”; piuttosto, c’è una pace tesa, combattuta, come di chi avesse imparato a trasformare l’esilio in patria, nella terra dei padri. Si veda nelle pagine che seguono, in tal senso, il richiamo costante agli antenati, ai morti, alla memoria delle genti di cui il paesaggio resta intriso – ma anche ai figli, naturalmente, perché il filo della civiltà non si spezzi: «Non chiamarli figli, ma incantatori; / loro hanno tessuto questa tela intorno / sta a te tenerla tesa, non disfarla, / controllare che il loro peso sia accolto / ogni giorno con levità, vegliando».

Il volume è pubblicato da Giuliano Ladolfi, editore di Borgomanero particolarmente attento alla poesia contemporanea, cui ha dedicato ben due collane. Ladolfi annovera nel proprio catalogo, tra gli altri, Franco Loi, Nicola Gardini, Rabindranath Tagore e Luca Canali.

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Franco Acquaviva, Teatro nelle fibre del corpo, 2016, 162 p., brossura, Giuliano Ladolfi Editore, collana Perle Poesia, € 12,00. Il volume è acquistabile anche on-line su IBS e Amazon

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L’irresistibile Guido Catalano al Bronson con il suo reading

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Un passaparola nato dalle sue performance nei bar delle periferie, nei circoli Arci, nelle librerie, sui palchi dei centri sociali e dei festival letterari e musicali. I suoi versi intrisi di romanticismo e tenerezza oggi fanno il giro del web, affollano le bacheche dei social network, riempiono gli scaffali delle case degli italiani, e probabilmente anche le loro notti d’amore. Lo leggiamo su “Il Fatto Quotidiano” e lo ascoltiamo ogni lunedì su Radio Rai 2.

Guido Catalano in questo tour speciale salirà sui palchi dei teatri e dei club più prestigiosi italiani, per proporre uno spettacolo che attraverserà il meglio e il peggio (edito e non) della sua produzione letteraria, uno show che si preannuncia ad alto tasso di erotismo, irriverenza, amore. Fra sorrisi, lacrime e stupore, uno show che si promette di migliorare addirittura la vostra esistenza.

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2 marzo, ore 21.30 – Madonna dell’Albero (Ravenna), Bronson, Via Cella 50 – Ingresso 10 € (8 € + d.p. in prevendita) – info: 333 2097141, bronsonproduzioni.com

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Duum: le acrobazie dei Sonics arrivano al Duse di Bologna

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A tre anni dall’ultima loro performance a Bologna, la compagnia italiana di acrobati e danzatori SONICS torna a Bologna con lo spettacolo Duum.

Nuove scenografie, l’utilizzo di effetti speciali di matte Painting (scenari videoproiettati) ed una colonna sonora composta ad hoc per lo spettacolo, insieme alle immancabili acrobazie, trasporteranno il pubblico di tutte le età nei luoghi e tra gli abitanti di un mondo mitico situato al centro della Terra.  Un mondo fatto di cunicoli e di grotte nel quale i suoi abitanti si muovono tra salti nel vuoto ed acrobazie da lasciare col fiato sospeso.

Duum è il rumore di un salto, quello che permetterà agli abitanti di questo regno leggendario situato nelle viscere della Terra di fare ritorno sulla superficie terrestre, dove c’è ancora qualcosa di buono che merita di essere visto e vissuto. Mosso da questa convinzione dopo un lungo tempo di forzato esilio lontano dalle malvagità della Terra, l’architetto Serafino, aiutato dai suoi compagni di avventura, si muove nello spazio scenico di una caverna elaborando formule matematiche e costruendo strambi trabiccoli per uscire, una volta per tutte, dal mondo sotterraneo che li ospita.

Performance atletiche e acrobatiche che si trasformano in vere e proprie poesie visive, insieme a giochi di luce ed effetti speciali raccontano il trasmigrare di Serafino e dei suoi compagni dal “mondo di sotto” alla luce del Sole.

Duum è una fiaba moderna dove magia e adrenalina si intersecano per raccontare come la complicità tra le persone possa portare a risultati inimmaginabili.

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1 marzo, ore 21 – Bologna, Teatro Duse, via Cartoleria 42 – info: 051 231836, teatrodusebologna.it

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Per cosa vale la pena lottare. Incontro con Carlo Formenti

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Il capitalismo crollerà da solo e in modo indolore? Carlo Formenti ci mostra come questa “utopia”, fatta propria dalla sinistra postmoderna che rinuncia alla lotta di classe, sia infondata e “letale”, impregnata degli stessi valori liberali che pretende di combattere e incapace di cogliere il permanere dello sfruttamento e l’accentuarsi della “standardizzazione” che sono al cuore dell’odierno “capitalismo immateriale”. Più utile sarebbe, secondo Formenti, osservare il movimento operaio nei Paesi emergenti – ciò che Chan, Ngai Pun e Sulden fanno rispetto al caso specifico e macroscopico della cinese Foxconn (e del suo committente Apple), con le sue fabbriche-dormitorio e i suoi turni di lavoro massacranti nel senso letterale del termine, e con le discontinue mobilitazioni degli operai, in una nuova lotta di classe per la quale “La Cina è vicina” più di quanto non lo fosse mezzo secolo fa.

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2 marzo, ore 21 – Bologna, Modo Infoshop, via Mascarella 24/b – info: bolognaalbivio.wordpress.com, modoinfoshop.com

 

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Suffragette: Lotta di genere in confezione deluxe

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Suffragette (1)Era il quattro giugno del 1914 quando Emily Wilding Davison si recò alla pista londinese di Epsom Downs – il più grande tracciato equestre al mondo – portando con sé due bandiere a sostegno del movimento suffragista del Regno Unito, organizzazione tesa a promuovere l’emancipazione femminile e il diritto al voto per le donne (da cui il sostantivo suffragette, crasi tra suffrage, appunto «diritto di voto», e il suffisso –ette, importato dalla Francia ma di uso comune, anche nei paesi anglofoni, per indicare elementi femminei). Durante la corsa, avendo fatto irruzione sul circuito con l’intento di assicurare una delle due bandiere al cavallo di Re Giorgio (affinché la causa ottenesse visibilità sempre più ampia), la donna venne travolta dal passo dell’animale, riportando fratture su tutto il corpo e un trauma cranico irreversibile, che l’avrebbe portata alla morte pochi giorni dopo.

Suffragette (3)L’episodio, opportunamente romanzato, costituisce, a pochi minuti dalla conclusione, il momento centrale di Suffragette, ricostruzione di alcuni tra gli eventi più importanti nella lotta sostenuta dalle donne britanniche del primo ‘900 per il conseguimento dei propri diritti civili, istituiti dal parlamento del loro paese solo nel 1928 (e difatti i titoli di coda del film riportano l’elenco delle nazioni che hanno fatto altrettanto, ordinato secondo criteri cronologici: in testa ci sono Isola di Man e Nuova Zelanda, avallatrici del suffragio femminile alla fine dell’Ottocento, e in fondo c’è l’Arabia Saudita, dove le donne possono votare dallo scorso anno). La sceneggiatrice Abi Morgan, già responsabile della biografia per immagini di Margaret Tatcher (The Iron Lady, ossia «la Lady di ferro», diretto nel 2011 da Phyllida Loyd), e la regista Sarah Gavron, però, hanno scelto di inquadrare i fatti storici nella vita fittizia di Maud Watts, lavandaia condannata a un’esistenza miserabile ma da questa scappata, nonostante l’ostracismo della famiglia e delle istituzioni, grazie all’attivismo di alcune colleghe e alle teorie egualitarie della loro guida, la fondatrice della Woman’s Franchise League («lega per il diritto di voto alle donne») Emmeline Pankhurst.

Suffragette (2)Malgrado la bravura delle interpreti, da Carey Mulligan nel ruolo di Maud a una sempre impeccabile Meryl Streep nei panni della Pankhurst, fino all’infaticabile Edith Ellyn (ispirata alla professoressa Edith New) di Helena Bonham Carter, la pellicola risulta tanto elegante e ricercata, soprattutto nella rievocazione dell’amaro e talvolta feroce grigiore pre-industriale dell’epoca, quanto, purtroppo, fasulla, un po’ come i volti delle tre suddette attrici nelle locandine sia inglesi sia internazionali, tutti e tre a tal punto ritoccati con Photoshop da rendere irrilevante una differenza anagrafica in realtà piuttosto vistosa (tra la Streep e la Mulligan ci sono 36 anni, tra la seconda e la Carter altri 20). Se i temi principali di Suffragette – l’opposizione a uno schema sociale iniquo, la necessità di riconoscersi in una causa condivisa e sacrosanta, la vitalità e il coraggio delle figlie della classe operaia – vengono affrontati con amara sincerità e un salubre margine di disincanto, la stessa cosa non si può dire, invece, dell’impianto visivo in genere adottato dal film, in pratica una discesa negli inferi di una Londra emarginata e proletaria resa tuttavia un po’ scolastica dalla lapidaria sentenziosità dei dialoghi, dalle oscillazioni sin troppo raffinate della macchina da presa e da riprese in cui lo squallore esistenziale e la sporcizia cittadina del periodo vengono impacchettati concedendo spazio eccessivo al format da cartolina pubblicitaria.

Suffragette (4)Benché mai dolciastra, la regìa risuona inerte, anonima, impersonale, troppo costruita per suscitare vera indignazione, troppo impostata su ritmi televisivi per consentire una lettura attualizzante; la scrittura, dal canto suo, occupa e opprime ogni fotogramma col recinto di una narrazione didascalica, così innamorata dei propri vezzi melodrammatici da scordarsi, in più di un’occasione, della storia rabbiosa che avrebbe dovuto raccontare. Certo, è difficile immaginare un Suffragette impaginato con lo stile furioso e aggressivo di Sweetie (1989) di Jane Campion, o con l’irruenza dolente del pur irrisolto Sulla Terra Come In Cielo (Between Heaven And Earth, 1993) di Marion Hänsel (oppure ancora con la sofferenza devastante di Wendy And Lucy [2008] di Kelly Reichardt), ma di fronte a tanto potenziale drammaturgico diluito in composizioni sceniche all’insegna del formalismo è parimenti difficile trattenere il disappunto.

Suffragette (5)C’è in realtà, nell’opera di Morgan e Gavron, almeno una parentesi di vera emozione. Mi riferisco alla sequenza in cui Maud porta il figlio in visita dalla dottoressa Ellyn e, dopo aver osservato gli attestati e i diplomi incorniciati alle pareti (nonché dopo aver masticato nell’animo l’abisso di opportunità intellettuali, culturali e formative che separano una donna della media borghesia da un’operaia di fabbrica), domanda a quest’ultima se sia «una suffragetta». I consider myself more of a soldier («Mi considero più come un soldato»), le risponde la donna, ottenendo da Maud uno sguardo pieno di affetto sororale, ammirazione, inaspettata solidarietà e forse, come scopriremo più avanti, desiderio di riscatto, personale e collettivo. Si tratta di un attimo, per di più racchiuso in poche immagini, ma è sufficiente a sintetizzare con efficacia tutta l’esitazione e, al tempo stesso, la diversità inesauribile (di prospettiva, di atteggiamento, di considerazione di sé) di due voci femminili stanche di sentirsi proprietà altrui e di osservare i dettami della morale corrente (oggi come allora, verrebbe da dire, perché dalla Londra del 1914 alla Woman Is The Nigger Of The World di John Lennon, dal femminicidio nel nostro codice chiamato “delitto d’onore” alle migliaia di abusi nascosti sotto l’ombrello del matrimonio, molto ancora resta da fare). Un attimo che custodisce un mondo di pensieri, sensazioni, passioni e, finalmente, di cinema.

Gianfranco Callieri

SUFFRAGETTE

Sarah Gavron

Uk – 2015 – 106’

voto: **1/2   

Il cinema della Verita: a Faenza una rassegna di docufilm

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uomini proibiti
da “Uomini proibiti” di Angelita Fiore

L’arrivo del treno dei Lumiere, era in fondo un documentario di pochi secondi ma è ancora possibile guardare la realtà in movimento in un locale stile ’800. Ecco Il Cinema della Verità, rassegna dedicata ai docufilm, ospitata nel Ridotto del Teatro Masini, sala neoclassica di fresco restauro. Sei serate per questo genere uscito dalla nicchia ma che combatte per avere visibilità. Il vulcanico Ruggero Sintoni di Accademia Perduta ne è il curatore «Come giurato al Festival Internazionale De Baggis ho potuto vedere 60 lungometraggi in concorso scoprendo un mondo da valorizzare. I documentari italiani sono di qualità, compensano ciò che manca nel cinema. Ho portato i migliori titoli: il 2 marzo Meno male è Lunedì, di Filippo Vendemmiati, sul gruppo di metalmeccanici che insegna il mestiere ai detenuti nel carcere della Dozza. Già autore di È stato morto un ragazzo, Vendemmiati entra con taglio giornalistico nelle istituzioni. Ho convinto la giuria ad assegnargli il premio Touring  per il film che più valorizza una regione perché, anche se girato in prigione, mostra l’Emilia-Romagna delle aziende ad alta tecnologia, dove oltre ad eccellenze industriali ci sono anche operai specializzati che insegnano il lavoro a carcerati immigrati. Anche così si tutela il territorio, non basta solo preservare il paesaggio ma anche investire nei più emarginati». Il 16 marzo tocca al regista Marco Zuin con i suoi poetici corti a sfondo sociale ambientati nell’Africa più abbandonata, il 6 aprile ci sarà Uomini proibiti di Angelita Fiore, che narra di preti sposati, delle loro compagne e della scelta di abbandonare l’abito. Il 13 aprile il circense Adriano Sforzi, presenta L’equilibrio del cucchiaino sul più sfortunato e felice giocoliere di sempre. «Si chiude con Bella e perduta di Pietro Marcello – aggiunge Sintoni – documentario che ha costretto i Beni Architettonici a recuperare il patrimonio protagonista della storia» ossia la Reggia di Carditello, e il film, tra fiaba e denuncia civile, si avvale del cameo di Claudio Casadio, attore romagnolo visto in L’uomo che verrà. Tutte le proiezioni sono ad ingresso gratuito e la rassegna è realizzata in collaborazione con Associazione Documentaristi Emilia Romagna, Sunset Studio, Festival Internazionale De Baggis, Cinemaincentro, Società Coop di Cultura Popolare – Cultura Impresa Festival e Cineclub Il Raggio Verde.

 

Fino al 13 aprile

IL CINEMA DELLA VERITÀ,

Faenza (RA), Ridotto del Teatro Masini, piazza Nenni. Ore 21

Info: 0546 21306, accademiaperduta.it, cineclubilraggioverde.it

Ultralegalismo

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L'inceneritore di Parma
L'inceneritore di Parma
L’inceneritore di Parma

Essere sempre dalla parte buona. Giusta. Un assillo millenario del genere umano. Un morbo, che collide con un altro germe, anche questo costitutivo dell’essere e del fare umano: il potere. Ben presto, i potenti s’accorgono che un solo vessillo vidima questo scudo divino, il potere. Questo vessillo è la legge.

Tutti i detentori di ogni potere, magno o micro che sia, agognano fare leggi. Perché fare leggi vuol dire fare la realtà. E quindi creare la verità. Cioè: fare leggi vuol dire essere creatori di verità. Vi sembra un dominio da poco? Ora però chiediamoci una cosa: quale posto occupa la legge nel convivio della giustizia?

Cosa? Giustizia? Il povero Socrate, fin dalle cinque del mattino, dopo aver passato notti insonni nelle bianche case di marmo dei potenti e dei ricchi ateniesi a parlare di poesia, politica, e potere, girava il quesito ai mercanti e ai pescatori: è preferibile la legge o la giustizia? Suvvia Socrate, non rompere. Più o meno così gli rispondevano tutti quanti. Aggiungendo: legge è giustizia. Deve esserlo. Socrate non credeva a questo dogma. E morì pur di dimostrare a tutti che era errato.

Oggi noi non dobbiamo per forza morire. Però a causa del dispositivo della Regione dell’Emilia Romagna sul divieto di circolazione dei mezzi inquinanti dalle 8 alle 18, dal lunedì al venerdì, nelle cinture cittadine (non solo nei centri storici, attenzione), parecchi cittadini potrebbero essere costretti a cambiare auto, perché troppo vecchia e quindi troppo inquinante.

Perché dobbiamo tenerla pulita, l’aria della nostra regione, per lasciare che a sporcarla siano i tanti inceneritori distribuiti lungo la via Emilia. Ma magari no, quei cittadini l’auto non la venderanno.

Si chiedeva il filosofo tedesco Max Horkheimer: Riusciranno mai 50mila leggi fare una giustizia? Forse sì, rispondiamo noi. Basta che la legge abbia la pazienza di ascoltare e accogliere la realtà, come fa la giustizia, e non l’arroganza di creare verità su verità, fumosamente attorcigliate tra loro in un fatale abbraccio. Ribellarsi, allora? O magari solo chiedere ai potenti, micro o macro che siano, di sfoltire i nebulosi cieli di leggi, norme, codici, regolamenti, e riempirli di un po’ di giustizia.